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A CHE COSA CI RIFERIAMO CON IL TERMINE “NON-ESSERE”

Nel documento Non essere (pagine 164-171)

VERITÀ DEL NON ESSERE

1. A CHE COSA CI RIFERIAMO CON IL TERMINE “NON-ESSERE”

“Non-essere” – almeno nella sua accezione assoluta (to me on haplós) – è un termine non denotante, ma piuttosto funzionale. Di che cosa parliamo, dunque, quando parliamo di “non-essere”?

1.1. Essere, non essere, pensiero

Se il pensiero ha come suo contenuto l’essere (il positivo), parla-re del non esseparla-re – se si vuole che quel parlaparla-re sia significante – sarà, ancora una volta, un certo modo di parlare dell’essere. In che senso, però? Nel senso della ipotesi della trascendibilità dell’essere stesso.

“Non essere” è il nome che si dà alla ipotesi della trascendibilità dell’essere (questo è il senso appropriato di quella espressione); e insieme è la attestazione della non consistenza di tale ipotesi. A quel senso non corrisponde alcun possibile denotatum: infatti, il ten-tativo di trascendimento non dà adito ad alcunché (che non sia un positivo, naturalmente).

Si può anche dire – sinteticamente e paradossalmente – che “non essere” sia un nome dell’essere: quello specifico nome che dell’esse-re indica l’intrascendibilità. Intrascendibilità guadagnata in due momenti: lo sporgimento ad extra; e il reinvio ad intra, in considera-*Professore ordinario di Filosofia Morale, all’Università “Ca Foscari” di Venezia.

zione del fatto che nella fattispecie – si tratta infatti dell’essere – ogni extra, in tanto in quanto ha consistenza, è un intra, e, in tanto in quanto non ha consistenza, non costituisce neppure un extra.

“Non essere” è dunque quel nome dell’essere che evidenzia la convertibilità, reciproca e inevitabile, di essere e pensiero. Anzi, è – prima ancora – il fattore che introduce la semantizzazione recipro-camente distinguente di essere e pensiero, facendo tra loro – in certo modo – da “terzo”.

Si noti che élenchos è la movenza argomentativa che, dall’interno dell’essere, progetta sperimentalmente l’evasione (l’evasione dalle curvature caratterizzanti, e perciò coestensive, dell’essere stesso), e ne constata l’impraticabilità: constata cioè che la heterotes, rispetto ad esse (ad esso, dunque), può darsi solo come tautotes1.

La heterotes è la capacità che l’essere ha di porsi a distanza da sé per verificare che ciò può accadere solo dall’interno dell’essere stesso. Pensiero è appunto tale heterotes, che trova nel “non essere” il luogo ideale della propria collocazione sperimentalmente ulteriore all’esse-re; ed è insieme la necessità del rientro sulla tautotes dell’essere stes-so, sperimentata come intrascendibile. Il pensiero è il manifestarsi della interiorità della heterotes alla tautotes: tale interiorità significa che il trascendentale si rivela come tale, in quanto è in relazione dialettica col proprio trascendimento posto-come-tolto. Una relazione che trova la sua espressione sintetica nella coppia di essere e non essere, dove il “non essere” è il paradigma delle violazioni dell’essere, cioè è l’espressione sintetica del trascendimento impossibile: concepito appunto come impossibile, cioè come incapace di venire alla luce, ovvero incapace di una propria manifestazione autonoma.

Da Parmenide in poi, la filosofia è la consapevolezza della origi-naria immanifestabilità del “non essere”. Il senso ultimo del divieto parmenideo alla praticabilità della via del “non essere” sta nella incapacità di quest’ultimo a prodursi alla luce del pensiero come un che di autoconsistente, piuttosto che come il nome negativo della assolutezza dell’essere2.

1Cf. PLOTINO, Enneadi, V, 3, 10.

2Che cosa significa che il pensiero è manifestazione dell’essere? Significa che ne è un nome, cioè che è una sua appartenenza. Significa che l’essere non è

Ora, il tentativo di andare oltre l’essere, per ritrovare alla fine l’essere – questa dialettica che platonicamente diremmo di “movi-mento” e di “quiete”3– è proprio ciò che specifica il pensiero rispetto all’essere. È la dieresi originaria di pensiero ed essere, i quali vanno appunto semantizzati diaireticamente, essendo originariamente indi-scernibili. Si può dire – articolando meglio – che, se fenomenologica-mente non c’è occasione per distinguere tra essere e pensiero, élenchos è il luogo della possibile distinzione che, se supera l’indiscernibilità, conferma la coestensione; analogamente a come l’autocontraddizione è luogo di discernimento tra pensiero e linguaggio.

1.2. La funzione semantizzante del non essere

Il “non essere” viene messo a tema per precisare la natura del-l’essere. Una semantizzazione dell’essere non potrà valersi della riconduzione di questo significato, inestricabile da ogni altro, ad un àmbito più comprensivo entro cui poi lo si possa specificare: tale semantizzazione non potrà realizzarsi, cioè, per genus et differentiam. L’essere, dunque, potrà mostrare il proprio significato solo in rela-zione a se stesso, e più precisamente all’ipotesi del proprio togli-mento. Il me on haplós nomina tale ipotesi. Dire poi che l’essere

qualcosa cui il pensiero debba o possa sopraggiungere (da dove, del resto, potrebbe farlo?). Ma, l’originaria manifestatività dell’essere (e quindi del reale) come si giustifica? Elencticamente – come già insegnava Plotino. L’originaria noeticità dell’essere non è dunque una scommessa: è piuttosto una necessità elenctica. Il non essere niente per nessuno (ovvero, “da nessun punto di vista”) è un non essere simpliciter. “Nessuno” vuol dire nessuna coscienza: cioè, nessuna istanziazione del pensiero, originaria o secondaria che essa sia. Più precisamente, un al di qua (o un al di là) dell’essere non c’è. E neppure il pensiero può risultare questo improponibile “al di qua” (o “al di là”). Ma anche un al di là (o un al di qua) del pensiero non c’è. E neppure l’essere può risultare questo improponibile “al di là” (o “al di qua”). In altre parole, “essere in quanto essere” e “pensiero in quanto pensiero” sono nomi (reciprocamente convertibili) della presenza. La presenza è la “datità” del dato (ovvero, l’orizzonte in cui il dato – ogni dato – si manifesta).

“resiste”, “si oppone” a tale ipotesi non vuol dire – non può voler dire – che esso debba vincere alcunché di efficacemente o effettiva-mente minaccioso, che ne precarizzi la stabilità.

L’ipotesi in questione è – almeno in prima battuta – consistente, ma ciò che essa ipotizza non è alcunché di sussistente. L’“aporia del nulla”, da Severino intelligentemente ripresa da una lunga tradizio-ne, sta appunto nella rilevazione della consistente predicabilità di un che di assolutamente non-sussistente: il nulla, infatti, rientra nel-l’essere, in quanto termine positivamente significante; ed è vicever-sa escluso dall’essere, in quanto significato intrinsecamente impos-sibilitato ad attuarsi.

In proposito, va ricordato che l’ipotesi del toglimento dell’essere implica l’ipotesi che vi sia una alterità rispetto a esso: ipotesi, que-st’ultima, che “rientra” inevitabilmente. E questo è il destino che l’essere, non tanto ha, quanto piuttosto è: l’intrascendibilità. Il non essere è appunto l’indice di tale intrascendibilità. Esso è “l’orizzon-te” dell’essere, nel preciso senso che è l’alterità incostituibile dell’es-sere stesso.

Questa situazione – osserviamo – non deve comunque prospetta-re alcuna simmetricità tra esseprospetta-re e non esseprospetta-re, né tanto meno alcuna coessenzialità tra le due figure. Piuttosto, se una adeguata se-mantizzazione dell’essere comprende – come suo secondo momento – l’opposizione al non-essere, non si risolve però in essa, pena la tautologicità pura. Più precisamente, una adeguata semantizzazione comprende il momento della rilevazione della apprensione del positivo e, in seguito a quella, la divaricazione del positivo dal nega-tivo, coincidente – quest’ultima – con l’istituzione del principio di non contraddizione. Del resto, la stessa rilevazione della impossibili-tà di definire l’essere per genere e differenza indica, con ogni evidenza, che dell’essere si ha una nozione (anche alquanto struttu-rata) ben prima della sua precisazione per esclusione del negativo.

Solo nel caso in cui, arbitrariamente, si ritenesse che la mancata considerazione che un certo significato (x) è negazione della propria negazione (non-x) implichi di per sé l’identificazione di x e non-x, allora il significare predialettico (ma non a-dialettico) dell’essere – che solo giustifica la sua opposizione al nulla – dovrebbe essere coe-rentemente escluso come un’ipotesi essa stessa autocontraddittoria.

1.3. Discussione dell’“aporia del nulla”

La già accennata discussione che Severino dedica alla “aporia del nulla”4 ha un aspetto felice e uno decettivo. Ma, per poterne parlare competentemente, occorre anzitutto richiamare le due for-mulazioni che Severino dà dell’aporia:

(a) in tanto in quanto il nulla è implicato dalla posizione dell’essere (come suo opposto semantizzante), esso è un positivo;

(b) in tanto in quanto il nulla è propriamente nulla, allora non è neppure l’opposto semantizzante dell’essere. La soluzione severiniana dell’aporia è ricostruibile, per l’essen-ziale, nei termini seguenti. Il “nulla momento” (cioè il nulla come assoluta assenza di contenuto) è un che di non-contraddittorio, ed entra come tale nella relazione semantizzante. La contraddizione riguarda il concreto della struttura che è costituita dal “nulla mo-mento” in congiunzione col suo “positivo significare”. Si noti che qui, paradossalmente, a risultare contraddittorio è il concreto della struttura. Del resto, per Severino, «il principio di non contraddizio-ne non esige che non esistano significati autocontraddittori, ma che l’autocontraddittorietà sia come tolta»5.

Dal punto di vista classico, invece, non è contraddittoria la strut-tura in questione; semplicemente è contraddittoria l’ipotesi che il “nulla momento” sussista, si dia in atto – e non si limiti, dunque, a significare positivamente alcunché. Ma, a ben vedere, non c’è con-traddizione neppure nella struttura concreta che Severino prospet-ta, perché lì il negativo e il positivo non sono tali sub eodem.

L’elemento felice è l’articolazione del “non essere” in “positivo significare” e “nulla momento”, dove il “non essere” come dotato di significato determinato rientra positivamente nell’essere, mentre il suo contenuto se ne autoesclude (dal che, poi, Severino trae la

4Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, cap. IV.

5Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, p. 217. In questo, Severino sembra convenire con Hegel, contro Aristotele.

considerazione per cui il concreto del significato è il luogo della contraddizione, mentre solo una astratta considerazione di quel momento astratto che è il “non essere” inteso come contenuto, può fare apparire quest’ultimo come contraddittorio – e questo, nel senso che non dovrebbe neppure darsi, in quanto assolutamente negativo). Il “nulla come positivo significare” è un certo contenuto dell’essere; il “nulla momento”, invece, è il limite autotoglientesi dell’essere.

L’elemento decettivo sta invece nella posizionalità del “non essere”, che Severino introduce come condizione “orizzontale” della posizione stessa dell’essere. Questo è un evidente elemento idealistico: classicamente si rileva invece la dissimmetria radicale tra il positivo e il negativo. C’è (solo) il positivo; mentre il negativo è o uno dei suoi nomi (non-essere assoluto) o uno dei suoi modi non originari (non-essere relativo).

1.4. L’aporia del nulla in Anselmo

La discussione dell’aporia del nulla trova un antecedente classi-co nell’anselmiano De casu diaboli (1080)6. In questo testo, di quattro anni successivo al Monologion (di cui pure diremo), Anselmo ripren-de distesamente – per bocca di un “discepolo” – una aporia là già accennata (al cap. 8). Ecco, nel seguito, i termini di questa ripresa (il riferimento è al cap. 11).

1.4.1. O il nihil è un autentico nome (e non solo una vox), cioè è un termine referenziale, e allora non può voler dire quello che pre-tende di dire: corrisponde infatti a un aliquid e non a niente. Oppure vuol dire quel che pretende di dire, cioè significat nihil, ovvero non è referenziale; e allora non vuol dire alcunché («ut ipsum nomen nihil significet» è infatti diverso da «id est non significet aliquid»).

1.4.2. Il “maestro” ipotizza che il significare nihil e il significare aliquid, da parte del medesimo nome, non implichino, qui, contrad-dizione: evidentemente, perché – nella fattispecie – ciò non si dà sub eodem. Ecco in che senso.

6Il testo di Anselmo è qui tradotto a cura nostra sulla base della edizione latina di F. S. Schmitt.

“Nihil” equivale a “non-aliquid”: nel suo significato comprende dunque l’aliquid, cioè il qualunque contenuto positivo che esso removet da sé (contiene, dunque, il positivo in quanto tale). In tal senso, esso significa insieme “qualcosa” e “niente” – e senza con-traddizione: «significat enim removendo; et non significat constituendo». Leggiamo al riguardo: «Per questa ragione, il nome nihil […], in quanto annulla [destruendo], non significa nulla, bensì qualcosa; in quanto costruisce [costituendo], non significa qualcosa, bensì nulla. Ecco perché, dal fatto che il nome nihil in certo modo significa qual-cosa, non deriva la necessità che il nulla sia qualqual-cosa, ma piuttosto la necessità che il nulla sia nulla; proprio perché il nome nihil signi-fica in tal modo qualcosa» (cioè – direbbe Severino – il “nulla-momento” è positivamente significante).

1.4.3. Il discepolo obietta: «Questo nome ha un significato, ed è propriamente un nome (e non solo una vox) in quanto significa ‘nulla’, e non perché significhi qualcosa negandola». Ma, come può il nulla essere referente di un nome? Il maestro osserva a sua volta che è significante, ma non perché sia referente diretto del nome. Ad esempio, se dico che uno “ha la cecità”, non indico con ciò il posses-so di alcunché, bensì la sua mancanza. Eppure, nomino efficace-mente quel che intendo, ovvero dico bene quel che ho da dire.

1.4.4. Dunque: “nulla” è “non-qualcosa”; o è qualcosa solo secundum formam loquendi. Se ad esempio dico che “Tizio non ha fatto nulla”, voglio dire qualcosa di ben determinato e comprensibi-le, anche se non indico il nulla come oggetto diretto di referenza.

Qui (e altrove) c’è in Anselmo l’aspetto felice della analisi di Severino; senza, però, l’elemento decettivo, che vorrebbe la posizio-nalità del nulla come inerente alla posizioposizio-nalità dell’essere7.

7Anche secondo Jaime BÁLMES(cf. Filosofía Fundamental, in Obras Completas, Editorial Bálmes, Barcelona 1925-27, vol. XVI, nn. 60-61) il “non essere” è positivamente concepito dall’intelletto, come “ciò che non è”.

2. L

A QUESTIONE DEL

NON

-

ESSERE

NELLA METAFISICA

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