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I PROBLEMI FILOSOFICI COME PROBLEMI ESISTENZIALI Sperando, con ciò, di avere portato, oltre che una certa

Nel documento Non essere (pagine 137-143)

VERITÀ DEL NON ESSERE

2. I PROBLEMI FILOSOFICI COME PROBLEMI ESISTENZIALI Sperando, con ciò, di avere portato, oltre che una certa

confusio-ne circa la natura della chiarezza che caratterizza il sapere filosofi-co, anche un po’ di chiarezza circa il tipo di confusione nel quale ci veniamo a trovare quando filosofiamo, passo a una seconda pre-messa, altrettanto importante. Quando si parla di tematiche quali l’essere, il non essere, e così via, si ha la netta impressione di muo-versi in una dimensione esperienziale di natura sostanzialmente formale, logica, razionale, astratta, discorsiva…, e naturalmente questo in qualche misura è vero: sarebbe sbagliato negare il carat-tere logico-razionale di questi argomenti. Ma a questo proposito, aiutati anche dalla consapevolezza che le stesse nozioni di ragione, di astrattezza e concretezza, e così via, diventano problematiche, dobbiamo prestare attenzione al fatto che tutti i formalismi della logica, e tutte le astrattezze della filosofia, nascono dai grandi interrogativi che caratterizzano la vita umana, e dalle fondamentali esperienze che ad essi sono collegati. Del resto le ‘formulette’, quando esprimono forme di un certo tipo, sono qualcosa di formi-dabile, perché compendiano il risultato di un immane lavoro del pensiero. Pensiamo al calcolo della logica formale contemporanea, per esempio alle tavole di verità. Tutto sommato, si tratta di ‘quat-tro cosette’, che almeno nell’essenziale si possono spiegare in pochissimo tempo. Eppure questa logica compendia in sé e riassu-me una sapienza millenaria: secoli e secoli di pensiero, la cui forma, una volta raggiunta, può essere ‘formulata’ (appunto) in maniera estremamente semplice e chiara. È quanto accade, in gene-rale, nelle scienze; in fisica, per esempio, dove noi impariamo la formula e = mc2. Recitare questa formula è semplicissimo (l’energia è uguale al prodotto della massa per la velocità della luce al

quadra-to), ma capire davvero che cosa essa significa richiede ben altro approfondimento. Così è anche per le formule di fronte alle quali ci troviamo quando parliamo dell’essere e del non essere. Queste potranno apparire semplicissime, al limite di una sconfortante banalità (“L’essere non è non essere”), ma le avremo capite davve-ro solo quando comprenderemo da quali pdavve-rofondità concettuali esse scaturiscono e quali abissi di pensiero esse nascondono. In particolare, incominceremo a capirle davvero solo quando ci ren-deremo conto che, come all’interno della semplice formula fisica sopra ricordata sta racchiusa pure la potenza esplosiva dell’energia atomica, così all’interno delle semplici formule onto-logiche con le quali avremo a che fare è contenuta l’infinita energia della millena-ria sapienza umana e divina che governa il mondo e l’esperienza degli umani. E allora, inevitabilmente, tutto diventa molto più ampio e complesso. Quando parliamo del principio di non con-traddizione, della fondazione della verità innegabile e di altre ‘for-malità’, in realtà stiamo parlando dell’Assoluto (di “Dio, com’egli è […] prima della creazione del mondo e di uno spirito finito”, per dirla con Hegel1), ovvero di quel ‘perfettissimo’ del quale ci parla Anselmo, nel suo Proslogion, come di ciò che ci conduce al gaudium plenum2.

Per dare subito una conferma autorevole a quanto appena detto, e nello stesso tempo avviare il passaggio al tema vero e proprio del non essere, possiamo riferirci al Poema di Parmenide. Quando si nomina il grande Eleate viene subito in mente la fondamentale affer-mazione che l’essere è e il non essere non è, e naturalmente anche noi affronteremo questo problema; ma è bene che questa decisiva parola sia letta insieme agli altri passi. Nei versi 13-15 del frammen-to B 8 della raccolta Diels-Kranz Parmenide ci dice che:

1G. W. F. HEGEL, Scienza della logica (1813/1816/1831), trad. italiana di A. MONI, 1925, rivista da C. CESA, Laterza, Bari 1968, Introduzione, p. 31.

2ANSELMO D’AOSTA, Proslogion, ed. italiana L. POZZI(a cura di), Rizzoli, Milano 1992, cap. XXVI, pp. 154 ss.

[...] né il nascere

né il perire concesse a lui [all’essere] la Giustizia [Dike], sciogliendolo dalle catene,

ma saldamente lo tiene3.

Abbiamo dunque a che fare con Dike, la giustizia che è la legge del cosmo, la legge del bene e del male, la quale ci dice che non ci è concesso, in quanto siamo essenti, di nascere e di morire. Poco dopo (verso 21) leggiamo infatti:

Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata. E ancora, subito dopo (versi 26-33):

Ma immobile, nei limiti di grandi legami

è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte

sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza. […/…]

poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento: infatti non manca di nulla; se, invece, lo fosse, manchereb-be di tutto.

Questi versi chiariscono che cosa sia ciò di cui in realtà si sta parlando. Quando diciamo che l’essere non è non essere sembra che stiamo parlando del principio di non contraddizione, ovvero di una questione sostanzialmente logica (onto-logica); ma il passo che abbiamo letto ci dice che in gioco qui è ciò grazie a cui l’esperienza umana viene liberata dalla nascita e dalla morte. Per chiarire il punto in maniera immediata potremmo dire che abbia-mo a che fare con una dimensione abbia-molto prossima a quella che si schiude all’interno della concezione buddhista del dolore dell’esi-stenza: la parola della dea di Parmenide è quella che ha la pretesa 3PARMENIDE, Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze dirette, terza edi-zione, Saggio introduttivo e commentario di L. RUGGIU, traduzione di G. REALEcon testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2010.

di liberare, più ancora che l’umanità, l’esistenza stessa dal dolore; dalla totalità del dolore, compresa quella madre di tutti i dolori che è la morte, ovvero da tutto ciò che possiamo chiamare il negativo.

3. L

E DUE FACCE

,

QUELLA POSITIVA E QUELLA NEGATIVA

,

DELLA PROPOSIZIONE FILOSOFICA

Chiarito che la parola di fronte alla quale ci troviamo è quella che annuncia uno spazio libero rispetto alla totalità del negativo – ma naturalmente ferme restando tutte le osservazioni cautelative espo-ste all’inizio –, per andare subito al cuore della questione vorrei sot-toporre all’attenzione questa interessantissima formula filosofica:

Ogni cosa è ciò che è e non un’altra cosa.

È una proposizione di Joseph Butler ripresa da George Edward Moore e riportata da Wittgenstein nei Quaderni 1914-164ma non nel Tractatus logico-philosophicus. In tedesco essa suona “Jedes Ding ist, was es ist, und kein ander Ding”, e in inglese “Everything is what it is and not another thing”5. Chiamo “proposizione filosofica” questa formula, che indicherò qui anche con la sigla B-W (Butler-Wittgenstein). Rileggiamola: “Ogni cosa è ciò che è [/] e non un’altra cosa”. L’ho ri-formulata in questo modo per evidenziare, mediante l’introduzione di una ‘barra di interruzione’, la circostanza che tale affermazione consta di due parti ben distinte. La prima dice che “ogni cosa è ciò che è”; la seconda aggiunge che “[ogni cosa] non [è] un’altra cosa [rispetto a quella che è]”. Qualche tempo fa ho chiesto a Emanuele Severino, essendo convinto che questa proposizione esprima qualco-sa di molto vicino a quanto dice la sua filosofia, che coqualco-sa ne penqualco-sasse.

4L. WTTGENSTEIN, Notebooks 1914-1916, ed. by G. H.VONWRIGHT, G. E. M. ANSCOMBE, Basil Blackwell, Oxford 1969, p. 84; trad. it. di A. G. CONTE, Quaderni 1914-1916, in

Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, (1961) 19682, pp. 83-195, p. 187.

La sua risposta è stata, come sempre, chiara e profonda: “Bene, per-fetto; il problema però è vedere come tale affermazione viene giustifi-cata”. Certo, perché anche dire “L’essere è e il non essere non è” è perfetto; ma questa formula esprime davvero la verità (il gioco di parole è voluto) solo se è connessa alla sua giustificazione elenctica. Il valore della proposizione dipende dalla sua fondazione perché il suo significato dipende da tale giustificazione. Insomma, non basta “dire” la verità, proferire proposizioni “vere”. Anche sfogliando un diziona-rio di italiano qualcuno potrebbe mettere insieme a caso le parole “L’essere è”; quello che conta è ciò che questa formula significa, che cosa con essa si intende.

Sono partito da questa proposizione (la formula B-W) perché mi pare che essa evidenzi bene un tratto fondamentale della verità filoso-fica: la sua duplicità. È, infatti, una proposizione composta di due parti, una specie di Giano bifronte. Utilizzo spesso questa proposizio-ne perché essa richiama praticamente alla lettera, anche se non vi è alcun riferimento esplicito, il verso 3 del frammento 2 di Parmenide, cioè il luogo in cui, parlando delle possibili vie di ricerca, viene isti-tuita la verità dell’essere, verso che io traduco così:

l’una che è, e che non è non essere6.

La struttura formale di questa proposizione è uguale a quella della formula B-W: la verità dell’essere è che ogni cosa è, e non è non essere; cioè, appunto: ogni cosa è (ciò che è), e non è ciò che essa non è, il suo non essere. È appunto questa identità formale con la verità parmenidea il motivo per cui chiamo “proposizione filosofica” quella espressa dalla formula B-W.

Il primo punto sul quale riflettere è dunque la differenza, o la distinzione, tra questi due momenti della verità. Posto che questa formula indichi la verità, l’assoluta verità, dobbiamo prestare la dovuta attenzione a tale dualità: la differenza tra l’affermazione dell’essere e la negazione del non essere7. Fare attenzione alla

dif-6Traduzione mia.

7Per l’interpretazione qui proposta del testo di Parmenide, chi lo desiderasse può vedere i seguenti miei scritti: a) Parmenide. (Frammento 2, verso 3), in

ferenza tra questi due momenti è cosa ben diversa dal negare che i due poli si implichino l’un l’altro, però è cosa diversa pure dall’af-fermare che l’implicazione che vi è tra l’essere e la negazione del non essere goda di una natura privilegiata rispetto a quella che sussiste tra l’essere e qualsiasi altra determinazione (altra rispetto alla negazione). Vorrei dire che è proprio per essere coerenti con il motto per cui “ogni cosa è ciò che è e non un’altra cosa” che dobbiamo dire che l’affermazione dell’essere è ciò che è, e non un’altra cosa, in particolare non è la negazione del non essere. Ma restiamo anco-ra un momento sul testo di Parmenide. Dopo aver letto il verso 3, nel quale si enuncia la verità, leggiamo il verso 5, nel quale si pre-senta la via dell’errore, o la via della non verità:

l’altra che non è e che è necessario che non sia8.

Questa è la via specularmente opposta alla prima. Anch’essa è dunque divisa in due parti. La prima parte dice (all’opposto della prima parte della verità) che l’essere non è; la seconda parte dice (all’opposto della seconda parte della verità) che è necessario che il non essere sia: la negazione dell’essere è necessaria. Per chiarire l’opposizione tra le due seconde parti possiamo fornire una tradu-zione leggermente diversa del verso 3 (si tratta peraltro della tra-duzione più consueta): “l’una che è, e non è possibile che non sia”. Così, la verità dice (nella sua seconda metà) che è impossibile che l’essere non sia (e quindi che il non essere sia); per contro la non verità dice che è necessario che l’essere non sia (e quindi il non esse-re sia). La prima parte della verità, dunque, afferma l’esseesse-re, e la sua negazione (la prima parte della non verità) nega l’essere.

A. PETTERLINI, G. BRIANESE, G. GOGGI(a cura di), Le parole dell’Essere. Per

Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 581-631; b) L’incon-trastabile contraddizione parmenidea: la verità del negativo, in L. CORTELLA, F. MO

-RA, I. TESTA(a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, pp. 117-132; c) Opposizione e verità:

l’enigmatica via di Parmenide, in «Peitho – Examina antiqua –» 1 (4) 2013,

pp. 105-124, consultabile in http://peitho.amu.edu.pl/online-access/.

La seconda parte della verità afferma che la negazione dell’essere è impossibile, e la sua negazione (la seconda parte della non verità) afferma che invece essa (la negazione dell’essere) è necessaria. Fermiamoci un momento sulla traduzione del verso 3. Le due tra-duzioni che ho proposto (“l’una che è, e che non è non essere”, “l’una che è, e che non è possibile che non sia”) sono entrambe legittime. La seconda presenta però un’accentuazione particolare: introducendo la nozione del “possibile” chiama in gioco anche la dimensione modale. Io credo che la prima traduzione (“e che non è non essere”), più letterale e secca, rispetti maggiormente il testo di Parmenide. Tra l’altro, essa richiama immediatamente il principio di non contraddizione, che possiamo qui formulare in questo modo: A = ¬ (¬ A): un altro modo per dire che ogni cosa è la nega-zione della propria neganega-zione; e quindi, in generale, che l’essere è la negazione del non essere. Entrambe le traduzioni comunque sono corrette; e in un certo senso ciascuna delle due dice un aspet-to importante di quanaspet-to è contenuaspet-to nel tesaspet-to dell’Eleate.

4. I

L TRATTO NEGATIVO DELLA VERITÀ FILOSOFICA

Nel documento Non essere (pagine 137-143)