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Il filo rosso che accomuna le riflessioni della prima parte del presente capitolo, basate principalmente sull’analisi del pensiero di Bauman, Beck e Giddens, è il processo di “individualizzazione” che genera una soggettività fortemente privatizzata e sempre più sganciata dalle appartenenze collettive e da un luogo “pubblico” di riferimento capace di interpretare e fornire senso ai progetti individuali.124

In conseguenza alla spinta sociale all’individualizzazione, l’individuo deve diventare l’artefice della propria biografia e del proprio destino, assumendo nuove capacità, soggettività multiple e mutevoli e rinunciando a contare sulle aspettative legate alla condizione sociale di partenza. Mentre, in passato, nelle società della prima modernità, il destino degli individui poteva essere considerato pre-strutturato dalla collocazione sociale di appartenenza, il corso della vita è ora concepito come flessibile e aperto, modellato solamente dagli sforzi individuali. Da un lato, il processo di individualizzazione porta l’individuo alla libertà di scegliere, quindi di rischiare, mentre, dall’altro, esiste la pressione a conformarsi a richieste interiorizzate; da una parte, l’individuo è l’imprenditore di sé stesso nel quadro di infinite possibilità di scelta, e dall’altra, dipende da condizioni che sfuggono del tutto al nostro controllo: il tutto nel quadro della società del rischio, in un contesto storico e sociale caratterizzato da incertezza, smarrimento, inquietudine, mancanza di riferimenti dotati di senso.

Il rischio diviene “privatizzato” poiché, riprendendo ancora una volta le parole di Bauman, è sempre più crescente la difficoltà di tradurre le preoccupazioni private in cause comuni e, inversamente di identificare e mettere in luce le questioni pubbliche nei problemi privati: la riproduzione delle condizioni della vita sociale non è più conseguita con strumenti societari e collettivi, ma è in gran parte privatizzata, sottratta al dominio delle politiche statali e delle decisioni pubbliche, per cui si richiede sempre più all’individuo di trovare risposte private a problemi che sono socialmente prodotti e che meriterebbero, per la loro natura, una soluzione collettiva.

124

Il processo di individualizzazione del soggetto moderno è posto in evidenza anche dagli scritti di altri autori come Lash e Gauchet che, per l’economia del presente lavoro di tesi, non verranno affrontati. Verranno invece analizzate le riflessioni di Robert Castel sull’individuo “par défaut” e lo sgretolamento dei sistemi tradizionali di protezione propri della società salariale fordista.

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Di fronte a tali contraddizioni sistemiche, l’individuo contemporaneo è costretto a tendere verso soluzioni private, finendo il più delle volte a consumare la propria ansia in solitudine, con un’autonomia apparentemente vasta ma, sostanzialmente limitata, perché “l’autonomia

di chi è sprovvisto di risorse adeguate diventa un’indipendenza illusoria: un’indipendenza senza autonomia”.125

Il problema è che la contraddizione sistemica e il rischio maggiore, nella società contemporanea attraversata dalla grave crisi-economico finanziaria iniziata nel 2007, sono proprio quelli di diventare poveri.

Nella società contemporanea la povertà rappresenta un rischio potenziale per molti, che diviene condizione reale per pochi. Letraiettorie di impoverimento sono legate alla crescente imprevedibilità dei corsi di vita, che secondo diversi studiosi sono sempre meno definibili in termini di appartenenza di classe e sempre più eterogenee e individualizzate.126L’estrema frammentarietà delle esperienze biografiche genera da un lato un aumento delle opportunità e delle libertà individuali, dall’altro una generale riduzione della sicurezza (economica, sociale,cognitiva) e una tendenza della società a scaricare sull’individuo le responsabilità relative al miglioramento o al peggioramento della propria condizione sociale.

Se le biografie individuali sono sempre più diversificate, lo stesso vale per le fenomenologie della povertà. Esiste un’ampia gamma difenomeni che, con differenti livelli di gravità, colpiscono individui e famiglie nelle loro capacità di reperire le risorse necessarie a garantirsi un livello di vita considerato accettabile.

Per l’economia del presente lavoro di tesi, non si prenderanno in esame le vecchie e nuove povertà, né tantomeno le povertà estreme e l’esclusione sociale, ma si attuerà una riflessione sul concetto di vulnerabilità sociale, accompagnata ed integrata da un breve excursus sullo stato attuale del fenomeno nell’era della grande crisi economico-finanziaria, che, iniziata negli Stati Uniti d’America nel 2008 con il crollo dei mutui subprime, si è estesa, con veloce effetto domino, sui Paesi occidentali, e, in particolare, sull’Italia.Lo studio della vulnerabilità e delle sue cause strutturali ci consente di indagare sui normali processi di

125 Cfr. Ceri P., La società vulnerabile: quale sicurezza, quale libertà, Laterza, Roma, 2003, pag. 20. 126 Cfr. Beck 1992, Sennett 1998, Bauman1999.

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produzione e riproduzione delle disuguaglianze che agiscono ben prima di concretizzarsi in condizioni di esclusione sociale o povertà estrema.127

I fenomeni della povertà e della vulnerabilità sociale, da sempre stati un problema centrale per la sociologia, hanno assunto dimensioni quantitative allarmanti dall’inizio della grande crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007:

l’Italia è uno dei paesi maggiormente colpiti dalla recessione: nel periodo che va dal 2007 al 2012, il Pil pro capite è diminuito di 8,5 punti percentuali mentre i tassi di disoccupazione sono aumentati dal 6% al 10,7%. 128

L’OCSE rivela che nel nostro Paese le disuguaglianze tra ricchi e poveri superano la media europea; negli anni della crisi la cosiddetta “povertà ancorata” in Italia è aumentata di 3 punti, uno dei livelli più alti dell’intera area OCSE. Leggendo il Rapporto 2015, si scopre che il 20% della popolazione più ricca in Italia detiene il 61,6% della ricchezza del Paese calcolata in termini di ricchezza finanziari e non: il 60% della popolazione italiana quindi, deve dividersi il 17,4% della ricchezza nazionale e, più nello specifico, il 20% più povero deve accontentarsi dello 0,4%. L’Istituto riporta che in Italia il reddito medio percepito dal 10% più ricco della popolazione è stato di 11 volte superiore a quello percepito dal 10% più povero nel 2013.

L’aumento della dispersione tra i salari dei lavoratori è la causa principale della crescente disuguaglianza, secondo quanto confermato dall’OCSE, in quanto “la principale fonte di

diseguaglianza tra i redditi, quella che riguarda i redditi da lavoro, in Italia è cresciuta dello 0,65% tra il 2007 e il 2011”.129

Nel nostro Paese, in controtendenza rispetto a ciò che è accaduto in altri Paesi OCSE, mentre diminuiva la componente di lavoratori impiegati full-time con contratti a tempo indeterminati aumentava la percentuale dei lavoratori cosiddetti atipici: nel 2013 il 40% dei lavoratori in Italia, a fronte di una media UE del 33%, lavora in part-time, con contratti a termine e come autonomi. L’OCSE stima che un lavoratore atipico guadagna circa il 25% in

127

Cfr. Benassi D. e Palvarini P, La povertà in Italia. Dimensioni, caratteristiche, politiche, Cendon Libri, Trieste, 2013, pp. 4-5.

128 Cfr. Simone A., Suicidi. Studio della condizione umana nella crisi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, pag. 98: la

studiosa Anna Simone affronta in questo libro il legame tra la grande crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007 e il fenomeno dei suicidi economici in Italia.

129 Cfr. Rapporto 2015 sulle disuguaglianze in Italia realizzato dall'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo

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meno all’ora di una lavoratore dipendente full-time e nel 53% dei casi il lavoratore atipico in Italia è anche l’unica fonte di reddito familiare.

Come pongono in evidenza numerosi studi ed indagini, durante l’ultimo decennio in Italia si è ampliato il divario di reddito tra i lavoratori a tempo indeterminato e quelli temporanei. Al di là dei dati statistici, ciò significa che la precarizzazione dei rapporti di lavoro è diventata la norma nel contesto nazionale e la quotidianità si fa normalmente “insicura”.

Secondo Robert Castel la precarizzazione si sviluppa attraverso:

a) la “destabilizzazione” di chi era stabile (ovvero parte della classe operaia integrata e i salariati della classemedia);

b) la “installazione nella precarietà” di una vasta massa di occupati atipici e di disoccupati che alternano lavoro a non lavoro (i giovani ad esempio);

c) la creazione di una popolazione “sovrannumeraria” di soggetti che non trovano collocazione occupazionale a causa della carenza di domanda di lavoro (come i disoccupati di lunga durata, i titolari di assistenza di lungo corso, etc).

Sul piano delle relazioni primarie, si è assistito “alla perdita graduale di densità delle reti familiari e di sociabilità” poiché lerelazioni familiari si sono fatte più instabili e meno scontate. Avanzanonuove forme di convivenza (famiglie unipersonali, monoparentalietc.) e anche la forma nucleare di famiglia, ove persiste, subisce importanti processi di riorganizzazione interna: a causa dell’ingressodelle donne nel mondo del lavoro, ma anche per via di fenomeni (tipici della famiglia mediterranea) come l’allungamento della permanenza dei figli entro lemura domestiche, il diffondersi ed il perdurare di ulteriori ed intensedomande di cura, come quelle degli anziani non autosufficienti.130

Il tratto dominante dell'attuale società post-fordista pare essere, allora, quello della

vulnerabilità sociale, fenomeno al centro di numerosi studi sociologici e che presenta, a

nostro personale avviso, il rischio di divenire un concetto “passe-partout” o un vasto contenitore di situazioni, percezioni ed elementi tra loro eterogenei e differenti.

Il concetto di vulnerabilità sociale si differenzia da quello di povertà o emarginazione e rimanda all’eventualità sempre più frequente, e connotata dal punto di vista generazionale, di non riuscire più ad entrare nelle grandi reti di protezione collettiva e pubblica che hanno caratterizzato le società affluenti dal secondo dopo-guerra agli anni ’80. L’incrocio tra

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precarizzazione del lavoro, perdita graduale della densità delle relazioni familiari e inefficienza delle istituzioni preposte alla protezione sociale provoca la vulnerabilità. Essa non rappresenta lo stadio finale del disagio bensì stadi intermedi rispetto ad esso, ed è caratterizzata soprattutto dall’incertezza della situazione e dalla difficoltà di compiere delle scelte per il futuro.

Ranci definisce la vulnerabilità sociale come “una situazione di vita in cui l’autonomia e la

capacità di autodeterminazionedei soggetti è permanentemente minacciata da uninserimento instabile dentro i principali sistemi di integrazionesociale e di distribuzione delle risorse.” Essa sorge dunque all’incrocio tra instabilità dei ruoli sociali ricoperti,

debolezza delle reti sociali in cui si è inseriti, difficoltà di sviluppare strategie appropriate di fronteggiamento delle situazioni critiche e frammentazione dell’identità personale.131

Vulnerabilità deriva da “vulnus” che significa ferita grave: in tal senso Pieretti mette in guardia su come l'etimologia della parola può essere fuorviante da quello che è il suo reale significato. L'immagine della “ferita grave” è assai distante dal concetto di microfratture e più vicino a quello di trauma o evento traumatico. Gli studi condotti da Pieretti sulle povertà e sulle povertà urbane estreme hanno posto in evidenza come i concetti di trauma e di evento traumatico possano proporre un legame troppo deterministico di causa/effetto nell'analisi dei processi di impoverimento e di disagio, i quali si producono piuttosto secondo microfratture, difficilmente percepite sia dall'esterno che dai soggetti stessi. L'attuale società è sempre più contraddistinta da stati di malessere che per un lungo periodo possono rimanere latenti, intimi ed interni alla personalità dei singoli soggetti, e seguire logiche poco conosciute e difficilmente individuabili.132 Personalmente ritengo che il concetto di microfratture sia molto pertinente con l'analisi della vulnerabilità sociale, in quanto quest'ultima implica uno stato di malessere più o meno latente, continuo e quotidiano proprio perché legato ad una quotidiana pratica di creazione del rischio e dell'incertezza che fonda l'attuale assetto societario post-fordista.

Il punto centrale è che nelle società post-fordiste, quali emergono dalle crisi delle società industriali, è che cresce l’area della popolazione che risulta versare in situazioni di vulnerabilità, cioè in situazioni che sono caratterizzate da fragili orizzonti, in cui c’è

131 Cfr. Ranci C., opera citata, pag. 546.

132 Cfr. Francesconi C., “Segni” di impoverimento. Una riflessione socio-antropologica sulla vulnerabilità, Angeli,

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incertezza e sensazione di perdita di controllo, anche se non è presente un disagio conclamato. L'idea di vulnerabilità sembra racchiudere diversi aspetti come la cronicizzazione, la quotidianizzazione e la familiarizzazione dell'incertezza: essa sussume il rischio, che, come più volte affermato, è divenuto il leitmotiv culturale della società anomica contemporanea133.

Numerosi autori hanno rilevato come, per effetto delle recenti trasformazioni sociali e del mercato del lavoro, gli individui vivano in uno stato crescente di ansia generalizzata, di perdita di progettualità personale e professionale, dovuta alla forte flessibilità ed alla frammentazione dei percorsi lavorativi.

Molti analisti, a partire da metà anni ’90, come Robert Castel, Pierre Rosanvallon e, più recentemente, in Italia, Costanzo Ranci, Chiara Saraceno e Massimo Paci hanno individuato il nucleo del processo che genera questa situazione di vulnerabilità. Tutti questi autori sottolineano che quello che è in gioco è il “cambiamento della natura dei rischi sociali”. I rischi sociali tradizionali, quelli per cui erano predisposti gli assetti del welfare a base industriale di tipo fordista, potevano essere configurati come elementi aleatori e circoscritti nel tempo, ovvero eventi che possono colpire incidentalmente la vita delle persone “normali”, trascinandole in una situazione “anormale” per un periodo di tempo circoscritto: si trattava, dunque, di rischi intesi come pericoli che irrompono dall’esterno improvvisamente, generando una situazione di forte disagio che va corretta oppure ha esiti catastrofici.

Oggi questi rischi tradizionali sono sostituiti da altri tipi di rischio che diventano uno stato stabile della vita quotidiana. L’insicurezza e la quotidianizzazione dei rischi sono diventate un dato familiare: non si può affrontare la vita normale (procurarsi un reddito, cercare un lavoro, fare dei figli, sposarsi, mettere su casa) senza esporsi a dei rischi.

Anche nei modelli di società più tradizionale, anche in quelli di tipo industriale a base fordista, alcuni settori della popolazione erano costretti a «familiarizzare con i rischi». Il rischio rappresentava una dimensione di vita quotidiana sia per le persone che si trovavano ai vertici della stratificazione sociale, sia per quelle che stavano alla sua base.

Nelle società fordiste la condizione normale di vita esposta al rischio, ai vertici della stratificazione sociale, è quella degli imprenditori che traggono la ragione del loro profitto

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proprio dal fatto di assumersi il compito e l’onere di investire in modo innovativo le lororisorse in opportunità rischiose. Al lato oppostodella stratificazione sociale, si situa lacondizionedi vita dei gruppi marginali che perscelta, o per necessità, vivono secondo formedi vita che si discostano da quelle più istituzionalizzate; non a caso, Merton,univa le forme di agire border-line e le formedi agire innovative come quelle degli imprenditoriin un’unica categoria di agire sociale: mostri ed eroi insieme.134

Oggi questa situazione d'incertezza e insicurezza della quotidianità invece si sta estendendo: dal basso sta salendo verso l'alto, per cui il rischio diventa quotidianità per le aree di lavoratori stabili, dipendenti o comunque lavoratori poco qualificati; contestualmente dall'alto sta scendendo verso il basso, investendo settori del ceto medio. Oggi si sente sempre più parlare dei cosiddetti working poor, ossia di persone, che pur lavorando, si trovano con un reddito basso e sono costrette a svolgere diversi lavori per mantenere lo stesso livello di vita che in passato riuscivano ad avere compiendo un unico lavoro. La quotidianità del rischio dai punti estremi della stratificazione sociale progressivamente diventa un fenomeno che riguarda gli strati intermedi.135

La vulnerabilità sociale non è una semplice conseguenza della deregulation ma è un elemento regolativo fondante del regime di accumulazione flessibile: essa, infatti, alimentando la asimmetria nel rapporto fra datore e prestatore di lavoro, va a frammentare la coesione interna della classe lavoratrice indebolendo le istituzioni di rappresentanza del lavoro. È sulla vulnerabilità che si fonda, nell’epoca che chiamiamo post-fordista, la capacità di controllo e di sottomissione della soggettività.136

Se da un punto di vista dell'esperienza soggettiva, la vulnerabilità si manifesta prevalentemente come percezione di incertezza, inadeguatezza, eteronomia e anomia, essa riveste anche una funzione “strutturale” nel mantenimento del modello di produzione post- fordista: “essa permette infatti la fluidificazione delle resistenze sociali al libero

sfruttamento economico del lavoro”137.

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Cfr. Negri N., La vulnerabilità sociale. I fragili orizzonti delle vite contemporanee, in “Animazione sociale”, agosto/settembre 2006, pp. 1-6: cfr. http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/afuma/didattica/sem_capitalismo_cognitivo/Materiale%20Didattico/La %20vulnerabilita%20sociale%20-%20N.%20Negri%20(Rampazi).pdf 135 Ibidem. 136 Cfr. http://siba-ese.unisalento.it/index.php/MTISD2008/article/view/7767/7029.

137 Cfr. Chicchi F., “Prefazione”, in Fabbri G., Servono precarie: indagine sul lavoro delle donne immigrate nella Provincia di Rimini, Theut, Rimini, 2005.

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Tale senso di disagio e di incertezza emerge in numerose indagini condotte sulla popolazione italiana: come rivela l’ultima indagine del Censis, il 33% degli italiani teme di diventare povero, e solo il 30% sente di avere le spalle coperte dal sistema di welfare, mentre la percentuale sale al 58% in Spagna, 61% nel Regno Unito, 73% in Germania e 74% in Francia. In un contesto così difficile, con crescita e occupazione che non ripartono, gli italiani pensano sia essenziale proteggersi in caso sopravvenga una malattia, la perdita del lavoro o semplicemente per fronteggiare le spese impreviste. Il 44% risparmia per far fronte ai rischi sociali, di salute o di lavoro, il 36% perché è il solo modo per sentirsi sicuro, il 28% per garantirsi una vecchiaia serena. La crisi di fiducia spinge a usare i soldi a scopo precauzionale, così vince la difesa dalle insidie inattese, piuttosto che lo slancio verso l'investimento che rende nel tempo o l'immissione nel circuito virtuoso dei consumi.

Dal secondo trimestre del 2012 si registra una inversione di tendenza da parte degli italiani nella creazione di risparmi, che hanno ripreso un trend crescente, passando da 20,1 miliardi a 26 miliardi di euro nel primo trimestre del 2014, con un incremento nel periodo del 26,7% in termini reali. La propensione al risparmio è salita dal 7,8% al 10%, pure a fronte di una riduzione nello stesso periodo dell'1,2% del reddito disponibile delle famiglie e nonostante la bassa inflazione abbia attenuato la caduta del potere d'acquisto. Meno redditi, meno investimenti, zero consumi, più risparmi: questo il trend degli italiani al tempo della crisi.138 Il contesto socio-economico italiani negli anni che vanno dal 2009 al 2014 non è solamente segnato da un decremento della produzione industriale, dalla drastica riduzione dei consumi, dalla cosiddetta “povertà sanitaria” (gli italiani rinunciano alle prestazioni mediche fondamentali), ma anche e soprattutto dall’accentuarsi delle disuguaglianze:

il Censis rileva che i 10 uomini più ricchi d'Italia dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme. Poco meno di 2mila italiani ricchissimi, membri del club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi di euro (senza contare il valore degli immobili): cioè lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale. Le distanze nella ricchezza sono cresciute nel tempo: oggi, in piena crisi, il patrimonio di un dirigente è pari a 5,6 volte quello di un operaio, mentre era pari a circa 3 volte vent'anni fa. Il patrimonio di un libero professionista è pari a

138 Cfr. http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=120975: risultati del 9° numero del «Diario della

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4,5 volte quello di un operaio (4 volte vent'anni fa) e quello di un imprenditore è pari a oltre 3 volte quello di un operaio (2,9 volte vent'anni fa).

I redditi familiari hanno avuto negli ultimi anni una dinamica molto differenziata tra le diverse categorie sociali. Rispetto a dodici anni fa, i redditi familiari annui degli operai sono diminuiti, in termini reali, del 17,9%, quelli degli impiegati del 12%, quelli degli imprenditori del 3,7%, mentre i redditi dei dirigenti sono aumentati dell'1,5%. L'1% dei «top earner» (circa 414mila contribuenti italiani) si è diviso nel 2012 un reddito netto annuo di oltre 42 miliardi di euro, con redditi netti individuali che volano mediamente sopra i 102mila euro, mentre il valore medio dei redditi netti dichiarati dai contribuenti italiani non raggiunge i 15mila euro. E la quota di reddito finita ai «top earner» è rimasta sostanzialmente stabile anche nella fase crisi.

Una nota del Codacons del 29 ottobre 2014 mette in evidenza come la crisi economica che ha colpito il nostro paese e la perdita di potere d’acquisto subita dalle famiglie, non abbia prodotto solo il drammatico calo dei consumi, ma anche una diffusa morosità e la crescita del numero di cittadini che non riescono più a pagare le bollette, e rischiano il distacco delle