Crescita e “riforma” del mercato del lavoro
3. Cosa suggeriscono i dati?
3.1 Flessibilità dei salari e del lavoro e disoccupazione
Innanzi tutto, i dati aggregati, relativi all’insieme dell’eurozona, suggeriscono che, su un periodo di tempo molto lungo, la caduta del costo del lavoro rispetto alla produttività è stata associata ad un aumento del tasso di disoccupazione.
Come mostra la figura 1, la caduta del rapporto tra redditi medi da lavoro dipendente (inclusivi delle imposte e oneri contributivi) rispetto al valore aggiunto medio per lavoratore (cioè la produttività del lavoro) iniziata negli anni ’80 e proseguita sino a oggi è associata ad un significativo aumento del tasso di disoccupazione per tutto il periodo rispetto alla fase precedente (anni ’60 e ’70). Il legame è duplice: da un lato l’elevata disoccupazione ha favorito l’indebolimento dei lavoratori e la caduta del rapporto tra redditi da lavoro dipendente e produttività, dall’altro tale caduta ha avuto un effetto negativo sui consumi ed ha quindi contribuito al rallentamento della crescita e dell’occupazione (Stockhammer et al 2009; Stirati 2011 qui).
FIGURA 1: Tasso di disoccupazione (scala destra, linea nera) e rapporto tra reddito medio da lavoro dipendente e valore aggiunto per addetto (scala sinistra, linea a riquadri bianchi) nella zona Euro FONTE: Stockhammer, Onaran, Ederer 2009
Per quanto riguarda più specificamente il rapporto tra un indicatore del livello normativo di protezione dell’impiego (di cui è un esempio l’articolo 18 recentemente “riformato” in Italia) e tassi di disoccupazione, i grafici qui sotto documentano l’assenza di una relazione significativa. Nella figura 2 sono riportati gli indici di protezione all’impiego in vari paesi in vari periodi: la relazione tra questi indici (che intendono misurare la “rigidità” del mercato del lavoro: tanto più sono elevati, tanto più “protetto” è il lavoro) e i tassi di disoccupazione corrispondenti mostra che la relazione tra le due variabili è praticamente nulla (Rquadro pari a 0). Risultati analoghi si ottengono confrontando gli indici di protezione all’impiego con i tassi di disoccupazione dei giovani. FIGURA 2: Relazione tra indice della rigidità della protezione all’impiego (ascisse) e tasso di disoccupazione (ordinate) in vari paesi a diverse date nel periodo 19801999. Legenda: ad ogni punto corrispondono i dati di un paese in un particolare anno; alcuni paesi sono indicati con le rispettive sigle: ad esempio US80 sono gli Stati Uniti nel 1980; SWE è la Svezia, SP è la Spagna. FONTE: Baker, Glyn, Howell Schmitt, 2005 (qui)
La correlazione tra disoccupazione giovanile e rigidità del mercato del lavoro per i paesi OCSE considerati è bassissima, prossima allo zero, e quindi non è possibile affermare che vi sia una relazione tra quelle variabili. Si noti che mentre la figura 2 è tratta da un lavoro volto a criticare le politiche di flessibilità, la figura 3 è tratta da un saggio firmato da un economista italiano favorevole alle politiche di flessibilità, e che in quello stesso saggio sostiene che sussiste, intorno al tema della flessibilità, un conflitto di interessi tra generazioni!
FIGURA 3: Rapporto tra rigidità dei regimi di protezione all’impiego tasso di disoccupazione giovanile in vari paesi negli anni ’90.
FONTE: P. Garibaldi, 2001
Certo, i dati mostrati dalle figure sono semplici, e non tengono conto di altre variabili che possono influenzare i tassi di disoccupazione globale e giovanile nei vari paesi – tuttavia essi bastano ad indicare con molta chiarezza che non vi è una relazione rilevante con la regolamentazione del mercato del lavoro. E d’altra parte anche analisi empiriche più
sofisticate, che tengono conto di più fattori, confermano quelle conclusioni (ad esempio OCSE, 2004 e 2011; Baker, Glyn Howell, Schmitt, 2005; Junakar e Masden, 2004)
3.2 Flessibilità e produttività
In Italia si è recentemente espressa preoccupazione per la mancata crescita della produttività, ed alcuni ne hanno attribuito la causa alla rigidità del mercato del lavoro. Posto che alcuni studi hanno semmai evidenziato una relazione negativa tra flessibilità e produttività (cfr Michie e Sheehan 2003), qui mi limiterò ad alcune considerazioni relative ai dati italiani. Nel nostro paese sia la produttività che il PIL sono cresciuti quanto e spesso di più di quanto crescessero in media nell’unione europea sino a circa la metà degli anni ’90. L’indice di produttività relativa dell’Italia rispetto agli altri paesi dell’unione europea a 14 paesi, stimato da Eurostat e posto pari a 100 per tutti i paesi nel 2000, passa da 85 a 103 in Italia tra il 1960 e il 1995 e poi inizia a scendere, arrivando a 93 nel 2007). Dunque solo a partite dalla metà degli anni ‘90 entrambe le grandezze (Pil aggregato e valore aggiunto per addetto) hanno iniziato a crescere in Italia meno che in altri paesi. Logica vorrebbe quindi che non si attribuisse la cattiva performance italiana a partire dalla fine degli anni ’90 a fattori – quali le “rigidità del mercato del lavoro” che erano presenti in misura maggiore quando PIL e produttività crescevano significativamente sia in termini assoluti che relativamente agli altri paesi. Che cosa è cambiato dunque nell’economia italiana nella seconda metà degli anni novanta? I cambiamenti più significativi paiono i seguenti: 1) è aumentata la flessibilità del mercato del lavoro: abolizione della scala mobile e riforma della contrattazione, con minor peso assegnato alla contrattazione nazionale con la riforma del ’92, poi le riforme Treu del 1997 e Biagi del 2003 che hanno esteso la possibilità di ricorrere a forme contrattuali atipiche; 2) è peggiorata ulteriormente e significativamente la distribuzione del reddito, con un rapporto tra reddito medio da lavoro dipendente e valore aggiunto per addetto che a metà del 2000 era il più basso in Europa; 3) si sono avute politiche di bilancio pubblico volte alla realizzazione di avanzi primari (il saldo primario, cioè al netto del pagamento degli interessi, rimane positivo sino al 2008)
Gli ultimi due fattori hanno contribuito negativamente alla crescita della domanda e del Pil, disincentivando quindi anche gli investimenti, mentre le “riforme” del mercato del lavoro hanno contribuito a peggiorare la distribuzione del reddito (Levrero & Stirati 2004 e
2006) e possono aver scoraggiato le imprese dall’utilizzare lo strumento dell’innovazione per ridurre i costi, preferendo la più facile riduzione diretta del costo del lavoro.
4. Gli effetti delle politiche di austerità e flessibilità e l’esempio