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Cosa suggeriscono i dati? 

Nel documento Il vecchio e il nuovo della crisi europea (pagine 151-156)

Crescita e “riforma” del mercato del lavoro 

3.  Cosa suggeriscono i dati? 

 

3.1 Flessibilità dei salari e del lavoro e disoccupazione 

Innanzi  tutto,  i  dati  aggregati,  relativi  all’insieme  dell’eurozona,  suggeriscono  che,  su un periodo di tempo molto lungo, la caduta del costo del lavoro rispetto alla produttività  è stata associata ad un aumento del tasso di disoccupazione.  

Come  mostra  la  figura  1,  la  caduta  del  rapporto  tra  redditi  medi  da  lavoro  dipendente (inclusivi delle imposte e oneri contributivi) rispetto al valore aggiunto medio  per  lavoratore  (cioè  la  produttività  del  lavoro)  iniziata  negli  anni  ’80  e  proseguita  sino  a  oggi è associata ad un significativo aumento del tasso di disoccupazione per tutto il periodo  rispetto  alla  fase  precedente  (anni  ’60  e  ’70).  Il  legame  è  duplice:  da  un  lato  l’elevata  disoccupazione  ha  favorito  l’indebolimento  dei  lavoratori  e  la  caduta  del  rapporto  tra  redditi  da  lavoro  dipendente  e  produttività,  dall’altro  tale  caduta  ha  avuto  un  effetto  negativo  sui  consumi  ed  ha  quindi  contribuito  al  rallentamento  della  crescita  e  dell’occupazione (Stockhammer et al 2009; Stirati 2011 qui). 

FIGURA  1:  Tasso  di  disoccupazione  (scala  destra,  linea  nera)  e  rapporto  tra  reddito medio da lavoro dipendente e valore aggiunto per addetto (scala sinistra, linea a  riquadri bianchi) nella zona Euro      FONTE: Stockhammer, Onaran, Ederer 2009   

Per  quanto  riguarda  più  specificamente  il  rapporto  tra  un  indicatore  del  livello  normativo  di  protezione  dell’impiego  (di  cui  è  un  esempio  l’articolo  18  recentemente  “riformato” in Italia) e tassi di disoccupazione, i grafici qui sotto documentano l’assenza di  una relazione significativa.  Nella figura 2 sono riportati gli indici di protezione all’impiego in vari paesi in vari  periodi: la relazione tra questi indici (che intendono misurare la “rigidità” del mercato del  lavoro: tanto più sono elevati, tanto più “protetto” è il lavoro) e i  tassi di disoccupazione  corrispondenti mostra che la relazione tra le due variabili è praticamente nulla (R­quadro  pari a 0). Risultati analoghi si ottengono confrontando gli indici di protezione all’impiego  con i tassi di disoccupazione dei giovani.  FIGURA 2: Relazione tra indice della rigidità della protezione all’impiego (ascisse)  e tasso di disoccupazione (ordinate) in vari paesi a diverse date nel periodo 1980­1999.    Legenda: ad ogni punto corrispondono i dati di un paese in un particolare anno;  alcuni paesi sono indicati con le rispettive sigle: ad esempio US80 sono gli Stati Uniti nel  1980; SWE è la Svezia, SP è la Spagna. FONTE: Baker, Glyn, Howell Schmitt, 2005 (qui) 

 

La correlazione tra disoccupazione giovanile e rigidità del mercato del lavoro per i  paesi OCSE considerati è bassissima, prossima allo zero, e quindi non è possibile affermare  che  vi  sia  una  relazione  tra  quelle  variabili.  Si  noti  che  mentre  la  figura  2  è  tratta  da  un  lavoro volto a criticare le politiche di flessibilità, la figura 3 è tratta da un saggio firmato da  un economista italiano favorevole alle politiche di flessibilità, e che in quello stesso saggio  sostiene  che  sussiste,  intorno  al  tema  della  flessibilità,  un  conflitto  di  interessi  tra  generazioni!  

FIGURA  3:  Rapporto  tra  rigidità  dei  regimi  di  protezione  all’impiego  tasso  di  disoccupazione giovanile in vari paesi negli anni ’90. 

 

 

FONTE: P. Garibaldi, 2001   

Certo,  i  dati  mostrati  dalle  figure  sono  semplici,  e  non  tengono  conto  di  altre  variabili che possono influenzare i tassi di disoccupazione globale e giovanile nei vari paesi  – tuttavia essi bastano ad indicare con molta chiarezza che non vi è una relazione rilevante  con la regolamentazione del mercato del lavoro. E d’altra parte anche analisi empiriche più 

sofisticate,  che  tengono  conto  di  più  fattori,  confermano  quelle  conclusioni  (ad  esempio  OCSE, 2004 e 2011; Baker, Glyn Howell, Schmitt, 2005; Junakar e Masden, 2004) 

 

3.2 Flessibilità e produttività 

In  Italia  si  è  recentemente  espressa  preoccupazione  per  la  mancata  crescita  della  produttività,  ed  alcuni  ne  hanno  attribuito  la  causa  alla  rigidità  del  mercato  del  lavoro.  Posto che alcuni studi hanno  semmai evidenziato una relazione negativa tra flessibilità e  produttività (cfr Michie e Sheehan 2003), qui mi limiterò ad alcune considerazioni relative  ai dati italiani. Nel nostro paese sia la produttività che il PIL sono cresciuti quanto e spesso  di più di quanto crescessero in media nell’unione europea sino a circa la metà degli anni  ’90. L’indice di produttività relativa dell’Italia rispetto agli altri paesi dell’unione europea a  14 paesi, stimato da Eurostat e posto pari a 100 per tutti i paesi nel 2000, passa da 85 a  103 in Italia tra il 1960 e il 1995 e poi inizia a scendere, arrivando a 93 nel 2007). Dunque  solo  a  partite  dalla  metà  degli  anni  ‘90  entrambe  le  grandezze  (Pil  aggregato  e  valore  aggiunto  per  addetto)  hanno  iniziato  a  crescere  in  Italia  meno  che  in  altri  paesi.  Logica  vorrebbe  quindi  che  non  si  attribuisse  la  cattiva  performance  italiana  a  partire  dalla  fine  degli anni ’90 a fattori – quali le “rigidità del mercato del lavoro” ­ che erano presenti in  misura  maggiore  quando  PIL  e  produttività  crescevano  significativamente  sia  in  termini  assoluti  che  relativamente  agli  altri  paesi.  Che  cosa  è  cambiato  dunque  nell’economia  italiana  nella  seconda  metà  degli  anni  novanta?  I  cambiamenti  più  significativi  paiono  i  seguenti: 1) è aumentata la flessibilità del mercato del lavoro: abolizione della scala mobile  e riforma della contrattazione, con minor peso assegnato alla contrattazione nazionale con  la  riforma  del  ’92,  poi  le  riforme  Treu    del  1997  e  Biagi  del  2003  che  hanno  esteso  la  possibilità  di  ricorrere  a  forme  contrattuali  atipiche;  2)  è  peggiorata  ulteriormente  e  significativamente  la  distribuzione  del  reddito,  con  un  rapporto  tra  reddito  medio  da  lavoro  dipendente  e  valore  aggiunto  per  addetto  che  a  metà  del  2000  era  il  più  basso  in  Europa;  3)  si  sono  avute  politiche  di  bilancio  pubblico  volte  alla  realizzazione  di  avanzi  primari (il saldo primario, cioè al netto del pagamento degli interessi, rimane positivo sino  al 2008)  

Gli ultimi due fattori hanno contribuito negativamente alla crescita della domanda e  del Pil, disincentivando quindi anche gli investimenti, mentre le “riforme” del mercato del  lavoro hanno contribuito a peggiorare la distribuzione del reddito (Levrero & Stirati 2004 e 

2006) e possono aver scoraggiato le imprese dall’utilizzare lo strumento dell’innovazione  per ridurre i costi, preferendo la più facile riduzione diretta del costo del lavoro. 

 

4.  Gli  effetti  delle  politiche  di  austerità  e  flessibilità  e  l’esempio 

Nel documento Il vecchio e il nuovo della crisi europea (pagine 151-156)