Crescita e “riforma” del mercato del lavoro
1. Gli argomenti utilizzati per sostenere le politiche di “flessibilità”
Un primo argomento è che la flessibilità del lavoro ridurrebbe il costo del lavoro per le imprese sia riducendo i costi di un eventuale licenziamento quando questo si rendesse necessario sia perché si presume – e qui a ragione – che la maggiore flessibilità dei contratti e la riduzione delle tutele induca anche una flessibilità verso il basso dei salari reali (cioè in termini di potere d’acquisto), perché la riduzione delle tutele tende ad indebolire i sindacati e in generale a rendere i lavoratori più ricattabili e quindi meno in grado di contrattare sulle condizioni retributive e di lavoro.
Secondo la teoria economica tradizionale (prekeynesiana e oggi di nuovo in auge) esiste una relazione inversa tra costo del lavoro per l’impresa e occupazione di lavoro, a parità di altre circostanze.
Un altro argomento addotto a favore della riforma del mercato del lavoro è che questa, attraverso la riduzione dei costi per le imprese e la riduzione dei salari nominali (cioè in euro, non necessariamente in potere d’acquisto) porterebbe ad una riduzione dei prezzi dei beni esportati rispetto a quelli di altri paesi concorrenti e quindi favorirebbe una maggiore competitività internazionale dell’Italia. Cioè, si sostiene, poiché a livello europeo non è più possibile svalutare il cambio, quei paesi che hanno perso competitività all’interno e all’esterno dell’eurozona devono ridurre i prezzi dei propri prodotti, consentendo così la crescita delle esportazioni e la correzione dei disavanzi nei conti con l’estero (cfr il documento Europlus 2011 della Commissione Europea).
Infine, un terzo argomento è che la flessibilità nell’uso del lavoro favorirebbe una maggiore produttività/efficienza delle imprese. 2. Argomenti generali contro la flessibilità Per quanto concerne la prima tesi, cioè che una riduzione del costo del lavoro per le imprese porterebbe comunque ad una maggiore occupazione, essa è molto controversa sul piano teorico: da un lato studi teorici hanno mostrato che la relazione inversa tra salario reale e occupazione non sussiste; dall’altro, sempre a livello teorico, la analisi keynesiana mette in luce che la diminuzione dei salari reali, in quanto riduce la propensione al consumo, tende a ridurre la domanda aggregata di beni e servizi, e quindi a ridurre il
livello di produzione (che si adegua alla domanda) e di conseguenza a ridurre anche l’occupazione. Prese insieme, queste analisi portano ad affermare che nell’aggregato le imprese assumeranno più lavoratori solo se avranno l’opportunità di vendere una maggiore quantità di beni e servizi, e la questione è dunque di capire se una riduzione dei salari potrà portare ad una maggiore domanda di beni e servizi – la risposta è no, semmai il contrario, tranne che per una eventuale capacità di stimolare le esportazioni.
E veniamo così a valutare il secondo argomento, quello secondo il quale la flessibilità del mercato del lavoro, e la conseguente flessibilità dei salari, potrebbe migliorare la competitività internazionale del paese e quindi le esportazioni nette. A questo riguardo il primo punto da mettere in evidenza è che il concetto di competitività è relativo, e nel momento in cui le politiche di flessibilizzazione di salari e lavoro vengono richieste/imposte a un gran numero di economie Europee, l’effetto complessivo è quello di una “deflazione salariale” generalizzata, cioè di una rincorsa competitiva al ribasso dagli effetti positivi molto incerti e con effetti negativi sicuri soprattutto se la politica di contenimento dei costi e dei prezzi viene sistematicamente perseguita, come è avvenuto sinora, anche dal paese europeo che ha un vantaggio competitivo e un grande surplus commerciale, cioè la Germania. Per quanto riguarda poi la competitività con i paesi esterni all’eurozona, sarebbe difficile recuperare via riduzioni dei prezzi la competitività persa attraverso l’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro – oggi (nonostante il recente deprezzamento) rivalutato del 25% rispetto alla parità iniziale e di circa il 35% rispetto al cambio che si aveva all’inizio del 2000.
A queste considerazioni generali se ne aggiungono altre due, non meno rilevanti. La prima è che una riduzione del costo del lavoro per le imprese potrebbe dar luogo ad una maggiore competitività internazionale solo se si traduce in una caduta dei prezzi dei beni e servizi prodotti. Ma gli studi su questo tema suggeriscono che ciò non necessariamente avviene, o avviene nella stessa proporzione il livello dei prezzi tende a diminuire meno dei salari nominali (Artus, 2011; si veda anche Stirati, 2006, che critica anche la tesi che ciò dipenda da mancate liberalizzazioni nel settore dei servizi). Ma se i prezzi non cadono quanto i salari, non solo si riduce la possibilità di un miglioramento nelle esportazioni, ma si determina una caduta nel potere di acquisto dei salari, con conseguenze estremamente negative per la domanda di beni e servizi e per l’occupazione.
La seconda considerazione è che quando anche si arrivasse ad una riduzione del livello dei prezzi grazie alle politiche di flessibilità e riduzione dei salari, questo avrebbe conseguenze devastanti sulla sostenibilità dei debiti sia del settore pubblico che del settore privato (famiglie e imprese). Infatti i redditi e le entrate correnti in euro diminuirebbero, mentre il valore dei debiti già contratti rimarrebbe invariato – si moltiplicherebbero dunque le difficoltà del settore pubblico a raggiungere gli obiettivi di pareggio di bilancio e riduzione del rapporto debito/Pil e nel settore privato aumenterebbero insolvenze e fallimenti, con conseguenze negative e che potrebbero essere fatali anche per il sistema bancario.
Veniamo infine all’idea che una maggiore flessibilità del lavoro favorisca la produttività delle imprese. Certo, la maggiore facilità di licenziamento realizzata attraverso la precarizzazione e la rimozione della protezione dal licenziamento ha la capacità di rendere più ricattabili e quindi più “disciplinati” i lavoratori…Ma la competitività internazionale delle imprese richiede altro: tecnologia, capacità innovativa. Il grado di innovazione tecnologica e quindi di produttività delle imprese è fortemente legato ai nuovi investimenti – ma questi ultimi sono stimolati da un contesto di crescita della domanda e della produzione. Inoltre è stato argomentato da vari economisti che proprio l’aumento dei salari può costituire un incentivo ad innovare per le imprese, in modo da ricercare nella tecnologia una via per ridurre i costi, piuttosto che ridurli attraverso un maggiore sfruttamento del lavoro. L’opportunità di perseguire quest’ultima strada, favorita dalla de regolamentazione del mercato del lavoro, tende ad incentivare una “via bassa” al contenimento dei costi che finisce per danneggiare il paese e la sua capacità tecnologica.