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Gli argomenti utilizzati per sostenere le politiche di “flessibilità” 

Nel documento Il vecchio e il nuovo della crisi europea (pagine 149-151)

Crescita e “riforma” del mercato del lavoro 

1.  Gli argomenti utilizzati per sostenere le politiche di “flessibilità” 

Un primo argomento è che la flessibilità del lavoro ridurrebbe il costo del lavoro per  le imprese sia riducendo i costi di un eventuale licenziamento quando questo si rendesse  necessario  sia  perché  si  presume  –  e  qui  a  ragione  –  che  la  maggiore  flessibilità  dei  contratti e la riduzione delle tutele induca anche una flessibilità verso il basso dei salari  reali  (cioè  in  termini  di  potere  d’acquisto),  perché  la  riduzione  delle  tutele  tende  ad  indebolire i sindacati  e in generale a rendere i lavoratori più ricattabili e quindi meno in  grado di contrattare sulle condizioni retributive e di lavoro. 

Secondo la teoria economica tradizionale (pre­keynesiana e oggi di nuovo in auge)  esiste  una  relazione  inversa  tra  costo  del  lavoro  per  l’impresa  e  occupazione  di  lavoro,  a  parità di altre circostanze. 

Un  altro  argomento  addotto  a  favore  della  riforma  del  mercato  del  lavoro  è  che  questa,  attraverso  la  riduzione  dei  costi  per  le  imprese  e  la  riduzione  dei  salari  nominali  (cioè in euro, non necessariamente in potere d’acquisto) porterebbe ad una riduzione dei  prezzi dei beni esportati  rispetto a quelli di altri paesi concorrenti e quindi favorirebbe una  maggiore competitività internazionale dell’Italia. Cioè, si sostiene, poiché a livello europeo  non è più possibile svalutare il cambio, quei paesi che hanno perso competitività all’interno  e all’esterno dell’eurozona devono ridurre i prezzi dei propri prodotti, consentendo così la  crescita  delle  esportazioni  e  la  correzione  dei  disavanzi  nei  conti  con  l’estero  (cfr  il  documento Europlus 2011 della Commissione Europea).  

Infine,  un  terzo  argomento  è  che  la  flessibilità  nell’uso  del  lavoro  favorirebbe  una  maggiore produttività/efficienza delle imprese.    2. Argomenti generali contro la flessibilità  Per quanto concerne la prima tesi, cioè che una riduzione del costo del lavoro per le  imprese porterebbe comunque ad una maggiore occupazione, essa è molto controversa sul  piano teorico: da un lato studi teorici hanno mostrato che la relazione inversa tra salario  reale e occupazione non sussiste; dall’altro, sempre a livello teorico, la analisi keynesiana  mette  in  luce  che  la  diminuzione  dei  salari  reali,  in  quanto  riduce  la  propensione  al  consumo,  tende  a  ridurre  la  domanda  aggregata  di  beni  e  servizi,  e  quindi  a  ridurre  il 

livello  di  produzione  (che  si  adegua  alla  domanda)  e  di  conseguenza  a  ridurre  anche  l’occupazione.  Prese  insieme,  queste  analisi  portano  ad  affermare  che  nell’aggregato  le  imprese  assumeranno  più  lavoratori  solo  se  avranno  l’opportunità  di  vendere  una  maggiore quantità di beni e servizi, e la questione è dunque di capire se una riduzione dei  salari potrà portare ad una maggiore domanda di beni e servizi – la risposta è no, semmai  il contrario, tranne che per una eventuale capacità di stimolare le esportazioni. 

E  veniamo  così  a  valutare  il  secondo  argomento,  quello  secondo  il  quale  la  flessibilità  del  mercato  del  lavoro,  e  la  conseguente  flessibilità  dei  salari,  potrebbe  migliorare la competitività internazionale del paese e quindi le esportazioni nette. A questo  riguardo il primo punto da mettere in evidenza è che il concetto di competitività è relativo,  e  nel  momento  in  cui  le  politiche  di  flessibilizzazione  di  salari  e  lavoro  vengono  richieste/imposte a un gran numero di economie Europee, l’effetto complessivo è quello di  una  “deflazione  salariale”  generalizzata,  cioè  di  una  rincorsa  competitiva  al  ribasso  dagli  effetti  positivi  molto  incerti  e  con  effetti  negativi  sicuri  ­  soprattutto  se  la  politica  di  contenimento  dei  costi  e  dei  prezzi  viene  sistematicamente  perseguita,  come  è  avvenuto  sinora,  anche  dal  paese  europeo  che  ha  un  vantaggio  competitivo  e  un  grande  surplus  commerciale, cioè la Germania. Per quanto riguarda poi la competitività con i paesi esterni  all’eurozona,  sarebbe  difficile  recuperare  via  riduzioni  dei  prezzi  la  competitività  persa  attraverso  l’apprezzamento  dell’euro  rispetto  al  dollaro  –  oggi  (nonostante  il  recente  deprezzamento) rivalutato del 25% rispetto alla parità iniziale e di circa il 35% rispetto al  cambio che si aveva all’inizio del 2000. 

A queste considerazioni generali se ne aggiungono altre due, non meno rilevanti.   La prima è che una riduzione del costo del lavoro per le imprese potrebbe dar luogo  ad una maggiore competitività internazionale solo se si traduce in una caduta dei prezzi dei  beni  e  servizi  prodotti.  Ma  gli  studi  su  questo  tema  suggeriscono  che  ciò  non  necessariamente avviene, o avviene nella stessa proporzione ­ il livello dei prezzi tende a  diminuire  meno  dei  salari  nominali  (Artus,  2011;  si  veda  anche  Stirati,  2006,  che  critica  anche  la  tesi  che  ciò  dipenda  da  mancate  liberalizzazioni  nel  settore  dei  servizi).  Ma  se  i  prezzi  non  cadono  quanto  i  salari,  non  solo  si  riduce  la  possibilità  di  un  miglioramento  nelle  esportazioni,  ma  si  determina  una  caduta  nel  potere  di  acquisto  dei  salari,  con  conseguenze estremamente negative per la domanda di beni e servizi e per l’occupazione.  

La  seconda  considerazione  è  che  quando  anche  si  arrivasse  ad  una  riduzione  del  livello  dei  prezzi  grazie  alle  politiche  di  flessibilità  e  riduzione  dei  salari,  questo  avrebbe  conseguenze devastanti sulla sostenibilità dei debiti sia del settore pubblico che del settore  privato (famiglie e imprese). Infatti  i redditi e le entrate correnti in euro diminuirebbero,  mentre  il  valore  dei  debiti  già  contratti  rimarrebbe  invariato  –  si  moltiplicherebbero  dunque le difficoltà del settore pubblico a raggiungere gli obiettivi di pareggio di bilancio e  riduzione  del  rapporto  debito/Pil  e  nel  settore  privato  aumenterebbero  insolvenze  e  fallimenti,  con  conseguenze  negative  e  che  potrebbero  essere  fatali  anche  per  il  sistema  bancario. 

Veniamo  infine  all’idea  che  una  maggiore  flessibilità  del  lavoro  favorisca  la  produttività delle imprese. Certo, la maggiore facilità di licenziamento realizzata attraverso  la  precarizzazione  e  la  rimozione  della  protezione  dal  licenziamento  ha  la  capacità  di  rendere  più  ricattabili  e  quindi  più  “disciplinati”  i  lavoratori…Ma  la  competitività  internazionale  delle  imprese  richiede  altro:  tecnologia,  capacità  innovativa.  Il  grado  di  innovazione tecnologica e quindi di produttività delle imprese è fortemente legato ai nuovi  investimenti – ma questi ultimi sono stimolati da un contesto di crescita della domanda e  della produzione. Inoltre è stato argomentato da vari economisti che proprio l’aumento dei  salari  può  costituire  un  incentivo  ad  innovare  per  le  imprese,  in  modo  da  ricercare  nella  tecnologia  una  via  per  ridurre  i  costi,  piuttosto  che  ridurli  attraverso  un  maggiore  sfruttamento del lavoro. L’opportunità di perseguire quest’ultima strada, favorita dalla de­ regolamentazione  del  mercato  del  lavoro,  tende  ad  incentivare  una  “via  bassa”  al  contenimento dei costi che finisce per danneggiare il paese e la sua capacità tecnologica. 

 

Nel documento Il vecchio e il nuovo della crisi europea (pagine 149-151)