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Come espressamente dichiarato nella Relazione della Banca d’Italia la 

Nel documento Il vecchio e il nuovo della crisi europea (pagine 194-197)

Un passo indietro? L’euro e la crisi del debito 

2.  Come espressamente dichiarato nella Relazione della Banca d’Italia la 

sopravvivenza  dell’Unione  monetaria  europea  appare  legata  a  riforme  istituzionali  che  superino  il  carattere  in  gran  parte  improvvisato  ed  emergenziale  che  finora  ha  caratterizzato  la  costituzione  prima  dell’EFSM  (lo  European  Financial  Stabilisation  Mechanism), poi dell’EFSF (lo European Financial Stability Fund), ed infine dell’ESM (lo  European Stability Mechanism). Sia le misure adottate che le soluzioni prospettate per il  futuro  nei  recenti  vertici  europei  non  sembrano  però  all’altezza  della  situazione,  ed  anzi,  come si dirà, potranno determinare un peggioramento delle condizioni macroeconomiche 

         

3  Ci  si  riferisce  ai  grandi  gruppi  industriali  e  finanziari  europei,  e  a  paesi  come  la  Germania 

definiti  “virtuosi”  nella  Relazione  della  Banca  d’Italia,  che  hanno  guadagnato  dall’assenza  di  svalutazioni  competitive  da  parte  di  paesi  europei  concorrenti.    Riguardo  all’Italia,  si  osserva  dall’introduzione  dell’euro  e  la  conseguente  perdita  dello  strumento  del  tasso  di  cambio  e  perseguimento di avanzi primari tesi a ridurre il rapporto debito pubblico­prodotto interno lordo,  un  tasso  di  crescita  del  PIL  minore  che  nei  decenni  precedenti,  un’ulteriore  redistribuzione  di  reddito e della ricchezza a favore dei ceti sociali più ricchi, e l’accumulo di disavanzi commerciali.  Nella crisi recente, inoltre, la caduta di reddito è stata in Italia maggiore che altrove, ed i tassi di  interesse sui titoli del debito pubblico sono aumentati rispetto a quelli tedeschi, determinando un  onere per il servizio del debito pubblico molto più alto che per i paesi centrali dell’Unione europea. 

a livello europeo. Su molte di esse poi continua a non esservi accordo tra i principali paesi  europei. Questo è il caso, ad esempio, della proposta di istituire un fondo in cui trasferire i  debiti  sovrani  dei  singoli  Stati  che  eccedano  una  soglia  uniforme,  da  redimere  gradualmente in tempi e modi da definire. Ma questo è il caso anche della proposta meno  ambiziosa  di  scorporare  le  spese  dello  Stato  in  conto  capitale  dal  calcolo  del  deficit  massimo di bilancio consentito agli Stati membri dell’area dell’euro (la cosiddetta “golden  rule”),  dando  così  loro  un  qualche  margine  per  politiche  di  sostegno  alla  domanda  aggregata. In tutti questi casi, ci si trova di fronte all’opposizione della Germania e di altri  paesi dell’Europa centrale verso qualsiasi provvedimento che possa determinare o favorire  una qualche forma di monetizzazione e condivisione del debito pubblico, così come verso  la  costituzione    di  una  Unione  europea  in  grado  di  emettere  propri  titoli  di  debito  ed  operare  attraverso  propri  strumenti  fiscali  trasferimenti  di  reddito  tra  le  varie  regioni  dell’Unione  parallelamente,  e  non  solo  in  caso  successivamente,  ad  una  progressiva  perdita di sovranità fiscale dei singoli Stati membri. 

La posizione  della Germania  – comprensibile nell’ottica nazionale  di un paese che  ritiene che per questa strada finirebbe per assumersi l’onere di debiti accumulati da altri,  ma meno comprensibile alla luce dei guadagni che quel paese ha conseguito proprio grazie  alla  moneta  unica,  ed  anche  del  contributo  in  percentuale  al  PIL  non  maggiore  di  altri  paesi che finora ha dato alle risorse comunitarie ed ai fondi di stabilizzazione ­ sembra in  effetti  precludere  la via  all’unico  scenario  che  potrebbe  risolvere  la  crisi  attuale  con  costi  minimi per la popolazione europea, superando tra l’altro la contraddizione tutta europea di  paesi sovrani a sovranità monetaria limitata, privi cioè di una propria Banca Centrale.4 Per  quanto infatti poco probabile per ragioni storiche, politiche ed economiche, si tratterebbe            4 Con la Banca Centrale Europea si ha di fatto (o meglio si aveva, date le difficoltà attuali) una 

banca  dominante  nel  mercato  interbancario  che  normalizza  l’offerta  di  liquidità  ed  i  tassi  di  interesse al livello desiderato, ma la cui valuta trae legittimità soprattutto dalla fiducia sociale verso  di  essa  nei  vari  paesi  europei,  e  non  dall’attribuzione  dello  Stato  ai  suoi  debiti  di  avere  potere  liberatorio  legale.  Si  determina  così  ciò  che  Goodhart  ha  chiamato  una  situazione  di  sovrani  sussidiari che finiscono per avere un rischio di insolvenza ed essere alla mercé dei grandi investitori  internazionali. 

di giungere ad una revisione dei Trattati dell’Unione monetaria europea centrata da un lato  su una modifica dello Statuto della Banca Centrale Europea che le permetta di agire come  prestatore  di  ultima  istanza  anche  (a  lungo  termine)  per  il  debito  sovrano  dei  paesi  europei,  così  garantendone  la  solvibilità  e  minimizzando  il  costo  del  servizio  del  debito  pubblico;  e  dall’altro,  su  una  più  sostanziale  unificazione  politica  ed  economica  dell’Europa, con un vero Stato e governo federali, una vera politica fiscale europea dotata  di  un  consistente  bilancio  proprio,  e  l’emissione  di  titoli  pubblici  europei.  Ciò  permetterebbe  tra  l’altro  di  affrontare  quella  che  in  realtà  è  tra  le  cause  delle  attuali  difficoltà dell’area dell’euro, l’assenza cioè di meccanismi di aggiustamento degli squilibri  commerciali intra­europei non semplicemente in termini di cadute del reddito interno e/o  dei salari e dei prezzi nei paesi in deficit – ma anche con trasferimenti di risorse a livello  europeo verso quei paesi in deficit, o più in generale verso i paesi che risultassero colpiti in  modo asimmetrico dalle politiche monetarie seguite a livello centrale e/o dall’andamento  economico interno ed internazionale.5   In questo contesto, vincoli ai bilanci statali dei singoli Stati non precluderebbero le  possibilità di crescita complessiva dell’area dell’euro, garantite da appropriate e coordinate  politiche  monetarie  e  fiscali  a  livello  centrale.  Inoltre,  opportune  politiche  industriali  dei  singoli  Stati  (favorite  anche  da  trasferimenti  centrali)  potrebbero  evitare  gradi  di  specializzazione troppo elevati delle singole regioni europee, favorendo il mantenimento e  sviluppo  del  tessuto  industriale  anche  nelle  aree  più  deboli  (ed  anche  in  campi  tecnologicamente avanzati), un processo di omogeneizzazione della legislazione sul lavoro  e  fiscale,  la  riduzione  della  dipendenza  dall’estero  dei  paesi  “periferici”  ­  che  permetta  anche per questa via tassi di crescita più elevati per il complesso dell’area dell’euro. Se ciò  si  realizzasse,  e  solo  in  questo  caso,  l’appello  a  “stringersi  intorno  alla  manifattura 

          5 I limiti dell’Unione monetaria europea al riguardo sono stati più volte messi in evidenza nella  letteratura sulle aree valutarie ottimali. Cfr. ad esempio Feldstein M. (1997), The Political Economy  of the European Economic and Monetary Union, Journal of Economic Perspectives, 11, 4; Lane P.R  (2006), The real effects of European Monetary Union, Journal of Economic Perspectives, 20 (4),  47­66;  e  De  Grauwe  P.  (2006),  On  monetary  and  political  union,  Catholic  University  of  Leuven,  Department of Economics, May.  

tedesca”6 per poter “reggere” in futuro la concorrenza internazionale delle grandi imprese 

multinazionali e di paesi emergenti come la Cina e l’India troverebbe terreno per una sua  manifestazione  progressiva:  la  “rivoluzione  passiva”  che  sta  lentamente  portando  alla  costituzione  di  una  entità  sovranazionale  europea  non  implicherebbe  infatti  necessariamente l’impoverimento materiale ed industriale dei paesi “periferici”. 

 

Nel documento Il vecchio e il nuovo della crisi europea (pagine 194-197)