Molto rigore per nulla
5. Che fare?
Tirando le fila, se la serie di sfortunati eventi accaduta nell’EZ e favorita dalla moneta unica (liberalizzazione finanziaria, stabilizzazione dei cambi, bassi tassi di interesse) fosse accaduta fuori del contesto di una unione monetaria, la crisi avrebbe avuto il suo ben noto corso, più o meno doloroso (svalutazioni, fallimenti, ripresa). Se d’altronde, l’EZ fosse uno stato federale, la crisi avrebbe pure seguito percorsi ben noti, un po’ come la crisi americana. Il governo avrebbe imposto il riequilibrio delle finanze locali, la ristrutturazione, nazionalizzazione o chiusura delle banche insolventi, ma anche addolcito le conseguenze con cospicui trasferimenti dalle regioni più affluenti a quelle più povere. L’Europa è in una situazione per cui la periferia né fallisce, né viene aiutata a risolvere la 13 In sostanza le banche spagnole sono piene di crediti immobiliari inesigibili (e che rinnovano per nasconderli sotto il tappeto) e posseggono centinaia di migliaia di case il cui valore continua a calare.
crisi, magari con qualche sacrificio ma con una prospettiva di sicura crescita. Si è fatto un gran parlare lo scorso maggio di una disponibilità del governo tedesco a far decollare un po’ di inflazione in Germania, sì da consentire alla periferia un po’ di ripresa di competitività, ma i dati sembrano per ora smentire questo indirizzo. Una inflazione tedesca superiore a quella dei paesi periferici dovrebbe essere perseguita per un congruo numero di anni e accompagnata da un intervento diretto della BCE a ridurre gli spread sui titoli sovrani periferici ai livelli pre2008 sdrammatizzando la situazione. Questo consentirebbe una stabilizzazione del rapporto debito pubblico/Pil nei paesi ove questo è più elevato, ciò che risulterebbe compatibile con politiche di bilancio espansive soprattutto nei paesi in surplus di PC. I trasferimenti finanziari, ma anche di buona amministrazione pubblica, dal centro verso la periferia dovrebbero essere accresciuti, per sostenere ricerca, istruzione, efficienza della pubblica amministrazione, risanamento ambientale e quant’altro. Il sistema finanziario andrebbe riregolato, consentendo ai paesi periferici la ricostituzione di istituzioni finanziarie pubbliche volte a sostenere politiche industriali attive.
La ragionevolezza di queste proposte si scontra col rifiuto tedesco, in certa misura comprensibile, a una maggiore inflazione, il che vorrebbe dire rinunciare al modello mercantilista. Si dice tuttavia che la Germania si renderà alla fine disponibile a una messa in comune di parte dei debiti pubblici in un “fondo di redenzione” e a un sostegno comune ai sistemi bancari vacillanti in cambio di un nuovo Trattato che ponga le finanze pubbliche nazionali definitivamente sotto il controllo europeo. Purtroppo prima di giubilare alla maggiore integrazione europea si deve costatare che il fondo di redenzione altro non sarebbe che un più stringente “fiscal compact” in cui i paesi sarebbero costretti a redimere la propria quota di debito in 25 anni, mentre nulla i tedeschi si impegnano a fare per rilanciare la propria domanda interna. La periferia si vedrebbe condannata a un’eterna austerità essendo anche stata espropriata di ogni controllo parlamentare sulle finanze avendo da tempo perso quello sulla moneta. (Si rammenti che debito e peccato si esprimono con il medesimo termine in tedesco). Questo piano o è un protervo ultimatum imperialista tedesco, o a fronte del certo rifiuto francese a cedere la propria sovranità si tratta di un alibi di Berlino per non far nulla e intanto si gode, grottescamente, un euro debole zucchero per il proprio export e tassi di interesse sul suo debito sovrano, bene rifugio per gli investitori, quasi a zero, uno schiaffo alla miseria, verrebbe da dire.
Persino un disegno progressista che vedesse in cambio della rinuncia alle politiche di bilancio nazionali (tenute al pareggio), l’unificazione parziale dei debiti sovrani senza sciocchi impegni alla “redenzione”, la creazione di un bilancio federale volto al sostegno di domanda e investimenti e una BCE accomodante, si scontrerebbe con ulteriori difficoltà. Siffatto disegno, sebbene un passo in avanti, ancora non affronta la questione di fondo di una periferia europea resa meno competitiva dalla moneta unica e dunque più povera. L’integrazione politica richiederebbe infatti un minimo di perequazione nei diritti sociali comportando dunque quella “transfer union” tanto temuta dai tedeschi. L’integrazione europea sarebbe dunque per loro sostenibile solo se si sancisse l’esistenza di paesi di serie A e paesi di serie B in termini di diritti sociali e lavorativi Secondo alcune opinioni desiderio della Germania è proprio di precostituirsi un retroterra di lavoro a buon mercato per meglio affrontare la sfida dei paesi emergenti (si veda il contributo di Paggi e d’Angelillo). In sintesi, a fronte di una inaccettabile maggiore inflazione in Germania, o si attua una “transfer union”, o si accetta un “European divide”, o si rompe (vedi qui e qui).
Raccontavano Frenkel et al alcuni anni fa a proposito delle politiche adottate da de la Rùa, uno dei Presidenti argentini che si susseguirono prima del fallimento del 2002, politiche ancora ispirate al famigerato Presidente Carlos Menem, beniamino del FMI:
“Il governo sostiene che un ulteriore perseguimento della politica fiscale rafforzerà la fiducia, e conseguentemente il premio per il rischio cadrebbe tirando giù i tassi di interesse. Come risultato, la spesa domestica si riprenderebbe spingendo l’economia fuori della recessione. I bassi tassi e la crescita del PIL ristabilirebbero il pareggio di bilancio, così chiudendo un circolo virtuoso”.
Il risultato di tali politiche fu la peggiore recessione dal primo conflitto mondiale. La filosofia della “credibilità” è la medesima di Mario Monti. Rimuovere Monti e instaurare un governo progressista di forte ispirazione keynesiana nel pretendere il sostegno alla domanda aggregata a livello europeo e il mutamento di status della BCE, e che adotti a livello nazionale misure di politica industriale pubblica e distributiva volte a sostenere capacità produttiva ed equità sociale, sarebbe il primo passo di una sinistra minimamente responsabile verso il proprio paese. Questo ridarebbe anche fiducia nella politica.
Naturalmente, a fronte del rifiuto degli altri paesi di un pacchetto di misure seriamente volte alla crescita europea, non rimarrebbe che la strada del ritorno alla piena sovranità monetaria.14
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versione working paper.
14 Una delle più diffuse bugie raccontate quando è scoppiata la crisi finanziaria è che l’euro ci ha
fatto da scudo a ben più gravi disgrazie. Un documento recente del FMI mostra invece, con riferimento all’esperienza dell’AmericaLatina, come le liberalizzazioni finanziarie e i tassi di cambio fissi sono causa delle crisi finanziarie e del loro contagio. Uno studio di Merril Lynch sostiene che l’Italia sarebbe nelle condizioni di uscire dall’euro e di avvantaggiarsene a differenza della Spagna, incapace di navigare da sola, e della Germania che avrebbe tutto da perdere dalla rinnovata sfida industriale italiana. Le modalità legali ed economiche di una eventuale uscita sono correttamente documentate più avanti da Levrero. Appare in particolare evidente che qualunque paese che lasci l’UME possa ridenominare il proprio debito pubblico nella sua nuova moneta sovrana. Nessun paese il cui debito è denominato nella moneta sovrana può per principio incorrere in un fallimento. La svalutazione della moneta potrà naturalmente comportare perdite in termini di altre valute (questo lo si può considerare, in senso lato, una forma di fallimento sulla quota del debito detenuta da stranieri). Valutazioni ragionate circa la svalutazione in cui la nuova moneta italiana incorrerebbe sono nei contributi di Zezza e di Levrero.
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