Sostenibilità dei modelli di regolazione sociale e precarietà esistenziale
2. Il rischio occupazionale e la precarietà esistenziale: cosa ci dice l’economia comportamentale
2.3 I costi non pecuniari della flessibilità e l’economia comportamentale: l’adattamento edonico
Come abbiamo visto la teoria tradizionale descrive adeguatamente i costi pecuniari della flessibilità, mentre ignora molti dei costi non pecuniari. Per studiare questi ultimi e determinare il costo complessivo della precarietà e della disoccupazione appaiono di particolare utilità alcuni modelli dell’economia comportamentale52, nati per spiegare analiticamente alcuni
fenomeni specifici e correlati tra loro studiati dalla psicologia economica:
51 È importante rimarcare come ciò non implichi che nessun ammontare monetario sarebbe
in grado di compensare un soggetto dalla perdita del posto di lavoro; significa solo che se la disoccupazione genera una perdita di benessere maggiore rispetto alla perdita di reddito, il sussidio di disoccupazione dovrebbe essere maggiore rispetto alla perdita di reddito per compensare gli effetti del licenziamento.
52 L’economia comportamentale è una branca della teoria economica che pone in
discussione l’approccio neoclassico, ritenendo che i soggetti non compiano sempre scelte atte a massimizzare la loro utilità personale. Questo approccio inizia a diffondersi alla fine degli anni settanta del secolo scorso, principalmente grazie al lavoro del premio nobel Daniel Kahneman e del suo collega Amos Tversy. A differenza dell’approccio tradizionale, la behavioral economics non si basa su un solo principio (la massimizzazione dell’utilità) per ricavare tutti i diversi comportamenti dei soggetti economici ma riconosce invece una molteplicità di determinanti, ognuna delle quali adatta a spiegare i diversi comportamenti nelle diverse, specifiche circostanze. Una simile flessibilità permette agli studiosi di giungere più vicini ai comportamenti reali dei soggetti rispetto a quanto riesca a fare la teoria tradizionale, sebbene al costo di una maggiore difficoltà nella costruzione di un approccio teorico unitario.
l’adattamento edonico, l’avversione alla perdita, l’effetto dotazione, la
preferenza per lo status quo.
L’adattamento edonico è un fenomeno ben documentato associato ai cambiamenti negli stati psicologici degli individui che può aiutare a capire perché i lavoratori possano preferire episodi di disoccupazione più lunghi in cambio di una loro minore frequenza, ossia perché sia preferibile l’intervento pubblico in funzione anticiclica invece del non intervento, e la protezione on the job rispetto a quella on the market. La figura 1 descrive l’evoluzione del benessere di un lavoratore in presenza di adattamento edonico, considerando costante il reddito da salario nei periodi di occupazione. Dopo il primo episodio di disoccupazione, il benessere soggettivo crolla drammaticamente; quindi, il benessere lentamente cresce grazie al processo di adattamento, ma non torna mai al livello originario, anche se il lavoratore ottiene un nuovo impiego.
Disoccupazione episodio 2 Riassunzione Riassunzione Benessere soggettivo perdita irreversibile Adattamento edonico Disoccupazione episodio 1
Figura 1 – Evoluzione nel tempo del benessere di un lavoratore in presenza di adattamento edonico (a salario costante quando occupato).
Il punto di partenza generale dell’analisi dell’adattamento edonico, non riferito quindi specificamente al mercato del lavoro, è la constatazione, supportata da ampia evidenza empirica e sperimentale, che il benessere
individuale, misurato in termini di gradi di felicità o soddisfazione, sia influenzato dagli accadimenti positivi e negativi della vita, ma poi nel tempo tenda a tornare al suo livello iniziale o “a regime”. Questo fenomeno è noto appunto come adattamento edonico, e può essere proficuamente utilizzato anche per dar conto dell’impatto che gli episodi di disoccupazione hanno sul benessere degli individui: gli studi sulla felicità giungono infatti alla conclusione che la perdita dell’occupazione sia uno degli eventi peggiori che possono occorrere nel corso della vita. Clark e Oswald, e Di Tella, MacCulloch e Oswald53 mostrano inoltre che le componenti non pecuniarie della perdita di benessere derivanti dalla disoccupazione possono essere maggiori rispetto a quelle pecuniarie e che l’impatto negativo della disoccupazione è maggiore tra coloro che hanno perso le loro occupazioni recentemente. L’elemento cruciale che caratterizza l’adattamento edonico in caso di disoccupazione è la sua apparente incompletezza: l’evidenza empirica sembra infatti confermare che l’adattamento edonico operi anche nel caso della disoccupazione, ma che il recupero del livello iniziale di benessere soggettivo sia incompleto. Il benessere di un lavoratore si ridurrà infatti drammaticamente dopo il primo episodio di disoccupazione; successivamente, crescerà lentamente grazie all’adattamento edonico, ma non raggiungerà mai più il livello originario, anche se il soggetto otterrà una nuova occupazione. Ogni successivo episodio di disoccupazione, inoltre, ridurrà il set-point, il benessere massimo al quale il lavoratore riesce a tornare grazie all’adattamento. Il processo è cumulativo – anche se la perdita irreversibile di benessere è progressivamente minore dopo ogni episodio di disoccupazione a causa dell’adattamento di lungo periodo. In sostanza, il livello base di soddisfazione verso la quale il soggetto ritorna dopo uno shock occupazionale si modifica definitivamente proprio in conseguenza dello shock, nel caso in questione riducendosi; e questo accadrebbe anche qualora l’episodio di disoccupazione fosse di breve durata. Il mancato recupero del livello iniziale di benessere è generalmente considerato una
53 Clark A.E., Oswald A.J. (1994), “Happiness and Unemployment”, in Economic Journal,
n. 104, p. 648-659; Di Tella R., MacCulloch R., Oswald A. (2003), “The Macroeconomics of Happiness”, in Review of Economics and Statistics, n. 85, volume 4, pp. 809-827.
conseguenza della circostanza che i soggetti riescono ad adattarsi più facilmente a uno shock pecuniario (la perdita del salario) piuttosto che agli effetti non pecuniari dei cambiamenti di status (da occupato a disoccupato, in questo caso). I costi non pecuniari della disoccupazione non possono quindi mai essere trascurati. E se, come l’evidenza empirica suggerisce, il costo fisso non pecuniario degli episodi di disoccupazione è più importante, nel determinare il benessere, rispetto al costo variabile pecuniario di una relativamente più lunga disoccupazione, il sussidio che sarebbe necessario erogare al fine di compensare i soggetti per la perdita di benessere causata dalla disoccupazione è molto elevato e, secondo molti autori54, richiederebbe un tasso di sostituzione, ossia un rapporto tra sussidio e ultimo salario, molto maggiore di uno!
In conclusione, l’approccio dell’adattamento edonico suggerisce che l’impatto negativo sul benessere individuale di numerosi, brevi episodi di disoccupazione è maggiore (peggiore) rispetto all’impatto sul benessere di pochi, lunghi episodi di disoccupazione. Inoltre, il costo che sarebbe necessario sostenere per compensare i lavoratori della perdita occupazionale sarebbe molto elevato, poiché un sussidio adeguato, teoricamente, potrebbe essere molto superiore all’ultimo salario; e anche l’ottenimento di un nuovo posto di lavoro dopo un periodo di licenziamento (ad esempio se avessero successo politiche del tipo “il rigore che fa crescere”) potrebbe compensare il lavoratore dell’esperienza del licenziamento solo se il salario fosse sensibilmente più alto rispetto a quello perso. A ciò si aggiunga una conseguenza non secondaria, che il lavoratore allontanato dal posto di lavoro vede ridursi motivazioni e invecchiare le proprie competenze. È quindi razionale, tanto per i soggetti quanto per il Governo, preferire tassi di ingresso nella disoccupazione più bassi piuttosto che tassi di uscita dalla disoccupazione più alti, è cioè razionale richiedere politiche di tutela dell’occupazione o interventi anticiclici ben temperati.
54 Ad es. Winkelmann L., Winkelmann R. (1998) “Why Are Unemployed so Unhappy?
Evidence from Panel Data”, in Economica, n. 65, volume 257; Di Tella, MacCulloch and Oswald, op. cit.; Frey B., Stutzer A. (2002), “What can Economists Learn from Happiness
2.4 L’avversione alla perdita, la preferenza per lo status quo e l’effetto