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L’esempio sopra riportato permette di capire si come ogni rappresentazione possa, effettivamente, favorire una versione della memoria e contribuire attivamente alla costruzione culturale di un trauma.

Ma andiamo con ordine.

Come ho tentato di spiegare fin qui, ci sono eventi traumatici che colpiscono una società e che di conseguenza portano con sé la necessaria riflessione sul come, il quando e il perché traumi individuali si stacchino dal singolo per aderire a un gruppo o, più in generale, a una società. In realtà è sbagliato pensare che ci siano dei processi capaci di trasportare in maniera del tutto naturale un trauma da una dimensione più strettamente individuale a una dimensione collettiva. Bisogna cambiare prospettiva. L’evento o, per meglio dire, i diversi eventi traumatici possono colpire una società nel suo insieme, ma ritenere che si possano applicare gli stessi modelli analitici pensati per il singolo a una comunità intera sarebbe un errore. L’equivoco maggiore che si potrebbe creare sarebbe quello di sintetizzare un fenomeno complesso utilizzando un’espressione (quella di trauma collettivo) apparentemente semplice e lineare rischiando di accomunare, allo stesso modo vittime, esecutori o semplici spettatori degli eventi traumatici. Pertanto, come anticipato in precedenza, ritengo utile pensare a quelli che alcuni definiscono traumi collettivi nei termini di una “società traumatizzata”,300 una società in cui il trauma è, sì, diffuso ma non necessariamente in modo omogeneo. L’eterogeneità della diffusione del trauma, delle cause e delle conseguenze a livello sia individuale che collettivo permette di capire come memorie diverse possano coesistere

300

all’interno della stessa società. Così com’è possibile individuare una distinzione tra memorie individuali e collettive, è altrettanto possibile fare una distinzione tra traumi individuali e collettivi301. Come dicevo in precedenza, la memoria (e chiaramente la memoria di eventi particolarmente traumatici) non ha solo una dimensione soggettiva, essa è anche una produzione culturale; essa è il risultato di costanti processi sociali in cui prende forma, si struttura, per poi mutare al mutare di quadri sociali di riferimento302. Ritorniamo sullo sfondo della teoria di Jeffrey Alexander e della sua proposta del concetto di trauma culturale. La

definizione proposta da Alexander303 pone un’importante questione scientifica, ossia che certi eventi sono in connessione con certe strutture e percezioni e con delle responsabilità sociali. Ma sottolinea anche che il concetto di trauma è in un rapporto profondo con la vita quotidiana, col modo in cui le persone lo impiegano per spiegare un mutamento grave del loro ambiente. La sfida che Alexander pone è quella di de-naturalizzare il concetto di trauma. Mettendo in discussione l’idea secondo cui i traumi sono eventi che avvengono naturalmente, e proponendo una teoria riflessiva del trauma304, Alexander sottolinea che il trauma collettivo deriva da un’attribuzione di significati socialmente mediata, ovvero da una costruzione culturale, che può avvenire durante l’evento, ma anche dopo, o prima. Solo attraverso un

processo performativo di rappresentazione, che si basa su un’attività d’immaginazione e su

una creazione estetica, che poggia su una performance in pubblico e su atti discorsivi, gli attori possono riuscire ad acquisire il senso dell’esperienza che hanno fatto di un certo evento. Con la sua teoria, Alexander va al cuore del lavoro collettivo di costruzione della memoria di un evento traumatico.

Il trauma non è qualcosa che esiste di per sé, che si genera naturalmente, ma qualcosa che un gruppo si fa carico di testimoniare e che poi la comunità assume come tale. Ed è solo attraverso la rappresentazione che un trauma può essere riconosciuto e divenire un pezzo della coscienza collettiva. La rappresentazione consiste in un processo di definizione culturale e pubblica in cui, in una circolarità di discorsi, vengono identificati i colpevoli, stabilite le punizioni, avviati i meccanismi cognitivi ed emotivi di elaborazione collettiva. Tali discorsi avvengono in svariate arene, da quelle giuridiche, che si incaricano di stabilire le responsabilità, a quelle filosofiche e religiose, a quelle estetiche. Tutte queste arene contribuiscono a trasformare un evento che riguarda alcuni in un trauma che appartiene all’intera collettività ed intorno a cui l’identità collettiva si struttura. Attraverso la rappresentazione del trauma viene sfidata e sovvertita l’idea che un evento sia indicibile ed inaudibile. 305

In altri termini, un trauma, per essere riconosciuto come tale, va spiegato e capito attraverso la riflessione e il discorso pubblico, attraverso l’azione di attori che lo rendano

301

Kai Erikson fu tra i primi studiosi a tematizzare la differenza tra traumi individuali e collettivi in un suo scritto del 1976 in cui analizzava gli effetti di una catastrofe naturale (Cfr. Erikson, K. (1976) Everything in its Path. Destruction of Community in the Buffalo Creek Flood, Simon and Schuster, New York). Per una visione completa delle teorie di Erikson sui traumi collettivi rimando a: Caruth, C. (a cura di) (1995), Trauma: Explorations in Memory, The Johns Hopkins University Press, Baltimore.

302

Cfr. Halbwachs, M., La memoria collettiva, cit..

303

Si veda il Paragrafo 2.3.1 del Capitolo 2. 304

Ivi.

305

condiviso e memorabile e cha avanzino pubblicamente istanze di conoscenza, di verità e giustizia. Questo significa costruire e raccontare la storia in modo nuovo, attraverso uno schema di significazione tanto convincente da avere successo, tanto da riconfigurare identità collettive.

Occuparsi del trauma nel solco della teoria di Alexander, bisogna precisare, non significa cogliere o compiere valutazioni morali o soltanto capire l’accuratezza delle dichiarazioni degli attori sociali, bensì come esse sono si sono formate, a quali condizioni, con quali risultati. Significa per molti versi capire come il crimine commesso verso più di 30.000 persone (alcuni desaparecidos altri re-aparecidos) a lungo e volutamente nascosto dal regime, è penetrato nell’identità collettiva argentina attraverso l’azione di gruppi che si sono incaricati di farlo emergere e di trasmetterlo al pubblico.

È proprio sulla trasmissibilità dell’evento che bisogna concentrarsi per capire come, di rappresentazione in rappresentazione, funzionino i meccanismi della memoria e per comprendere come quest’ultima si cristallizzi in supporti che la rappresentano, dandole voce ma anche e soprattutto trasformandola in una memoria culturale con valore proattivo (e quindi futuro).

Il passato, ormai ci è chiaro, non è mai un qualcosa di statico, fisso e immutabile: se da un lato i fatti in sé non possono ripetersi e sono assolutamente invariabili, dall’altro la loro memoria è variabile, modellabile e può essere sottoposta a infinite riscritture. Il presente, anche questo è ormai chiaro, agisce sul passato e può interferire sul futuro, esso è il locus temporale in cui ogni gruppo investe sull’immagine identitaria che vuole assumere e trasmettere. Patrizia Violi mette bene in luce l’idea di memoria in quanto costruzione prospettica che guarda al futuro, per la Violi:

La memoria non riguarda esclusivamente la ricostruzione del nostro passato né la sola dimensione del presente; la memoria è anche, e forse paradossalmente soprattutto, una costruzione prospettica che guarda al futuro, all’immagine di noi che in quel futuro vogliamo proiettare.306

La memoria, dunque, più che fedele ricostruzione dell’avvenuto, diventa una sorta di progetto su ciò che può avvenire, su ciò che vogliamo che avvenga, a partire da cui si va poi a rileggere e ricostruire il passato, per ritrovarvi le prefigurazioni di quella identità che stiamo invece costruendo. Ci muoviamo all’interno di una dialettica tra memorie individuali e collettive che tra loro dialogano e/o si scontrano all’interno di una grande sfera producendo altre memorie culturalmente mediate. Ovviamente questo processo dialettico si complica quando la memoria collettiva ha a che fare con eventi traumatici per i quali permangono versioni diverse e contrastanti specie in posti, come l’Argentina appunto, in cui il nemico non era esterno ma interno alla collettività nazionale. Il passato traumatico diventa allora un passato contestato, rispetto al quale è molto difficile la ricostruzione di una memoria condivisa, ma coesistono piuttosto molte diverse memorie e molte differenti ricostruzioni

306

Violi, P. (2005), Ricordare il futuro. I musei della memoria e il loro ruolo nella costruzione delle identità culturali, www.ec.aiss.it.

della propria storia comune, spesso antagoniste le une alle altre. Diventa allora estremamente interessante non solo studiare le rappresentazioni deputate a costruire, conservare, tramandare la memoria del passato traumatico ma anche definire il modo in cui quelle rappresentazioni debbano essere trasferite a una cultura e una lingua diversa (su questo ci torneremo più avanti). In altri termini, diventa interessante studiare le rappresentazioni in quanto luoghi in cui l’evento traumatico si oggettiva, esternalizzandosi e diventando vero e proprio strumento di comunicazione di quella memoria e diventando, dunque, linguaggio. Le rappresentazioni instaurano un’interessante dialettica fra passato e futuro, che diviene particolarmente cruciale se letta in chiave identitaria. Infatti, il modo in cui la memoria del passato traumatico viene conservata e riproposta è direttamente in funzione di un’idea dell’identità futura che si vuole costruire. In altri termini potremmo dire che è il futuro a guidare la memoria del passato, il ricordo del trauma, la sua elaborazione, o invece la sua rimozione e cancellazione.

Ritengo essenziale ritornare sul concetto di memoria culturale così come lo intende Lotman. La sua idea di memoria ha molto a che fare con l’idea di cultura. Considerando le culture come un sistema semiotico complesso, formato da un insieme di segni linguistico- semiotici altrettanto complesso, Lotman attribuisce ad esse l’arduo compito di organizzare l’universo che le circonda trasformando un mondo aperto di cose reali nel mondo chiuso dei nomi. Lotman definisce la cultura nei termini di una memoria non ereditaria della

collettività307. La cultura è sì il frutto di esperienze passate ma essa può anche anticipare una nuova cultura, quindi la cultura del futuro che può esser ben definita come una memoria culturale. E cosa sono i testi, le narrazioni, le immagini se non portatori di memorie future proprio in virtù della loro “trasmissibilità”? Dicibilità e trasmissibilità all’interno e per mezzo dell’arena estetica sono i due nuclei concettuali cui fa capo la possibilità di condividere ed elaborare il trauma.

3.4 (Im)possibilità della parola tra orrore e colpa

No soy la misma persona que antes. Vimos demasiado horror Ernesto Sábato, Reportaje de Aulicino, 3

Un problema di carattere epistemologico, tipico delle memorie traumatiche è legato alla domanda: si può dire il trauma? L’impossibilità della parola, dopo Aushwitz, è stata, ed è tuttora, uno dei grandi problemi della narrazione/rappresentazione successiva a eventi dolorosi. Il linguaggio verbale, inteso come strumento per descrivere l’esperienza traumatica, è stato più volte messo in discussione. Ci muoviamo senza dubbio su un terreno che si macchia di contraddizioni, poiché sebbene dire l’indicibile sarebbe un’utopia, sono innumerevoli gli studiosi che si sono cimentati in quest’impresa. Perla Sneh scrive Palabras

307

para decirlo – Lenguaje y exterminio (2012), Fernando Reati Nombrar lo innombrable

(1992), Sandra Lorenzano e Ralph Buchenhorst Políticas de la memoria: tensiones en la

palabra y la images (2007), Fernando Ruiz Las palabras son acciones (2001), Hugo E. Celati El silencio no es una palabra (2008), María del Carmen Sillato Diálogo de amor contra el silencio: memorias de prisión, sueños de libertad (2006), Marcelo Borrelli e Jorge Saborido Voces y Silencios – La prensa argentina y la dictadura militar (2011), Avellaneda Andres, Decir, desdecir: poesía argentina del Setenta (1983).

Pilar Calveiro riassume molto bene questo paradosso nel suo testo Desapariciones:

Hoy y aquí se impone para mí una pregunta mil veces hecha y mil veces respondida, pero no por ello menos válida: ¿Por qué escribir o leer ahora sobre los campos de concentración que existieron en Argentina hace ya 25 años? ¿Para qué regresar una vez más sobre el horror, contarlo, entrar en contacto y contaminarse inevitablemente con él? Puede haber muchas respuestas aceptables. [...] Hoy reivindico la importancia de señalar para mí y para otros, el lugar de lo inaudito – lo aún no audito, lo inverosímil, lo monstruoso – como posible, como existente e incluso como eminentemente humano. [...]

En esta empresa sé que parto inevitablemente de una derrota: pretender decir lo indecible.

E continua:

Aquí y ahora, contra las innumerables desapariciones, es preciso reabrir su significado. Hay que reaparecer el horror que entrañan, el agujero negro de lo indecible, con el que sólo se hace contacto por un instante, a través de cierta palabra que ilumina de golpe el texto. Hay que reaparecer también la risa, la ironía, la burla y el absurdo, inseparables compañeras – a veces contraparte y otras complemento perfecto de lo monstruoso – hay que reaparecer la lucha y las resistencias, actualizando las antiguas promesas para reabrir la esperanza308.

Per mostrare una realtà traumatica, dice Pilar Calveiro, non ci sono parole che bastino, e questo perché si tratta di una realtà spaventosa e peggiore rispetto a qualsiasi cosa

308

Di seguito la traduzione all’italiano delle parole di Pilar Calveiro: “Oggi e qui è forte per me una domanda che più volte ci si è posti e cui più volte si è data una risposta, ma non per questo meno valida: Perché scrivere o leggere sui campi di concentramento esisti in Argentina 25 anni fa? Perché tornare ancora una volta sull’orrore, raccontarlo, entrarci in contatto per poi esser contaminati da esso? Le risposte plausibili sono svariate. […] Oggi rivendico l’importanza di affrontare per me e altri, il luogo dell’inaudito -ciò che ancora non è plausibile, ciò che è inverosimile, mostruoso- come possibile, come già esistente e anche come eminentemente umano. […] In questa impresa so che parto inevitabilmenete da una sconfitta: pretendere di dire l’indicibile”. “Qui e adesso, contro le innumerevoli sparizioni bisogna riaprire il significato della desaparición. Bisogna far riapparire l’orrore che portano con sé, il buco nero dell’indicibile, con il quale si crea un contatto solo per un istante, attraverso alcune parole che illuminano all’improvviso il testo. Bisogna far riapparire anche il sorriso, l’ironia, lo scherzo e l’assurdo, inseparabili compagne -a volte controparti altre complemento perfetto del mostruoso- bisogna far riapparire la lotta e le resistenze, realizzando antiche promesse per riaprire la speranza.”(Il corsivo è utilizzato da me e non è presente nella versione originale), in: Calveiro, P. (2002), Desapariciones: memoria y desmemoria de los campos de concentración argentinos, D. F. Taurus, México, pp. 17-18 -24.

immaginabile o verbalizzabile. Il linguaggio, congela l’esperienza, e facendolo la tradisce inevitabilmente, proprio perché essa è ancora più drammatica.

Di conseguenza, nella rappresentazione di memorie traumatiche si possono verificare delle perdite; un po’ come nei processi di traduzione: quando si traduce da una lingua a un’altra è inevitabile perdere qualcosa, creare dei residui, alcune sfumature di un testo originale rischiano la banalizzazione, la perdita o peggio ancora il tradimento.

In un certo senso anche il processo di rappresentazione di un trauma è una traduzione proprio perché il trauma viene tra-dotto (rifacendoci all’etimologia della parola, dal latino

trans-ferre, portare attraverso) in linguaggi che possono assumere forme/lingue diverse tra

loro. Quando ci troviamo di fronte ad esperienze limite sono tre le possibili strade: parlare pur essendo consapevoli dei limiti di una lingua che non può rappresentare nella sua complessità una memoria difficile (es. la vita nei campi di sterminio, la tortura), mantenere il silenzio, oppure mostrare attraverso i corpi e la loro sofferenza, attraverso immagini, metafore, ciò che risulta difficile da comunicare attraverso il solo uso del linguaggio verbale.

Wittgenstein sostiene che su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere309. È d’obbligo ricordare la nota sentenza emessa da Adorno 1966: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica”.310 Ciò nonostante, lo stesso Adorno, contestando il celebre aforisma di Wittgenstein, assegna alla filosofia il compito di indagare ciò di cui non si potrebbe parlare proprio perché il male con Auschwitz avrebbe raggiunto una sorta d’indicibile perfezione. Rimane, però, una contraddizione. Molti dichiarano l’impossibilità della verbalizzazione dell’evento traumatico eppure, al contempo, tentano di superare il muro dell’indicibile per narrare ciò che non può esser rievocato. Ora, fermo restando che tutto ciò che, apparentemente, non può esser narrato, nel momento in cui si manifesta in forme verbali cessa di essere indicibile, sembra che assolutamente niente possa essere scritto sull’Olocausto o sui genocidi del secolo scorso ad eccezione del silenzio. Di conseguenza, all’imperativo suggerito dal filosofo tedesco ne segue un altro, quello di mostrare, usando altri mezzi, ciò cui – presumibilmente - non può essere dato un nome311.

In un certo senso, tutto ciò che non può essere detto, può essere mostrato e, come si diceva prima, ciò che non può essere espresso linguisticamente non è detto che non possa essere mostrato/comunicato con altri strumenti; di conseguenza, una memoria traumatica, difficile da rendere in parola, può essere portata al di là dei confini del dicibile grazie all’uso dell’immagine e dell’universo di senso che si nasconde dietro ogni parola reduce dall’esperienza traumatica. Ne abbiamo visto un esempio poco fa, il fumetto. Il fumetto con la sua commistione d’immagini e parole rappresenta uno strumento potentissimo attraverso il quale rendere visibile una memoria difficile da ‘raccontare’. Il fumetto col narrare della pietas artistica, riesce a mostrare con i corpi e con il silenzio ciò che il discorso logico non riesce a

309

Cfr. Wittgenstein, L. (2002), Tractatus Logico-Philosophicus, Alianza, Madrid.

310

Adorno, T. W. (1966), Dialettica negativa, tr. it., Einaudi, Torino, 2004, p. 326.

311

Cfr. Reati, F. (1992), Nombrar lo innombrable. Violencia política y novela argentina 1975-1985, Legasa, Buenos Aires.

rappresentare, ed esprime attraverso le urla di un corpo sofferente ciò che la lingua tace. Per dirlo in un altro modo: il corpo copre le lacune di una lingua che spesso diventa muta e si presta a essere ascoltato. Consegnandoci un monito contro l’idea dell’irrappresentabile.

Insisto molto sul fumetto, perché risulterà uno strumento utile al momento di parlare delle difficoltà strettamente relazionate alla traduzione interlinguistica e interculturale di narrazioni relative a realtà difficili312.

In uno studio sugli effetti della tortura sulla vittima, The Body in Pain, Elaine Scarry sostiene che l’obiettivo dell’interrogatorio o della tortura non è quello di ottenere l’informazione desiderata ma al contrario è quella di decostruire totalmente la voce del prigioniero313. Interessante è la critica che Reati muove alle asserzioni della Scarry. Secondo lo studioso argentino sebbene sia evidente che la tortura produca una decostruzione significativa della voce della vittima e un regresso alle forme di espressione pre-verbale (il grido, il pianto, il lamento), dall’altro lato non bisogna dimenticare che la tortura al tempo stesso ricrea quella voce attraverso una confessione volta a produrre informazione utile. Come rivelano le testimonianze raccolte dalla CONADEP, nel caso dell’ultima dittatura argentina

venne messo in atto un processo circolare di sequestro-interrogatorio-tortura-nuovo sequestro, sistema in cui ogni vittima poteva a sua volta diventare un anello di quella catena che avrebbe portato a nuove sparizioni. Un sopravvissuto al campo di sterminio “La Perla” ha dichiarato: “Il prigioniero è un oggetto, una cosa, un numero, ma con qualcosa di prezioso al suo interno: informazione”314

. Uno dei membri dei gruppi repressivi afferma:

Conocido un objetivo, un subversivo o sospechoso se lo detenía y se lo llevaba a un lugar donde se le daba maquina [tortura con picana eléctrica] para sacarle información sobre otros sospechosos, a los que también se detenían. A veces la cadena se cortaba porque alguno se quedaba [moría] en la tortura.315

In questa macchina di distruzione tutte le vittime hanno subito brutali torture fisiche e/o psicologiche. Il sequestro e la prigionia formavano parte di un doppio processo, nel quale

312

Il problema relativo alla dicibilità delle memorie traumatiche ne chiama in causa un altro: quello della loro traducibilità. Nel momento in cui bisogna rappresentare una memoria traumatica ci scontriamo sostanzialmente con un problema di traduzione. È opportuno richiamare la distinzione che Jakobson fa tra tre diversi tipi di traduzione: traduzione intra-linguistica, traduzione intersemiotica e traduzione interlinguistica. La traduzione