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Sono innumerevoli le polemiche tra chi afferma che il trauma non può essere narrato, e ancor meno attraverso la scrittura, e chi invece crede che dare al trauma una forma narrativa sia una delle poche possibilità per comprenderlo, elaborarlo e chissà, in definitiva, curarlo.

Un passato traumatico, come dicevo prima, produce implosione temporale, frantumazione, potremmo quasi dire disintegrazione. Il sopravvissuto alle torture, ai campi di concentramento (e simili) può essere considerato come colui il quale ha visto la crisi della civiltà e, come afferma Bruno Bettelheim, la sopravvivenza può esser considerata come una lotta incessante volta a produrre integrazione rispetto alla disintegrazione del passato335. L’integrazione può essere perseguita attraverso la narrazione che si colloca come un ponte tra i frantumi dell’esperienza. Tornando ancora una volta alle contraddizioni che nascono dal tentativo di narrare ciò che è di per sé inenarrabile, sembrerebbe che scrivere e ri-costruire un passato difficile non farebbe che rinnovare il trauma stesso. Su questa scia si stagliano anche le considerazioni di Primo Levi rispetto a ciò che definisce come trauma irrisolto:

[...] Il ricordo di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa.336

Quindi, la memoria del trauma sofferto o inflitto sarebbe di per sé traumatica, poiché traumatico e doloroso è l’atto del ricordo, da qui la tendenza, o forse la necessità, spiega Levi, di fermare i ricordi, di bloccare la memoria per non rinnovare la sofferenza. Eppure, lui stesso trova conforto nell’atto della scrittura sfidando il silenzio.

Secondo Jean-Francois Lyotard, il trauma congela il tempo rendendo impossibile la narrazione. Nell’accezione che ne dà Lyotard, il trauma non potendo essere inserito in una dimensione diacronica si trasforma in un blocco “mostruoso, privo di forma, confuso, contraddittorio”337

e così la memoria traumatica persiste in una sorta di vita a metà, un fantasma, una tormentata e tormentosa assente presenza di un altro tempo nel nostro. Lawrence Langer, dal canto suo, insiste ad esempio sul fatto che i racconti dell’Olocausto

335

Cfr. Bettelheim, B. (1979) , Surviving, and Other Essays, Thames and Hudson, London.

336

Levi, P. (1986), I sommersi e I salvati, cit., p. 15.

337

Lyotard, J-F. (1988), Heidgger and ‘the Jews’, tr. ing., University of Minnesota Press, Minneapolis, 1990, p. 17; trad. di A. Michel e M. Roberts, Heidgger e gli ebrei, 1988. Si ricordi che Lyotard si è occupato del problema del trauma e della sua rappresentazione a livello storico e sociale. In questo testo affronta la relazione/frattura tra lo sterminio degli ebrei in Europa, le condizioni della sua narrabilità storica ed il su tradursi in ricordo collettivo. Come ricordato successivamente da Aleida Assamann nel suo testo Ricordare, Lyotard si ricollega al concetto freudiano di rimozione, inteso non come forma di oblio bensì di ostinata conservazione del dato mnestico.

debbano rimanere narrazioni interrotte. Inoltre l’autore afferma che qualunque tentativo di dar forma scritta a questo trauma è solo un tentativo di mediare l’atrocità addomesticandola, senza però riuscire a elaborarla e comprenderla a pieno. Elaborare significa anche poter sfuggire da quella che Langer definisce una memoria antieroica essa, afferma Assmann, blocca la metabolizzazione dell’esperienza traumatica e preclude la possibilità di costruire un’identità nuova. Alla memoria antieroica appartiene ciò che Langer definisce io sminuito (a

diminished self) al quale è precluso il controllo psicologico e spirituale del suo ambiente e che

parla una lingua che ha perduto tutti i connotati dell’autorevolezza338. Nella lingua della vittime dell’Olocausto egli registra un addio a tutto il lessico dei concetti che fondano l’io integrale: scelta, volere, capacità di riflessione, sicurezza. Secondo Lawrence Langer la memoria antieroica documenta che non è possibile un’elaborazione chiarificatrice a posteriori di orrori come quello dell’Olocausto, poiché le premesse intellettuali e spirituali sono diventate vittime del terrore nazista. Il trauma stabilizza un’esperienza inaccessibile alla coscienza, che s’insedia nelle sue pieghe come presenza latente. Anche Ruth Klüger, sopravvissuta ai campi di concentramento di Theresienstadt, Auschwitz e Christianstadt, nel racconto della sua vita si è interrogata innumerevoli volte sulla traducibilità dell’esperienza traumatica in linguaggio. All’inizio del testo Ruth Klüger racconta l’esperienza dello zio Hans torturato dai nazisti e precisa che “la tortura non abbandona il torturato, mai non lo abbandona per tutta la vita”339

. Anche Assmann sostiene che le parole non possono registrare il trauma ma al tempo stesso mette in evidenza un paradosso dicendo che, in verità, il trauma ha bisogno delle parole.

Jenny Edkins sostiene che poiché il linguaggio fa parte dell’ordine sociale in cui avviene l’evento traumatico anch’esso, come l’intero sistema, subisce un collasso, di conseguenza la verbalizzazione e la narrazione diventerebbero inaccessibili ai soggetti340. Elie Wiesel scrive così la sua esperienza relativa al linguaggio post-traumatico:

The word has deserted the meaning it was intended to convey — impossible to make them coincide. The displacement, the shift, is irrevocable.... We all knew that we could never, never say what had to be said, that we could never express in words, coherent, intelligible word, our experience of madness on an absolute scale.... All words seemed inadequate, worn, foolish, lifeless, whereas I wanted them to be searing. Where was I to discover a fresh vocabulary, a primeval language? The language of night was not human; it was primitive, almost animal.... A brute striking wildly, a body falling; an officer raises his arm and a whole community walks toward a common grave.... This is the concentration camp language. It negated all other language and took its place. Rather than link, it became wall341.

338

Cfr. Langer, L. (1977), Holocaust Testimonies. The Ruins of Memory, Yale University Press, New Haven/London, p. 177.

339

Klüger, R. (1992), Vivere ancora. Storia di una giovinezza, tr. .It, SE, Milano, 1997, p. 2.

340

Cfr. Edkins, J. (2003), Trauma and the Memory of Politics, Cambridge University Press, Cambridge.

341

“La parola ha abbandonato il significato che avrebbe dovuto portare - impossibile farli coincidere. Il dislocamento, la trasformazione, è irrevocabile.. Noi tutti sapevamo che non avremmo mai, mai potuto dire quello che doveva essere detto, che non avremmo mai potuto esprimere in parole (parole coerenti, intelligibili) la

Dunque, secondo Wiesel, la lingua reduce dai campi di concentramento cessa di essere uno strumento di comunicazione, per erigersi come un muro, inibendo qualunque atto comunicativo.

Al contrario, Geoffrey Hartman e Cathy Caruth hanno proposto diversi studi in cui riconoscono nella testimonianza, nella finzione letteraria e, in definitiva, nella scrittura un veicolo privilegiato per l’espressione dell’esperienza traumatica. Nonostante la stessa Caruth abbia più volte ribadito la sua perplessità rispetto la possibilità di esprime il trauma attraverso la scrittura, al tempo stesso riconosce nel testo uno strumento terapeutico in grado di offrire uno spazio per la comprensione dell’evento in questione342

. Anche John McLeod sottolinea la natura terapeutica della narrazione del trauma considerandola come l’indispensabile premessa per qualunque studio sul tema. Il punto di vista di McLeod è brillantemente riassunto da Luckhurst in un asserto: lì dove c’è il trauma dovrebbe esserci la narrazione343

. Quest’idea della riparazione narrativa del trauma è preminente anche nelle teorie di Hilde Lindemann Nelson.

Allo stesso modo, Arthur Frank344 afferma che la narrazione, le storie, dovrebbero riparare ciò che la malattia distrugge. In un suo studio345 Frank propone un esempio metaforicamente valido per tentare di descrivere il doppio volto della memoria che, se da un lato ripristina degli eventi, dall’altro ne riporta a galla un dolore indicibile346

. Nel saggio The self unmade:

enbodied paranoia, Frank affronta il tema della malattia in quanto secolare minaccia non solo

rispetto al corpo, ma anche rispetto alla mente. L’autore sostiene che gli individui sono soggetti non solo a minacce interne, come le malattie appunto, ma anche esterne, una minaccia spesso è quella esercitata su di loro dalle istituzioni che sono volte a preservane l’integrità. Si tratta di ciò che si definisce come embodied paranoia, ossia, un conflitto interiore accompagnato da una forte paura di colonizzazione da parte delle istituzioni. Questo conflitto appare evidente nell’analogia tra cure mediche e torture, si pensi ad esempio alla chemioterapia: è una forma di tortura oppure no? Frank riporta le parole di una donna, Marcia: “I never thought of myself as ill with cancer [...] Chemo was hell” (Non mi sono mai sentita così ammalata col cancro [...] la chemio era l’inferno) durante la chemioterapia il

nostra folle esperienza in modo assoluto. Tutte le parole sembravano inadeguate, sciocche, danneggiate, esanimi, mentre io avrei voluto che bruciassero. Come potevo scoprire un vocabolario fresco, una lingua primordiale? La lingua della notte non era umana; era primitiva, quasi animale.. Una bestia che colpisce selvaggiamente, un corpo che cade; un ufficiale alza il braccio ed una comunità intera cammina verso una tomba comune.. Questa è la lingua del campo di concentramento. Essa ha negato ogni altra lingua prendendo il suo posto. Piuttosto che u n ponte, divenne un muro”, in: Tal, K. (1996), Worlds of Hurt. Reading the Literatures of Trauma, Cambridge University Press, Cambridge, p. 122.

342

Cfr. Caruth, C. (1996), Unclaimed Experience: Trauma, Narrative, History, The Johns Hopkins University Press, Baltimore.

343

Cfr. Luckhurst, R. (2008), The Trauma Question, cit., p. 82.

344

Frank, A. (1995), The Wounded Storyteller: Body, Illness and Ethics, University of Chicago Press, Chicago, pp. 7, 58.

345

Cfr. Frank, A. (1995), “The self unmade: enbodied paranoia”, in The Wounded Storyteller: Body, Illness and Ethics, University of Chicago Press, Chicago.

346

corpo di Marcia si trasforma nel vero nemico347; come sostiene Elaine Scarry in The Body in

Pain: The Making and Unmaking of the World, durante il trattamento, l’essere è

costantemente intrappolato tra due diversi messaggi: il messaggio di protezione che viene dalla mente, dall’essere coscienti, è quello di dolore proveniente dal corpo che offusca qualunque ragionevole giustificazione a quel dolore.

Allo stesso modo, le vittime di eventi traumatici potrebbero trovare nella narrazione una cura agli stessi, ma ovviamente l’atto di rievocare il dolore, causa dolore a sua volta.

Sono diversi gli studiosi che vedono nella scrittura una riparazione. Lo stesso Jorge Semprún, sopravvissuto ai campi di sterminio, vede nell’ineffabile una sorta di alibi. Semprún sostiene che il trauma più che indescrivibile sia insopportabile. Non si tratta di un problema di articolazione, ma di densità dell’articolazione stessa, questa densità può essere raggiunta solo attraverso la creazione, o ri-creazione, artistica348. Come dice Martínez Falquina, la scrittura, e soprattutto la letteratura, dà forma e voce al silenzio, verbalizza la sofferenza, creando uno spazio in cui la memoria in frantumi possa essere espressa349.

Poter creare espressioni dell’indicibile è di fondamentale importanza per rompere la circolarità temporale di cui dicevo in precedenza, e per la sopravvivenza di tutti gli individui la cui identità ha sofferto una torsione in seguito all’evento traumatico. Nei termini di Dori Laub “survivors did not only need to survive so that they could tell their stories; they also needed to tell their stories in order to survive”350

(I sopravvissuti non hanno bisogno di sopravvivere solo per raccontare la loro storia, ma hanno bisogno di raccontarla per sopravvivere). Inoltre, tentare di scrivere, dando una forma narrativa più o meno coerente all’esperienza traumatica agevola l’intera società nel processo di elaborazione del trauma. Luckhurst, citando Paul Ricoeur, afferma che la scrittura è un “act of concordance that grasp togheter a series of scattered events”351

, in altre parole la scrittura sarebbe uno strumento che permette di mettere insieme elementi che altrimenti non potrebbero coesistere. Creare delle narrazioni che circolino all’interno della sfera pubblica, non solo significa creare uno spazio all’interno del quale ripensare e ridefinire il passato, ma anche offrire un luogo in cui poter ricostruire un’identità ormai frantumata. In questo modo le vittime possono ridare un senso a quell’identità che l’evento traumatico ha disintegrato; le rappresentazioni pubbliche in generale e la letteratura in particolare formano parte di un meccanismo capace di restituire l’immagine integra di una collettività.

347

Cfr. Scarry, E. (1985), The Body in Pain: The Making and Unmaking of the World, Oxford University Press, Oxford and New York.

348

Cfr. Martínez Alfaro, M. J. (2009), “Horrors Tamed by Metaphors: Holocaust Trauma and the Fairy Tale Narrative in Jane Yolen’s Briar Rose” in New Perspectives on English Studies: 345-351.

349

Cfr. Gordon, D. Martínez Falquina, S. Oliva, J. I. (2009), “‘Walking Wounded’: The Representation of Trauma in Postcolonial Fiction”, in: New Perspectives on English Studies: 397-401.

350

Laub, D. (1995), “Truth and Testimony: The Process and the Struggle”, in: Caruth C. (1995), op. cit, p. 63.

351