• Non ci sono risultati.

3.2 Processi di disumanizzazione: anticamere del trauma

3.2.1 La rappresentabilità del non-umano: esempi dalla graphic novel

Come si evince facilmente dal paragrafo precedente, quello concentrazionario è un contesto in cui vittime e vittimari perdono la loro umanità, non è un caso che spesso nelle arti (letterarie e non) vittime e carnefici assumano tratti animali, quasi grotteschi. Un’esemplificazione è offerta da due fumetti che rappresentano la Shoah e l’esperienza concentrazionaria argentina, mi riferisco a Maus di Art Spiegelman e Senza lieto fine di

292

Améry, J. (1987), Un intellettuale a Auschwitz, tr. it., Bollati Bronghieri, Torino, 2008, p. 39.

293

“[…] I sommersi, le radici del campo, loro, la massa anonima, continuamente rinnovata ma identica, di non uomini. Non si sa se chiamarli vivi: non si sa se chiamare morte la loro morte, di fronte a quella che non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. […]” da: Levi, P. (1947), Si esto es un hombre, tr. sp., Proyectos Editoriales, Buenos Aires, 1988, p. 96, citato in: Aletta de Sylvas, G. (2012), “Género, violencia y dictadura en la narrativa de escritoras argentinas de los 70”, Amerika N.7.

Lorenzo Balzoni, Floriano Bandiera e Silvia Corbetta294. Spiegelman sceglie di raccontare la Shoah solo attraverso figure antropomorfe e di raffigurare gli ebrei come topi e i nazisti come gatti. Kholi sottolinea che tale scelta, a lungo discussa, non va intesa entro la dinamica vittima/predatore, ma per sottolineare il rapporto tra il processo di dis-umanizzazione degli ebrei e la teoria della razza. Non a caso Maus si apre con la dichiarazione di HiItler “gli ebrei sono indubbiamente una razza, ma non sono umani”295

. Ora, se nel racconto di Spiegelman tutti i personaggi sono animali e ad avere un volto di topi su corpo umano sono gli ebrei, in

Senza lieto fine i topi sono gli assassini e non tutti i personaggi sono animali. Ad un primo

sguardo questa scelta può risultare una semplificazione, per cui gli umani vengono distinti dalle bestie. La violenza, la tortura, l’omicidio programmato di altri uomini sono un fatto animale, sembrano suggerire alcune immagini di questo fumetto. In Senza lieto fine vi è, tuttavia, un altro aspetto interessante: non tutti i carnefici sono animali. Il protagonista, infatti, anch’egli membro delle forze repressive, ha fattezze umane. Dietro i crimini contro l’umanità, dunque, c’è l’uomo, l’uomo qualunque, uno come noi, e c’è la banalità di una vita e di una violenza routinizzate.

Mettendo in scena la quotidianità del protagonista, questo fumetto guida il lettore non soltanto a conoscere la storia, ma a percepire l’orrore che si cela nello scorrere di una vita normale. E lo fa mettendo ben in luce che nei regimi criminali e nei sistemi di violenza e di potere programmato brutalità e normalità si incontrano, si sovrappongono e si confondono, devastando il corpo sociale, la sua identità umana. Sulle spalle di un ragazzo borghese, di un figlio tranquillo, interessato solo alla propria sicurezza, ci dice il fumetto, segno del moderno uomo di massa che per raggiungere quella sicurezza era disposto a perdere la sua umanità296 ,

294

In Italia il trauma argentino è stato rappresentato con vari mezzi (cinema, documentari etc.) è stato tradotto oltre oceano attraverso vari strumenti di rappresentazioni e uno di questi è il fumetto. Ci si muove nei territori della testimonianza, una testimonianza che molto spesso assume un tratto peculiare e che qualcuno ha definito adottiva (Cfr. Minuz, A. (2010), La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico, Bulzoni editore, Roma). Si tratta del fatto che la narrazione dell’evento storico e la trasmissione della sua memoria può affidarsi o essere presa in carico da qualcuno che sceglie di raccontare avvenimenti che hanno riguardato altri come se fossero i propri. In senso più ampio si può parlare di testimonianza adottiva quando la rappresentazione di un trauma entra in uno spazio discorsivo in cui la possibilità di venire a conoscenza del passato non dipende più dall’incontro con la voce diretta del sopravvissuto, dall’interazione tra noi ed il testimone, ma da un processo di rielaborazione di ogni vicenda a partire da racconti ed immagini mediati da testi. L’accesso al passato e al suo trauma si lega alle narrazioni mediate e la costruzione della memoria passa dal terreno di una condivisione collettiva di esperienze vissute, dove chi racconta è anche chi ha vissuto il fatto, al terreno di una memoria culturale. La testimonianza adottiva non va però intesa come nettamente distinta dalla testimonianza diretta, perché sempre, in realtà, la memoria si costruisce sulla base delle narrazioni più diverse. Anche quando il trauma si allontana dallo spazio e dal tempo degli eventi, la memoria e le pratiche che vi si svolgono riattualizzano e risemantizzano il ricordo, intrecciando i bisogni dell’epoca e il clima di idee che caratterizza la società in cui le narrazioni sull’evento circolano. Ed in ciò sta il processo culturale del trauma e della memoria ad esso legato: un processo costruttivo circolare in cui una narrazione diventa testimonianza non solo di una storia e ma anche dei modi intersoggettivi di elaborare e immaginare quella storia. Come scrive Violi, il sistema della memoria va interpretato come una semiosfera, o enciclopedia locale, con i suoi luoghi di tensione e di conflitto, con le sue modalità discorsive più varie (2014, p. 30).

295

Cfr. Kholi, P. (2012). “The Memory and Legacy of Trauma in Art Speigelman’s Maus”, in: Prandium – The Journal of Historical Studies. 1 (1), pp. 1-22.

296

Cfr. Arendt, H. (1986). “Eichmann a Gerusalemme”. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in: AA.VV. Ebraismo e modernità, Unicolpi, Milano.

si regge la possibilità di perpetuazione del regime. E alla base di ciò c’è la totale incapacità di prendere consapevolezza dei propri atti criminali. Della propria stessa indifferenza.

Il protagonista di Senza lieto fine ricorda Adolfo Scilingo che in un’intervista rilasciata a Horacio Verbisky confessa di aver guidato gli aerei dei voli della morte ma soprattutto fa trasparire il come persone comuni possano macchiarsi di crimini così gravi. Scilingo guidava gli aerei poi tornava a casa si riuniva a pranzo con la sua famiglia, come tanti altri, e come se nulla fosse stato...297

Quindi, i totalitarismi del Novecento sono stati possibili solo grazie a fanatici sostenitori o grazie ai carnefici materiali? Bisogna prendere atto che essi sono stati messi in moto anche, e soprattutto, da uomini come noi, uomini comuni. Ancora una volta ricompare la banalità del

male e la capacità umana di compiere atrocità se ci si trova sotto il patrocinio di un’autorità

superiore, con la conseguente deresponsabilizzazione dell’individuo. È necessario confrontarsi con un tema chiave della riflessione morale sui totalitarismi: il ruolo svolto da quegli uomini senza qualità, senza ideali, che già aveva compreso Hannah Arendt nelle sue celebri corrispondenze da Gerusalemme durante il processo ad Adolf Eichmann. Detto in maniera estremamente semplicistica, il male sarebbe banale perché spesso ha origine da una totale assenza di pensiero, e l’arte in cui molte persone mostrarono di eccellere è la medesima di Eichmann, ossia: condannare a morte, indirettamente, tramite un ordine, tramite delle carte grazie alle quali si mettono in moto una serie di eventi che sfuggono al controllo e portano alla morte. Eichmann, non aveva mai ucciso nessuno materialmente e svolgeva semplicemente azioni di stato ordinate da Hitler, non si tratta, dunque, di un carnefice, ma di un uomo che si presenta come una vera vittima del sistema. Anche centinaia di persone alle dipendenze dell’armata argentina si dichiararono vittime del sistema, le stesse persone che conducevano gli aerei dei famosi “voli della morte” e non sapevano o non volevano sapere cosa o chi gettavano nell’oceano da quegli aerei.

Anche il personaggio di Senza lieto fine, probabilmente come Eichmann “per dirlo in parole povere [...] non capì mai che cosa stava facendo [...]. Era senza idee [...] Quella mancanza d’idee che può essere molto più pericolosa di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”298

La mancanza del pensiero è dunque la qualità intrinseca della banalità del male: il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, non ha né profondità né dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché [...] sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male non trova nulla.

I processi di disumanizzazione sono stati rappresentati, attraverso il fumetto, non solo usando i tratti tipici dell’animale, ma anche quelli del mostro. Un esempio lo troviamo in

Drammatico Tango299 che fa rivivere il dramma della desaparición attraverso la costruzione di un articolato sistema di segni linguistico-semiotici.

Drammatico Tango è peculiare da molti punti di vista. La storia è quella di Cleopatra

Montero che non sa di essere figlia di una donna sequestrata, torturata e uccisa durante

297

Cfr. Verbisky, H. (2004), El Vuelo, Editorial Sudamericana, Buenos Aires.

298

Cfr. Arendt, H. (1986), op. cit..

299

l’ultima dittatura civico-militare, ossia, una desaparecida. Un militare, Ricardo Montero e suo figlio Manuel (soprannominato Tango) si appropriano della bambina nata in clandestinità e ne fanno il loro bottino di guerra; l’uomo la dà in regalo alla moglie ingannando anche lei e facendole credere che la madre biologica l’avesse abbandonata. Cleopatra inizia a far parte della famiglia Montero, figlia e sorella degli assassini dei suoi veri genitori. Il fumetto propone ai suoi lettori la storia di un’identità cancellata e tira in causa una serie di problemi: la responsabilità degli esecutori del male, la capacità delle vittime di perdonare, il processo che ha portato all’animalizzazione delle vittime attraverso l’animalizzazione dei carnefici, la banalità del male nonché il ruolo fondamentale dell’inconscio come una delle dimore del trauma.

In Drammatico Tango conscio e inconscio, reale e irreale camminano su binari diversi ma paralleli e a un certo punto s’incontrano e si completano vicendevolmente. Il luogo dell’irreale, quello onirico, diventa dimora della realtà, una realtà scomoda, difficile da accettare, soprattutto per Cleopatra; mentre il luogo del reale diventa dimora di un’apparente, subdola, irreale tranquillità presto rotta proprio dall’interferenza tra i due mondi.

Il tango è la chiave di volta e, non a caso, regge tutti gli aspetti della trama e della storia, diventa elemento tradizionale che rappresenta una quotidianità distrutta dall’esperienza concentrazionaria, nonché elemento identificativo dell’ambiente in cui si svolge la vicenda. Il ballo tradizionale porteño, scisso in due dimensioni, diventa dunque l’immagine più adatta per rappresentare i due livelli su cui si muoveva l’Argentina degli anni Settanta. Se gli autori prima ci fanno vedere un tango ‘normale’, bello, rappresentativo di un’Argentina apparentemente sana, dopo spiazzano il lettore con un tango ‘diverso’ sfigurato/ deturpato dalla sua bellezza e ballato da corpi mostruosi che diventano la sintesi visibile del male. Quei corpi che ballano un drammatico tango, danneggiato/deturpato nella sua tradizionale armonia, si trasformano in segni visibili di una società cancellata.

Le tre vignette (Figura5) sono rappresentative in questo senso: Napoleone balla il suo drammatico tango con una donna mostruosa, molto più alta di lui, grossa, brutta, deforme; tutti nel mondo onirico di Napoleone sono costretti a ballare per espiare i propri peccati, più i peccati sono grandi più il tango diventa mostruoso. Le vignette mostrano però qualcos’altro: la donna è così grande, il suo corpo così imponente, da nascondere Napoleone. Le dimensioni delle vignette diminuiscono sempre di più è questo fa sì che Napoleone diventi del tutto invisibile. Nella terza vignetta non si vede quasi più, eppure c’è. Consapevolmente o inconsapevolmente, gli autori del fumetto hanno offerto in sole tre scene la rappresentazione visiva degli effetti dell’esperienza concentrazionaria argentina: la sparizione, l’eliminazione di corpi e con essi le loro identità.

Figura 5 Vignetta tratta da Drammatico Tango (Copyright © Sergio Bonelli Editore)

Come si può ben notare, sono innumerevoli i volti che può assumere una memoria e altrettanto infiniti sono le rappresentazioni che di esse possono esser fatte. Ma dove finisce la rappresentazione del passato traumatico e comincia quella del futuro? Cercherò di rispondere a questa domanda ripercorrendo la costruzione del trauma culturale, così come la intende Alexander, e la nozione di memoria culturale che nei termini di Lotman ha a che fare con la rappresentazione degli eventi, e con la loro conseguente trasmissibilità.