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3 De-costruzione: duplicità

3.2 Costruzioni possibil

Il nostro sguardo si indirizza verso quella linea della rappresentazione dei ruoli sociali cui esponente è Erving Goffman, interazionista di base che, possiamo dire, opera una strategia alquanto perspicace nell’elaborazione di un concetto di identità, appunto rappresentato dall’individuo nella vita quotidiana, utilizzando il teatro come impalcatura. Prima di Goffman, le radici di questa vertente dell’analisi sociologica, sono approfondite da George Herbert Mead e, ancor prima, da Charles Cooley. Di quest’ultimo ci interessa segnalare un principio del ragionamento in termini d’identità, che viene posto all’interno della teoria del “Sé Rispecchiato”206. Ciò non solo perché ci dà un’idea delle discussioni all’inizio del 900 e ugualmente delle origini del concetto identitario ma, soprattutto, perché contiene un esercizio riflessivo dal quale noi prendiamo spunto. Oltretutto è un valido strumento che ci aiuta a ridimensionare il diamante culturale, nel senso che l’interazione e mutua influenza fra le parti

206

Si noti tuttavia che la discussione va in un’altra direzione: il fulcro non è quello dell’identità, ma della formazione di un’immagine del “sé” condizionata all’interno di un organizzazione sociale. Inoltre, è importante rimarcare che l’idea di individuale corrisponde all’idea di Self,e va letta con qualche speciale attenzione, poiché si avvicina alle teorie in campo della psicologia. In questo senso, la concezione di “Sé” adottata da Cooley ha come premessa la divisione fra “Io” e “Me” operata da William James (1890), per il quale il primo – l’Io è un elemento classificato come attivo, mentre il secondo è passivo. Ci sembra dunque che, non solo la dualità è rintracciata alle basi di questa teoria, ma si noti, soprattutto, il carattere psicologico sin da una prospettiva dell’immaginazione e dei riecheggiamenti della stessa immagine. Un altro chiarimento concernente al riferimento in ambito dell’idea di ‘individuale’ è che essa è ancora fortemente marcata da un pensiero naturale/biologico, come attesta lo stesso titolo dell’opera: Cooley, C. Human Nature e Social Order (1902). New York: Schocken Books, Inc. 2009.

è anche reperibile nei singoli individui (che di per sé sono un complesso) e fra essi e gli oggetti culturali.

Looking-glass self 207 è il concetto che raduna i tre aspetti da lui osservati nella definizione dell’individualità (in termini di Self) che, secondo Cooley, si compone dell’interazione con il mondo sociale. I tre aspetti sollevati da Cooley,che stanno alla base della teoria del “sé rispecchiato”, sembrano essere determinati, in linea generale, in relazione all’altro. Essi sono: 1- l’immaginazione della propria apparenza, l’immagine che ognuno compone di sé e intende dare a vedere all’altro, 2- l’immaginazione del giudizio che l’altro darà dell’immagine che gli è stata data a vedere (dell’io) e, 3- un tipo di auto-percezione che avviene piuttosto come reazione – di orgoglio o vergogna.208

“Each to each a looking-glass

Reflects the other that doth pass”

207 Cooley, C. Human Nature e Social Order… op. cit.: 184 208

Nell’originale: “In a very large and interesting class of cases the social reference takes the form of a somewhat definite imagination of how one’s self - that is any idea he appropriates - appears in a particular mind, and the kind of self-feeling one has is determined by the attitude toward this attributed to that other mind. A social self of this sort might be called the reflected or looking-glass self:

“Each to each a looking-glass Reflects the other that doth pass.”

As we see our face, figure, and dress in the glass, and are interested in them because they are ours, and pleased or otherwise with them according as they do or do not answer to what we should like them to be; so in imagination we perceive in another’s mind some thought of our appearance, manners, aims, deeds, character, friends, and so on, and are variously affected by it.

A self-idea of this sort seems to have three principal elements: the imagination of our appearance to the other person; the imagination of his judgment of that appearance, and some sort of self-feeling, such as pride or mortification. The comparison with a looking-glass hardly suggests the second element, the imagined judgment, which is quite essential.” Cfr. Cooley, C. “The meaning of “I””. In: Human Nature and the Social Order … op. cit.: 183- 184. Il capitolo “The Looking- Glass Self” è inoltre presentato in: Symbolic Interaction: An Introduction to Social Psychology (1902). A cura di Nancy J. Herman, Larry T. Reynolds. New York: General Hall, 1994; pp: 196 -198.

La forma poetica con cui Cooley concatena la sua teoria lascia margine alla nostra interpretazione. Innanzitutto, ci sembra che la provocazione sia posta su due piani: l’uno racchiuso nell’ottica del sociale [social self], e l’altro potenziato dalla proiezione dell’immagine stessa.

In linea generale, quindi, ognuno rispecchia l’altro e, dall’immagine riflessa, percepisce e definisce sé. Si comprende che il luogo dello ‘specchiamento’ non è in relazione all’“altro”, ma piuttosto in relazione all’immagine che l’altro produce dell’“Io”. L’immagine prodotta dall’altro, a sua volta, è reazione all’immagine che gli è stata data a vedere. Si conclude allora, che la “finzione” o la dimensione di manipolazione dell’immagine esiste sin da un primo momento, quando l’individuo, immaginando quale giudizio sarà dato della sua immagine, la “configura” in modo da far vedere all’altro ciò che ritiene essere più adeguato.

Questa manipolazione, strategia o ‘configurazione’ dell’immagine, come l’abbiamo chiamata, può essere ricondotta ad un esempio che teorizza circa l’apprendistato di un bambino, ovvero come un bambino impara le ‘figure’ attraverso un codice culturale ancor prima di rapportarle nominativamente in relazione ad una struttura più ampia, in causa quella sociale209.

Il bambino, secondo Cooley, non è cosciente della propria individualità, vale a dire non è cosciente di se stesso. Secondo l’autore, soltanto in un secondo momento il bambino passa ad avere una “coscienza irriflessa”, percependo la propria posizione e relazione all’interno di un gruppo (ad esempio la famiglia, ma non chiama la madre o la sorella per nome). Questo secondo stadio è interessante poiché, d’accordo con l’autore,

209

Cooley, Charles H. L’organizzazione Sociale (1909). Milano: Edizioni di Comunità, 1963: 10 - 11. Titolo dell’originale: Social Organization: A Study of the larger mind. L’esempio inoltre era già stato discusso in Human Nature and the Social Order … op. cit.: 186.

il bambino “ha già immagini e modi di sentire [della famiglia, dei nomi delle cose] da cui si svilupperanno queste idee.” A questa seconda tappa corrisponde l’acquisto dell’autocoscienza e della coscienza della società. In seguito inizia la terza fase in cui nel bambino “sopraggiungerà la coscienza riflessa, che lo porterà a dare un nome a se stesso e agli altri e che condurrà ad una percezione più completa delle relazioni che costituiscono l’unità di questo piccolo mondo.”210

A questo proposito, George Mead, nella prefazione all’opera

Human Nature and Social Order argomenta:

From this passage I think we may form a definite conception of Colley's doctrine of society. It is an affair of consciousness, and a consciousness that is necessarily social. Others exist in his imagination of them, and only there do they affect him, and only the imaginations which others have of him does he affect them. This ideas differ from each other as they exist in the conscious experience of different people, but they also have cores of identical content, which in public consciousness act uniformly. This identity Cooley insists upon. It is as real as the difference. But its locus is found in the expierience of the individuals. […]211

Un altro aspetto rilevato da Cooley riguarda la massima di Descartes “cogito, ergo sum”212. In linea generale, afferma Cooley, “penso, dunque sono” è unilaterale poiché esclude l’aspetto sociale (noi) e implica l’accettare che la coscienza dell’io sia un elemento di ogni coscienza, mentre essa è conseguenza di uno sviluppo. Ancora Mead a questo proposito:

210 Cooley, Charles H. L’organizzazione Sociale… op. cit: 10 - 11. 211

George Herbert Mead (Foreword) in: Cooley, C. Human Nature e Social Organization.. op. cit: XXIV

212

Descartes, René. Discorso Sul Metodo, 1637 apud Cooley, C. L’organizzazione Sociale… op. cit.: 9.

The self is no longer a Cartesian presupposition of consciousness. In conduct it is a precipitate about a fundamental impulse or instinct of appropriation and power, while the primary content appears as a feeling or sentiment the self-feeling which defies further analysis. Here Cooley follows James very closely. 213

C’è un dato parallelo alla stessa teoria che sembra essere molto interessante: mentre Cooley si oppone all’individualità come indipendente dal complesso sociale, egli nomina questo aspetto “sociale” come “noi”, per cui la complementarietà – individuale e sociale - nella teoria di Cooley potrebbe essere assunta come “io” e “noi” invece che la formula “io” e “gli altri”214. Questa dimensione è importante secondo noi, perché dimostra un ragionamento che, sin dagli inizi del Novecento, nonostante il predominio dell’ambito sociale sull’individuale, considera da un lato la stessa individualità come elemento di relativa autonomia all’interno della sfera sociale e, dell’altra, pone le basi sulle quali si sviluppa l’interazionismo, inteso come costruzione del sé e dell’identità individuale per mezzo dunque del contatto (e confronto) con gli altri.

Per quanto ci sia possibile indietreggiare teorica e storicamente, Cooley rimane il primo studioso che tratta dell’identità personale

213

George Herbert Mead (Foreword) in: Cooley, C. Human Nature e Social Organization.. op. cit: XXIV

214

Non sembra tuttavia che questo ragionamento si sia imposto nelle teorie di Cooley. Certamente con i dibattiti antropologici che mettono in discussione l’alterità, riusciamo a vedere in quel cambio di termini una possibilità latente di comprensione che, effettivamente si è sviluppata a posteriori. Un simile ragionamento, ampliato e tramutato in teoria-critica che investe la propria disciplina antropologica, sembra essere alla base dell’opera di Francesco Remotti, Noi, Primitivi. Lo specchio dell’antropologia, op. cit.

(individuale) e del mondo sociale in termini di continuum fra l’uno e l’altro215.

Ci siamo trattenuti a lungo sulla teoria del rispecchiamento elaborata da Cooley perché essa fornisce alla nostra tesi alcuni elementi fondamentali che ci permettono di discutere i punti del diamante culturale. Il punto nodale si manifesta giustamente nell’impossibilità di definire, in una prima analisi, quale immagine sarà presentata da un individuo senza conoscere in profondità i codici culturali a cui appartiene, e nemmeno la valutazione che ne sarà posta se non si conoscono i codici a cui appartiene l’interlocutore. Essa tuttavia non è l’unica problematica, o almeno non si limita a questi circoli primari.

Nei termini in cui tratta Cooley, esisterebbe una “coscienza pubblica” per cui una famiglia – come piccolo nucleo sociale – si appropria dei codici e li trasmette come un piccolo sdoppiamento collettivo. Tuttavia, ogni membro svilupperà una “coscienza” che “dà il senso vivo dei tratti personali, dei modi di pensare e di sentire”. Ciò significa che il modo in cui

215

Nel capito intitolato “Le istituzioni e l’individuo”, l’autore arriva ad affermare: “L’individuo è sempre tanto causa quanto effetto delle istituzioni; egli riceve l’impronta dello stato dalle cui tradizioni è circondato fin dalla infanzia, ma nello stesso tempo imprime su di esso il proprio carattere formato da altre tante forze che da questa, e lo stato subisce così, in lui e in altri come lui, un mutamento.” Cooley, C. L’organizzazione Sociale… op. cit: 232. Tale visione non si impone né è sviluppata completamente poiché Cooley è molto più interessato a quella frontiera del Sé, della coscienza, della percezione e ricognizione in termini della personalità, formata tuttavia all’interno della “coscienza sociale”, dell’organizzazione sociale appunto. Altro aspetto che deve essere chiarito è che l’autore non si riferisce direttamente al concetto di identità. Esso, come termine propriamente detto, è uno sdoppiamento posteriore, come si vede già in Mead e, principalmente, nelle teorie di Goffman, anche se in quest’ultimo si configura, per lo più delle volte, come “simulazione”, o, per l’appunto, rappresentazione. Tale impostazione, secondo noi, può essere letta parallelamente agli sviluppi culturali come “produzione” o, meglio, come massificazione delle forme e degli oggetti culturali.

l’individuo si vede, si sente, si immagina o si giudica è unico, nonostante sia filtrato da codici più ampi.

Addentriamo qui in una zona di penombra: la “coscienza che ognuno ha di se stesso” come un “qualcosa di indivisibile”. Considerando che ognuno contiene in sé la possibilità di sdoppiamento – come è legittimo che lo sia in un gioco di specchi – i presupposti sui quali lanciamo il nostro sguardo sono: la comprensione del riflesso fra dimensioni individuale e sociale; fra individuale e culturale (in causa l’oggetto culturale); il riflesso fra l’uno e l’altro e, finalmente, il riflesso di se stesso.

L’esercizio che si propone a questo punto ha come idea di base lo spostamento dell’individuo dal centro riflessivo. Ciò implica un sottile riposizionamento degli ‘elementi’, e soprattutto richiede la ricomposizione del pensiero per cui lo “specchio” non si situa nell’“altro”216 ma, diciamo, si verifica come riverberazione dell’azione culturale.