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4 Laddove gli oceani si incontrano

4.1 In cerca del senso nel mito dell’“origine”

Stiamo parlando di un gruppo di discendenti immigrati italiani in Brasile, nella città di Silveira Martins chiamata anche Città Bianca233. Proprio dal nome primario è che partiamo. Città Bianca allora, funge da immagine poetica e tragica, narrata tutt’ora dai discendenti immigrati

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Era chiamata proprio in lingua italiana: Città Bianca. La regione sud del Brasile, come spiegheremo succintamente in seguito, fu colonizzata da immigrati tedeschi, polacchi e italiani, fra altri. Per quanto riguarda l’immigrazione italiana al sud del Brasile si possono documentare almeno quattro grandi “colonie” che erano appunto le fasce di terra delimitate dall’allora Governo Imperiale e destinate a ricevere le imbarcazioni navali con gli immigranti. Le quattro colonie nel Rio Grande do Sul si chiamavano rispettivamente: Colônias de Dona Isabel e Conde D’Eu (1870); Colônia Fundos de Nova Palmira (1875) e Colônia de Silveira Martins (1877). Le colonie, dopo un processo conturbato di cambiamenti politici e geografici, furono estinte, ma sono rimaste molte tracce di quel processo persino nell’identificazione territoriale e demarcazione geografica oltre, naturalmente, alle storie e al sentimento di appartenenza ad una terra d’origine distante, l’Italia. Si noti che l’immigrazione italiana in Brasile è datata sin da prima del 1870, tuttavia le imbarcazioni erano dirette a Sao Paulo o ad altri stati che miravano alla mano d’opera nelle piantagioni di caffè. A differenza di questi, al sud l’immigrazione era destinata fondamentalmente all’occupazione e protezione delle frontiere territoriali, alla lavorazione e coltivazione della terra e, come fenomeno più o meno generale, allo “sbiancamento” sociale, ovvero la manutenzione e predominanza della “razza bianca”, ritenuta superiore nel paese. L’immigrazione italiana fra 1865 e 1900, principalmente nel sud del Brasile è, tuttavia, un fenomeno di doppio influsso: vi si sovrappongono infatti la necessità di mano d’opera e di gente in suolo brasiliano, mentre in Italia, con l’unificazione e relativi cambiamenti strutturali, di egemonia nel potere e il continuo sviluppo del capitalismo che soffocavano le produzione su piccola scala (sostanzialmente quella artigianale e contadina), la disoccupazione e le difficili condizioni di vita facevano sì che gli individui – gli italiani – idealizzassero l’America come il paese dei sogni e della fortuna. Immagine che era alimentata inoltre dalle strategie pubblicitarie – all’epoca erano contrattate aziende che avevano il compito di “conquistare” migranti. Le condizioni reali in cui sbarcavano i migranti erano tuttavia molto diverse dalla pubblicità “venduta” e dal loro sogno “dell’America”, condizioni che sostanzialmente creavano una frattura fra l’idealizzato ed il reale; spaccatura essa che ha accentuato il normale flusso immaginario e ha permesso di mistificare il luogo dell’origine così come l’attraversamento dell’oceano per mezzo della figura archetipica dell’immigrato eroe e martire.

italiani. Essa funziona come supporto alla loro costruzione identitaria. Una delle versioni di questa narrativa illustre si rende particolarmente importante: fra una vastità di foresta vergine è apparsa una luminosità bianca da lontano avvistabile; un luogo immaginario, “città degli angeli” e “città dei morti”.

Nel 1887, circa settanta famiglie234, dopo essere sbarcate nella città di Porto Alegre, camminavano tra la selva in direzione delle terre loro assegnate dall’Imperio. I pochi oggetti e valigie che con sé portavano, le donne ed i bambini viaggiavano sulle carrozze, dandosi mutuamente cambio, quando necessario. Molti non sono mai arrivati alla sognata destinazione a causa della forza, che molte volte mancava. Sulla strada incontrarono famiglie polacche che abbandonavano quelle stesse terre a loro designate, per colpa di malattie che avevano sterminato intere famiglie.

Dopo quindici giorni arrivarono alla loro destinazione e non trovarono niente oltre ad un baraccone in cui furono “depositati” mentre aspettavano la costruzione delle dimore. Tempo di attesa che si prolungò più di quanto la peste235 permettesse. Si sono dissipate velocemente le

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Il principale riferimento sul percorso degli emigrati italiani fino alla Quarta Colonia è la Monographia sobre a origem da ex-colonia italiana de Silveira Martins 1877-1914 [1900] di Umberto Ancarani In: Santin, S. e Isaia, A. Silveira Martins: Patrimônio Histórico-Cultural. Porto Alegre: EST, 1990. La bibliografia generale riguardo la colonizzazione di questa regione contiene descrizioni, storie, testimonianze sin dalla partenza del paese d’origine fino allo stabilimento in terre straniere. È estremamente rilevante come le testimonianze da un lato cerchino di dissimulare le difficoltà ritrovate in terre nuove, assumendo molte volte ruoli come quello del colonizzatore e dell’eroe. Inoltre, è di estrema importanza l’evidenziazione dei lacci sanguini, come un “filo invisibile” che, ancor oggi, legga il gruppo al posto mitico dell’origine.

235 Fenomeno verificato in diverse colonie d’immigrazione e che si riferisce a diverse malattie. Una delle più devastanti si è verificata in conseguenza ad un’alimentazione inadeguata, la chiamata pelagra, in italiano la pellagra, occasionata dall’alimentazione esclusivamente a base di mais e, ovviamente, della polenta. Tale malattia è stata osservata anche in Italia, sin dalla seconda metà del

aspettative e, con la mancanza di acqua potabile e la scarsità di alimenti, più di quattrocento persone sono decedute236. Cercando di allontanarsi allora dal posto-base, molte famiglie si sono messe sotto alberi e, con l’uso di lenzuola sopra i rami, si sono costruite il loro riparo. Le lenzuola aprono uno spazio bianco, letteralmente e metaforicamente: divengono dimora, spazio vuoto, attesa e sepolcro. Da qui l’immagine della Città Bianca che ha segnato il loro arrivo in terre straniere. E che ha pure rovesciato il desiderio di paradiso in un secondo inferno.

La terra promessa237, dopo l’attraversamento mitico, era allora, una sfida alla sopravvivenza. Questa sfida, senz’altro, è stata affrontata dai migranti con base nei loro valori culturali, ossia valori che si sono promulgati e mantenuti nel tempo e oltre lo spazio e che, secondo il proprio gruppo, sono “ereditati” dai loro antenati, dal loro luogo di origine. I tre valori in questione sono: famiglia, religiosità (fede) e lavoro. Queste tre

700, principalmente fra i contadini del Veneto, Lombardia e Emilia, come attesta De

Bernardi, A. Il Mal della Rosa. Denutrizione e Pellagra nelle campagne italiane fra ‘800 e ‘900. Milano, 1984 e, Lazzarini, A. Campagne venete ed emigrazione di massa, 1866 – 1900. Vicenza, 1981.

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Si guardi Santin, S. e Isaia, A. Silveira Martins Patrimonio Historico-cultural… op. cit.

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Le somiglianze fra la storia dei migranti e quella biblica, dell’Esodo, fanno pensare come si danno questi processi di ricerca del senso, di combattimento degli ostacoli e di necessità di una narrativa che sopporti le loro azioni e che, inoltre, offra un significato per l’esistenza. Questa premessa ci ricorda quella domanda di Grotowski, l’unica domanda che gli uomini avrebbero dovuto porsi: “cosa è essenziale nella vita?” E non ci allontaniamo né dal senso mitico-narrativo, né dalla dimensione di riproposizione archetipica-storica. “Il comportamento di quella gente nelle lande del deserto [ha duemila anni fa, in cerca della verità] […] o le pratiche dello yoga e del Buddhismo”, si chiede Grotowski, “appartengono forse ad altre epoche? […] possiamo comprendere quella gente perché siamo arrivati ad un punto simile […]. Tuttavia, mi si permetta di dire che c’è qualcosa che rimane uguale in tutte le epoche, o per lo meno in quelle in cui la gente è consapevole della propria condizione umana: la ricerca. La ricerca di cosa è essenziale nella vita. Grotowski, J. Holiday [Święto]: Il giorno che è santo (1970-1972). In: Holiday e Teatro delle Fonti; a cura di Carla Pollastrelli. La Casa Usher, 2006: 67.

componenti sono fondamentali per comprende, quindi, come il gruppo ha costruito le sue narrative e come ha giustificato la sua ricerca del senso alla propria vita, oltre ad indicare come le loro azioni, comportamenti psicofisici, siano marcati proprio in conseguenza delle esperienze vissute, in prima persona o per rimbalzo. In sintesi, i valori culturali sono anche base della loro “visione di mondo238”

Un passo indietro nella storia e nella storiografia ci permette di valutare l’attraversamento dell’oceano come “passaggio mitico”239, punto di unione e situazione liminare, comune a tutti gli individui poiché in grado di cancellare le differenze. L’attraversamento come sospensione, rottura, come momento liminare del rito di passaggio ma anche come produttore di icone della storia e della memoria, orientando la configurazione del gruppo attraverso il tempo. Dal passato al presente, il mito dell’origine si è trasmesso attraverso le narrative, soprattutto orali240, tramite le feste e le ideologie e le pratiche ad essa correlate, ma anche nel quotidiano, nei modi di fare, anzi di “saper fare”, nei loro valori determinanti dell’azione e della conformazione dell’identità.

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Geertz, C. Interpretazione di Culture… op. cit: 114 239

Maria Catarina Chitolina Zanini, Italianidade no Brasil Meridional: A construção da identidade étnica na região de Santa Maria-RS. Santa Maria: Ed. da UFSM, 2006. 240

Durante la ricerca di campo abbiamo raccolto decine di storie che sono quasi sempre legate alla condizione migrante del gruppo. Alcune di queste situate nel passato prossimo degli individui che narravano la propria storia, altre invece facevano riferimento a un passato più lontano ed erano, per così dire, di seconda o terza generazione. Altre ancora, più sporadiche, alludevano al passato oltre- oceano,raccontate di generazione in generazione. Nell’analisi di queste narrative non è facile distinguere quanto esse siano prodotto dell’immaginario tramandato e quanto di un passato vissuto e codificato in memoria. L’importante in questo senso, e d’accordo con i presupposti antropologici, è riuscire a comprendere come quest’intreccio significhi ed è significato nel presente. A questo proposito, sono chiare le metodologie e le usanze della memoria e della storia e, ugualmente, è evidente il riverbero di esse nei corpi e nei comportamenti del gruppo.

La “Festa di Cappella241” si è mostrata oggetto coniugatore ed evidenziatore di questi “processi identitari” e ha permesso di problematizzare i diversi livelli della costruzione sociale e culturale delle identità e delle strategie ad esse connesse, delle memorie, della corporalità, delle credenze e ideologie e, finalmente, delle dimensioni performative degli individui di questo gruppo242. Inoltre, questa categoria di festa ha permesso un’approssimazione alla categoria teatrale o meglio, alla performance. Performance intesa come azione, come atto simbolico e concreto, come un’alleanza fra essere e fare. La performance in questo senso può appartenere alla categoria più ampia delle arti performative e,

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Si è optato per mantenere le iniziali maiuscole per due semplici ragioni: l’una è che essa è la nominazione data dal proprio gruppo, che le classifica come “di cappella” in riferimento allo spazio concreto e simbolico in cui si sviluppano queste feste; l’altra invece è che, secondo noi, innalzando la nominazione alla categoria sostantiva propria cerchiamo di restituirgli l’importanza che essa ha nel gruppo e che, nonostante le descrizioni dense riportate nei lavori, sfugge e si sfuma nelle parole. Quell’importanza e quell’efficacia della festa sono come la percezione amplificata durante una performance – è percepibile e apprensibile soltanto con i nostri sensi, con il nostro corpo integrato alla propria condizione spazio-temporale in cui si dà il fenomeno.

242 Utilizzando la nozione di performance qui alludiamo necessariamente a due dimensioni: l’una di vertente culturale, e dunque contemplando le dimensioni di composizione sociale e culturale per vie simboliche e l’altra, che cerca di attenersi all’insieme di pratiche etiche, estetiche e poetiche, e cioè la dimensione espressiva delle performance. La prima, di carattere analitico, s’inscrive nella relazione “cultura-società-performance” fondata sull’“effervescenza collettiva” e sulle teorie riguardanti l’efficacia rituale il cui teorico di base è Émile Durkheim (1912) e, per discendenza, Turner (1969, 1974, 1986) e Schechner (1973, 1985,1988). La seconda invece, prende il via dagli studi sociolinguistici in una prospettiva più “performatica”, ovvero che si preoccupa più di risaltare il “modo” di produzione della performance che il “contenuto” da essa prodotto. Il principale riferimento alla base di questo secondo approccio sono gli scritti di Roman Jakobson. Cfr. Bauman, R. Verbal Art as a Performance. Rowley, Mass.: Newbury House Publishers, 1977. Dal nostro punto di vista la performance allusa da Grotowski, anche se annidata in un contesto diverso da quello socio-antropologico, ha a che fare con queste tendenze, sia perché in qualche misura le nega, ma principalmente perché le oltrepassa: rovescia la logica della “società dello spettacolo”, sospende quella della vita come rappresentazione e sdoppia “contrariamente” la nozione di individuo.

tuttavia, rifiutare un’interpretazione basata sulla spettacolarità. La stessa dimensione rifiutata sembra fare da contrappunto: intessuta al margine dell’essere, la performance è essenza.

È questa dimensione che emerge nella Festa di Cappella, qualcosa come l’immagine del gruppo che è riflessa in loro stessi, nelle loro performance, nelle loro azioni, nelle loro narrative e storia. È, allo stesso modo, esercizio riflessivo. La performance, in questo senso, contiene ed è contenuta, genera ed è generata, è prodotto e produttrice di senso: che alle volte ha come intento quello di nascondere, altre volte invece, vuole svelare. Svelando la duplicità di se stessa attraverso il senso che la anima, la performance si moltiplica, si divide e ri/crea. Non come riorganizzazione di sé nell’integralità; non come duplicazione dell’immagine e somiglianza di sé stessa. Ma, piuttosto, come fenomeno vivente.

La Festa di Cappella, tuttavia, coabita nell’incrocio fra passato e presente. È questa dualità, elevata alla potenza umana, che permea gli individui, quel gruppo che cerca incessantemente di restituire il dono della “nuova vita” e consacrare la storia della loro storia. Ed è questa un’altra approssimazione alla performance. Se orientiamo il nostro sguardo all’insegna della proposizione di Clifford Geertz243, possiamo percepire chiaramente la storia raccontata dalla società su se stessa e a se stessa; storia ripetutamente raccontata o meglio, messa in scena, garantendo la coesione, la forza e l’efficacia dell’identificazione, culminando in celebrazione e comunione. In questo movimento, la riproposizione della storia attraverso la celebrazione e ritualizzazione, gli elementi scelti dal proprio gruppo come loro rappresentanti sono investiti di valore simbolico: l’alimento, gli strumenti di lavoro e, principalmente, il corpo (e le sue cicatrici), sono

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elevati simbolicamente dalla condizione quotidiana a quella extraquotidiana244

A questo proposito sono necessarie alcune considerazioni indispensabili riguardo l’inquadramento teorico dell’atto festivo.