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Crisi del welfare, dello Stato di diritto e del senso di appartenenza

2. L e politiche sociali per gli im m igrati di V ittorio Lannutt

2.1. Crisi del welfare, dello Stato di diritto e del senso di appartenenza

Le politiche migratorie rientrano nel welfare, quindi per capire cause e conseguenze della disattenzione posta al fenomeno migratorio non si può prescindere da una comprensione di carattere più generale riguardante la crisi del welfare state, almeno per come si è costituito nel secolo scorso. Partiamo dal presupposto che la crisi del welfare è stata creata dall'inarrestabile avanzata dell'ideologia neoliberista, quindi è insensato che

«i governi pretendono di tenere a freno, contenere o ridurre quella povertà

che paradossalmente proprio loro hanno contribuito a diffondere mediante la “deregulation” economica (una re-regulation in favore delle aziende)»1, che

ha poi determinato una ristrutturazione del welfare, con diminuzione di servizi pubblici. Proprio per questo «i paesi di ricezione devono riconoscere

che quando esternalizzano lavori in paesi con manodopera a basso costo, stanno creando i ponti per future migrazioni»2. L'economia globale, infatti,

sta pressando gli Stati affinché siano competitivi. Per raggiungere questi obiettivi gli Stati hanno ridotto l'interazione con i cittadini, attraverso la privatizzazione dei servizi statali, di conseguenza il cittadino interagisce sempre meno con lo Stato, ma sempre più con degli attori privati fornitori di servizi. L'altra conseguenza di questa ritirata dello Stato è un minore accesso ai diritti e pertanto viene indebolita la relazione tra le categorie più 







1 Cfr. Wacquant L. (2013), “Rivisitando Urban Outcasts. Nota introduttiva di Agostino

Petrillo”, in Mondi migranti, 2, p. 19.

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fragili e lo Stato. La stessa disoccupazione giovanile in aumento, in Italia in particolare, contribuisce ad indebolire il senso di lealtà e di reciprocità tra i giovani e lo Stato. Una delle possibili conseguenze di questo degrado sociale consiste nel proiettare le proprie paure ed insicurezze sugli immigrati. Non a caso in tutti i Paesi europei sono sorti sentimenti anti- immigrati. Oggi la narrazione utilizzata contro l'immigrazione cerca la legittimazione strumentalizzando le questioni riguardanti la razza, la religione e la cultura, senza considerare che all'interno degli stessi Stati nazione vi sono diffidenze e razzismi nonostante si appartenga allo stesso gruppo etnico. Saskia Sassen3 nell'analisi dell'immigrazione in Europa negli ultimi due secoli ha individuato le diverse costanti transnazionali, di cui alcune possono aiutare ad individuare le politiche relative più adeguate. Esse sono:

- una rilevante tendenza alla formazione di insediamenti permanenti, di una parte di immigrati, anche in caso di alti tassi di ritorno nel paese di origine; - indipendentemente dalla cultura politica adottata dal paese di ricezione l'immigrazione illegale è emersa in tutte le economie occidentali dal secondo dopoguerra, ciò ha sollevato questioni sulla necessità di rivedere l'assetto normativo (gli irregolari arrivano dagli stessi paesi dei regolari); - l'immigrazione è un processo molto differenziato, che include sia chi emigra con un progetto di stanzializzazione, sia chi è intenzionato ad una permanenza temporanea. Sono emerse due tipologie di migrazione: quella circolare e quella permanente.

Se il welfare rappresenta le protezioni sociali, è inevitabile che le politiche per gli immigrati vadano inquadrate anche all'interno del tema della sicurezza. Tuttavia, dipende sempre dalla prospettiva politico-culturale dalla quale viene vista la questione. Se la sicurezza è uno dei diritti fondamentali in una società democratica, assicurare servizi sociali e di cittadinanza agli immigrati significa farli entrare nel mondo democratico e farli sentire parte di un noi, questo atteggiamento inclusivo ha anche la funzione di smorzare le eventuali paure/paranoie dell'autoctono.

L'avanzare del neo-liberismo, la diminuzione dei servizi del welfare e la crisi iniziata nel 2008 hanno stimolato molti sociologi a produrre un consistente numero di saggi sulle cause e le conseguenze di questi tre fattori4. In questo contesto consideriamo due analisi delle conseguenze della 







3 Ibidem.

4 La letteratura sull’analisi delle conseguenze della globalizzazione è molto vasta. Molti

sono gli studiosi che si sono soffermati sulle sue conseguenze negative, ponendo l’attenzione in particolare sull’aumento delle disuguaglianze sociali. Le pubblicazioni più pregnanti sono: Sen A. (1994), La disuguaglianza, il Mulino, Bologna; Sennett R. (1999), L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano; Sassen S. (2002), Globalizzati e scontenti, il

crisi del welfare. La prima è di Robert Castel, che parla di “disassociazione sociale”, vale a dire del contrario della coesione sociale. Con questa espressione Castel intende che è emerso “il lato oscuro dei diritti”, dovuto al fatto che lo Stato non si occupa più dei più deboli, di conseguenza il capro espiatorio viene identificato nell'immigrato5. La seconda è di Alain Touraine, che nel suo ultimo libro “Dopo la crisi”6, è giunto a definire la situazione, delineatasi a causa della crisi del 2008, “post sociale”, in quanto il mondo dell'impresa e del capitale ha rotto le sue relazioni con le istituzioni sociali e politiche alle quali a sua volta impone le proprie regole e le proprie leggi. Siamo in una fase nella quale da un lato gli U.S.A. sono orientati verso un nuovo Welfare State, grazie al grande progetto di sicurezza sociale, dall'altro l'Europa è in una posizione difensiva, caratterizzata dalla confusione e dall'arretramento in materia di protezione sociale. Touraine utilizza l'espressione 'post-sociale' riferita al grado di capacità di un Paese di mobilizzare risorse e di avere fiducia nel proprio futuro. Tuttavia, se l'avvenire dipende dalla fiducia che i membri di una società hanno in loro stessi e nella società stessa, stiamo per imboccare o forse abbiamo già imboccato una strada senza uscita, perché la fiducia dipende dal modus operandi dei governanti che non sono sempre consapevoli del fatto che, quando il bene comune cade nella mani degli speculatori, la popolazione non ha più fiducia nell'avvenire della società. Il sociologo francese utilizza anche un'altra espressione, sicuramente più forte, parla di “fine del sociale”, con la quale intende «la separazione tra il sistema

economico, su cui nessuno può più pretendere di esercitare un controllo reale, e la vita culturale e politica, che mette in gioco i principi di libertà e giustizia più che i rapporti di forza»7.