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Quanto brevemente detto precisa che non ci sono impedimenti, se non di natura ideologica, che si frappongono alla scelta del percorso dialogico e negoziale fra diversi, anche se tale operazione presenta non lievi difficoltà, perché comporta lo spostamento da letture del mondo lineari e acquisite una volta per tutte a modalità interpretative declinate nel segno della flessibilità e della differenza. Per sciogliere questo nodo sarebbe, tuttavia, sufficiente riflettere su quel noto passo di Michel de Montaigne che invitava a relativizzare l’assertività dei propri punti di vista e a rivisitare l’intransigenza delle proprie valutazioni. «Ciascuno chiama barbarie – scriveva – ciò che non fa parte delle proprie usanze: invero sembra che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e delle usanze del Paese in cui siamo. Ivi è sempre la ragione perfetta, il governo perfetto, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa»27. Nel 1581, nella Francia squassata dalle guerre di religione, c’era dunque qualcuno più intelligente e civile di intere nazioni del Duemila, che fanno ancora di ogni identità una muraglia e di ogni differenza una colpevolezza senza prova d’appello.

È questa prospettiva che introduce al modello dell’intercultura, ossia a quella modalità normativa, giuridica e di costume etico che, orientando le differenti culture «a ricercare, condividere e far proprio un nucleo di valori ritenuti irrinunciabili, che in quanto tali valgono per tutti gli esseri umani, come la libertà, la dignità, il rispetto della vita»28, sottolinea il peso e la funzione del pensiero relazionale e dialogico: l’unico, al momento, che può opacizzare la polarità Noi-Loro e prevedere spazi di riconoscimento reciproco, pur in un quadro di differenze29.

Va da sé che, per tradurre in atto tale orientamento, è necessario mettere al centro della scena il principio di reciprocità. Se, infatti, non si è disponibili ad acquisire e concedere; se non si è inclini a concessioni in

27 De Montaigne M. (1970), Saggi, Mondadori, Milano, p. 272.

28 Cesareo V. (2006), “2005. La crisi dei tradizionali modelli di integrazione”, in ISMU,

Undicesimo rapporto sulle migrazioni, Franco Angeli, Milano, p. 27.

29 Al proposito, il mio “Dall’insularità culturale alle prospettive accoglienti” (2014), in

Hoxha D., Lannutti V. (a cura di), Incontrarsi nello spazio dell’accoglienza, Casa Editrice Tinari, Villamagna, (Ch.), pp. 17-29.

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cambio di ciò che si ottiene, ne discende inevitabilmente non una realtà interculturale timbrata da appartenenze multiple, ma una frantumazione in sottoinsiemi di comunità chiuse ed omogenee che possono compromettere lo stesso significato di impresa sociale. Perciò è indispensabile promuovere sintesi collettive capaci di spostare il centro di percezione e di riscontro dalle motivazioni individualistiche a quelle accomunanti, da una visione del mondo egocentrica ad una concentrica.

Quanto detto, ovviamente, non va inteso in veste di espediente per minimizzare il ruolo delle storie di ciascuno e di ciascun popolo; né rinvia alle categorie del neutralismo culturale o alle espressioni di un cosmopolitismo morbido e illanguidito; né orienta ad adottare quella strategia neo-comunitarista che invita a dismettere il proprio abito identitario per comprendere a fondo le ragioni degli altri, interiorizzarle e trasformare chi è implicato in questo processo in apostolo della solidarietà e dell’armonia. All’opposto, questa affermazione precisa solo che far parte di una società multiculturale significa convertire al dettato dei valori universalistici le logiche tolemaiche e aver consapevolezza di tre situazioni fondamentali:

a) che quella multiculturale è, comunque, una società conflittuale; b) che la conflittualità non costituisce per principio un evento patologico30;

c) che, nel rapporto e nell’incontro fra diversi, non è importante che le parti comprendano reciprocamente le ragioni dell’altro o approvino le stesse ragioni pubbliche: importante è, invece, «che esse giungano alla produzione di una regola terza che venga condivisa empiricamente, anche -o proprio- per ragioni differenti»31.

Oggi, dunque, è quanto mai necessario estendere le prospettive negoziali e le regole della mediazione. Le prime perché rinviano alla possibilità di un nuovo inizio nella storia delle interazioni fra le parti, le quali «affrontano il conflitto sulla base della loro disponibilità ad apprendere, a convenire sulle posizioni della controparte, a mediare. Attraverso le trattative il conflitto non viene tanto risolto, quanto composto, ridotto allo stato latente, sospeso, […] temporaneamente rimosso: e in un’epoca e in una società della contingenza, in cui l’assoluto non è più

30 Partendo dal presupposto che il conflitto è una relazione sociale (sarebbe utopistico,

perciò, oltre che pericoloso il ritenere possibile una vita all’insegna dell’unanimità perché ciò indurrebbe ad evitare la realtà), ne discende che questo non è solo causa di disordine, sconvolgimento, irregolarità, ma anche occasione di nuovi equilibri e nuove condivisioni. Una controversia gestita bene può, quindi, produrre indubbi vantaggi.

31 Belvisi F.(2004), “Identità, minoranze, immigrazione: come è possibile l’integrazione

concepibile, non è certo un risultato di poco conto»32. Ma c’è di più: nella negoziazione non solo si rielaborano e si pongono in un nuovo contesto gli esiti delle parti in conflitto, ma si produce pure un cambiamento della percezione dell’avversario che viene letto in una nuova ottica. Le seconde perché, mettendo in discussione le scelte standardizzate e le logiche classificatorie che tendono a chiudere in categorie unilaterali, insegnano a praticare il confronto con punti di vista differenti dai propri; aiutano a non sostare nella periferia del proprio territorio di riferimento; ad individuare le scelte adeguate per il qui ed ora e gli scopi comuni socialmente utili; a far propria la logica delle connessioni e a prendere le distanze dagli schemi binari e oggettivanti vero/falso, reale/psichico, oggettivo/soggettivo per entrare in una dimensione dove gli opposti interagiscono; a promuovere incontri alla pari,in cui «ogni cultura dovrà presentarsi non solo per parlare, ma anche per ascoltare»33.