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3. L’analisi qualitativ a: il ruolo dei focus group

3.3. Quale integrazione?

A dispetto del fatto che la Regione Abruzzo, attraverso la L.R. 13 dicembre 2004 n.46 “Interventi a sostegno degli stranieri immigrati” abbia riconosciuto il fenomeno migratorio quale componente strutturale ed organica del contesto regionale, e si sia dotata di uno strumento regolativo in materia di integrazione dei cittadini stranieri, la ricognizione compiuta consente di trarre alcuni spunti di sintesi che sembrano tuttavia divergere da quanto legiferato, precisandosi lungo tre direttrici fondamentali.

La prima, culturale, suggerisce che in quest’area è ancora debole l’idea che, nella società multietnica e multiculturale, migranti ed autoctoni (che lo vogliano o no) devono imparare a convivere. Pertanto, pensare di trincerarsi gli uni e gli altri dietro muri identitari o espressioni di reciproco evitamento è insensato quanto impossibile. Gli uni e gli altri, per il solo fatto di “esserci”, non possono ignorarsi, né sottrarsi a condizionamenti reciproci. Eppure sono emersi, dalle discussioni, atteggiamenti colonizzatori del mondo vitale degli stranieri che -fissati ancora nel ruolo inquietante ed ambiguo di ospite e, dunque, sostanzialmente di nemico- segnalano la gracilità dei meccanismi di comprensione intersoggettiva che può offrire una società incline alla prospettiva interculturale. Pur nella consapevolezza che le differenze culturali non solo non si esauriscono in un benevolo scambio di idee e di conoscenze ma possono chiudere in trinceramenti e irrigidimenti, il percorso interculturale è l’unico che può promuovere legami fra culture diverse; dar luogo a una sorta di coesistenza a bassa conflittualità; mantenere le dissonanze entro un livello accettabile e gestibile. È la prospettiva interculturale, insomma, che può creare le premesse per la pattuibilità fra soggetti, proporre una decodifica bidirezionale di logiche, codici, norme plurali; gettare le basi per l’esprimersi di una cultura delle differenze che tenda all’interazione fra

gruppi con pari opportunità. Ma come emerso, in particolare, dai focus con l’istituzione-scuola questo percorso sembra essere ancora in fase aurorale.

La seconda direttrice, politica, rinvia alle strategie adottate dalle autorità locali sul fronte della rappresentanza degli interessi dei cittadini stranieri. Il focus sulla realtà dell’associazionismo straniero (che potrebbe giocare un ruolo fondamentale nel processo di promozione sociale e culturale dei migranti nella società che li ospita) ha messo in evidenza la marginalità di cui questo soggetto sociale soffre in termini di risorse economiche, di rappresentanza istituzionale, di partecipazione nei processi decisionali, di riconoscimento politico. In particolare, ha consentito di precisare la radicalizzazione dell’idea che legge il migrante come soggetto passivo e destinatario passivo di politiche pensate ed attuate da altri per lui, salvo rare eccezioni (per esempio, quando le istituzioni locali cooptano le associazioni stesse nella loro struttura). Per converso, proprio il decentramento e l’autonomia dei poteri locali potrebbe veder semplificata e alleggerita la propria azione negli ambiti specifici rivolti agli stranieri, riconoscendo alle associazioni il ruolo di mediazione fra le istituzioni e le comunità che rappresentano. Ma il fatto che ciò non avvenga (o avvenga in modo sporadico ed episodico) documenta che quest’area è ancora restia a promuovere relazioni fra vecchi e nuovi residenti e, pur non escludendo l’apertura a prassi che mescolano insieme preclusioni e concordanze, frizioni e distensioni non sembra ancora riconoscere il ruolo formativo e non solo aggiuntivo o oppositivo delle presenze straniere.

La terza direttrice, metodologica, segnala che le strategie utili a creare convergenze di sistema fra le istituzioni, gli attori sociali, le associazioni di migranti sono sporadiche, deboli e incerte e riflettono, nell’approccio alla soluzione dei problemi, atteggiamenti empirici, settoriali, spesso inceppati nell’erogazione dei servizi che, se possono far fronte a richieste ed esigenze immediate, non si traducono in modello politico e organizzativo di riferimento. Manca, insomma, un policy network strutturato, determinato verosimilmente sia dalla gracilità o dall’assenza di una filosofia condivisa sulle politiche da adottare nei confronti di questa utenza; sia dagli spazi di indeterminatezza delle norme che possono consentire forme discrezionali sul versante delle scelte applicative; sia, non certo da ultimo, dallo scollamento fra fabbisogni percepiti nel territorio e quote economiche assegnate per la gestione della realtà migratoria. Né, ovviamente, a tali carenze può ovviare l’impegno di operatori motivati, competenti, dall’esperienza consolidata, ai quali andrebbe riconosciuto il ruolo di produttori inconsapevoli d’integrazione.

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Le informazioni raccolte disegnano, dunque, un quadro per più di un verso problematico, che non sembra disporre di segnali stabili di orientamento e di terreni specifici di riferimento sul piano della gestione delle relazioni inter-culturali. Di qui l’attenzione a tre piani d’intervento. In primo luogo, coltivando una prospettiva politica che si impegni ad attivare iniziative che, nel lungo periodo, siano in grado di modificare i meccanismi strutturali che producono disagio. A questa dovrebbe accompagnarsi una prospettiva culturale che educhi ad elaborare le differenze senza neutralizzarle, promuova l’istanza dialogica, orienti alla faticosa assunzione delle buone ragioni dell’altro per giungere a spazi interattivi. Si tratta, come può constatarsi di una conquista che si ottiene al termine di un lungo e laborioso processo di discussione e di persuasione ed è costantemente bisognosa di vigilanza, di fortificazione, di difesa. Di qui la necessità di curare una prospettiva educativa che orienti a scegliere il fine dell’azione, diversamente dalla formazione che aiuta a ordinare i mezzi ai fini. Infine, è indispensabile che venga fertilizzata una prospettiva etica che accompagni nell’adozione di uno stile di vita che non teme di impegnarsi vuoi in gesti generatori di socialità, soprattutto lì dove non ne esiste traccia; vuoi in investimento non richiesto e gratuito.

Quanto fin qui detto orienta a pensare che, forse, dovremmo imparare a praticare il mutualismo che, in biologia, è quel tipo di simbiosi armonica che consente alle specie conviventi di trarre reciprocamente vantaggi dallo stare insieme5; oppure guardare all’universo e al concetto di struttura planetaria etegonica6, che permette ai pianeti di girare intorno ad una stessa stella come compagni e non come nemici l’uno dell’altro. In questo caso, forse proprio ciò che è più lontano dal nostro quotidiano potrebbe insegnarci a guardare meglio in noi stessi, ad evitare i nostri tic, a sospettare della verità delle nostre convinzioni e delle nostre prassi.

5 De Carli S. (2006), Intervista a Pino Ferraris, “Mutualismo. La solidarietà che si

organizza” in Communitas , 9, p.143

6 Con il termine etegonico (dal greco etairos che vuol dire “compagno”) si intende il

sistema planetario di una stella i cui componenti hanno imparato a muoversi insieme intorno al loro sole. Cfr.De Carli S. (2006), Intervista a Luigi Sertorio, “Nicchia. L’anarchia dell’intelligenza”, in Communitas, op. cit., p. 150.

4. L a lente d’ingrandim ento sulle politiche