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Critiche al manicomio giudiziario

costituzionalizzazione del doppio binario?

2. Le critiche alle misure di sicurezza

2.4. Critiche al manicomio giudiziario

Per il manicomio giudiziario, in parte valgono le problematicità sollevate in materia di misure di

sicurezza in genere, in parte il problema presenta degli aspetti del tutto peculiari. Innanzitutto, le critiche al dualismo sono oggi ampiamente condivise per quanto concerne gli imputabili, si ritiene infatti che queste non rappresentino altro che un'ingiustificata protrazione dello stato detentivo; una tale uniformità di vedute non si ritrova per quanto concerne i non-imputabili, nei confronti dei quali, a prescindere dal nomen iuris e dalla qualificazione della natura della misura, non sembra messa radicalmente in discussione la necessità di una qualche forma di intervento detentivo (43).

struttura, spronate anche da alcuni eventi che furono all'attenzione della cronaca alla metà degli anni '70 (44). Le denunce dei luoghi insalubri e vecchi, delle contenzioni protratte per decine di giorni, delle carenze materiali, del sovraffollamento, dei maltrattamenti subiti dagli internati, aprirono il varco per la riflessione sulla valenza terapeutica dell'internamento. Il binomio delle funzioni di cura e custodia che aveva accompagnato l'istituzione fino dalla sua elaborazione ad opera della Scuola Positiva, che era stato confermato nell'impostazione codicistica (ove la misura rivolta ai semi imputabili assumeva proprio il nome di assegnazione ad una casa di cura e custodia), sembrava dover essere ripensato, soprattutto a seguito delle rivoluzioni condotte nel settore psichiatrico dai basagliani e della progressiva affermazione del diritto fondamentale alla salute come diritto inviolabile anche nei confronti delle persone detenute (45).

Del resto il progressivo indebolimento delle certezze scientifiche alimentava le critiche sulla legittimità della misura di sicurezza del ricovero in OPG, questa misura di sicurezza, per molti aspetti assimilabile alla pena, rischiava di non essere altro che una restrizione della libertà personale fondata su valutazioni con un discreto di margine di aleatorietà.

2.4.1. Imputabilità e pericolosità sociale al netto delle incertezza scientifiche: le critiche alla perizia e agli accertamenti diagnostici e prognostici

Le misure di sicurezza, come abbiamo avuto modo di vedere, sono misure con funzione difensiva che vengono applicate in ragione della sussistenza della pericolosità sociale (46). La misura di sicurezza del ricovero in OPG è una misura rivolta a soggetti ritenuti non imputabili e pericolosi. Dunque, nei confronti del sottoposto a questa misura, saranno effettuati due diversi accertamenti, uno relativo all'imputabilità, l'altro alla pericolosità sociale. Sia le due nozioni - di imputabilità e di pericolosità sociale - che la perizia psichiatrica e le modalità del suo svolgimento, sono state oggetto di critiche e riflessioni. In questo paragrafo procederemo a definire la perizia psichiatrica e delinearne la normativa,

proseguiremo poi con l'analisi delle critiche all'accertamento dell'imputabilità e quello della pericolosità sociale.

La perizia nel processo penale rappresenta sia un mezzo di prova che un mezzo di valutazione della prova, è dunque uno strumento attraverso il quale si possono acquisire nuovi dati probatori e valutare dati già acquisiti (47). La perizia psichiatrica può essere utilizzata per una serie di accertamenti diversi (pericolosità, imputabilità, capacità processuale), nei confronti di soggetti diversi (imputato, vittima), in vari stati del procedimento (48).

Il lavoro del perito psichiatrico, come sottolineano da Lagazzi e Ferracuti è sempre articolato in almeno due fasi: una diagnostica, di tipo medico psichiatrico; l'altra valutativa, nel corso della quale gli elementi riscontrati nella prima fase sono messi in correlazione al fine di rispondere al quesito posto dal giudice (49). Il risultato del lavoro peritale costituirà un parere, professionale e il più possibile svincolato dagli elementi esterni che possono avere un'influenza sull'opinione che il perito si costruisce sulla persona esaminata, ma pur sempre un parere, dunque dotato di «un fisiologico ed inevitabile grado di

soggettività» (50).

Tenendo ferme le considerazioni appena svolte, passiamo ad esaminare i problemi relativi alla perizia in materia di imputabilità. Come abbiamo visto, il nostro codice prevede tra le cause di esclusione dell'imputabilità il vizio di mente, ovvero la presenza di un'infermità che abbia dato luogo, al momento della commissione del fatto, ad una totale incapacità di intendere e di volere (51). Nello svolgimento di questo accertamento peritale si pongono alcune problematiche. In primo luogo il perito non è

semplicemente chiamato a riconoscere la sussistenza di un patologia psichiatrica, ma a valutare se questa patologia abbia inciso sulle capacità appena menzionate. Il dato nosografico ha assunto nei vari contesti storico-culturali un diverso rilievo e la maggiore o minore importanza attribuita a questo

elemento ha prodotto l'effetto di estendere o di ridimensionare la nozione di capacità. All'epoca della promulgazione del codice penale, era diffusa una nozione di malattia mentale di stampo positivista, biologico-determinista, secondo la quale, essendo l'attività mentale frutto del funzionamento celebrale, in presenza di una malattia, il soggetto doveva automaticamente ritenersi affetto da vizio di mente e non imputabile (52). Allo psichiatra, nel processo penale, era semplicemente richiesto di individuare la patologia, inscrivere il soggetto in una categoria nosografica, in poche parole etichettarlo in una determinata specie di follia.

Il concetto di malattia mentale è andato nel corso degli anni subendo un notevole mutamento e alle certezze scientifiche della scuola positiva sono andate progressivamente sostituendosi accezioni diverse della patologia psichiatrica, psicologiche e sociologiche (53). Questo mutamento ha prodotto

degli effetti sulla valutazione di imputabilità. Da un lato questa è andata progressivamente

espandendosi, ricomprendendo disturbi che non rientrano nelle tradizionali forme psicotiche. Dall'altra, alcuni autori hanno sostenuto la necessità di abolire la distinzione tra imputabili e non e alcuni psichiatri forensi hanno scelto di adottare una concezione riduttivista della non imputabilità, esprimendosi per l'incapacità del soggetto solo in presenza di patologie talmente gravi da comportare una totale alienazione dell'Io (54). Del resto, anche in presenza di patologie psichiatriche gravi, un tempo considerate automaticamente cause di esclusione dell'imputabilità, è stata rilevata la necessità di prendere in considerazione il nesso causale tra la malattia e il fatto commesso, ritenendo che anche patologie gravi non compromettano sempre e comunque la capacità di intendere e di volere (55). Questo stato di maggiore incertezza ha portato, come vedremo, alcuni autori a richiedere la modifica delle disposizioni in materia di imputabilità (56).

L'accertamento dell'imputabilità non pone problemi soltanto a causa delle crescenti incertezze scientifiche e del crollo del paradigma positivista, ma anche in ragione di alcuni elementi "pratici". La perizia è di norma condotta da psichiatri che non conoscono il soggetto sul quale sono chiamati ad esprimere un parere ed inoltre è richiesto loro di esprimere una valutazione sulla capacità di intendere e di volere di un soggetto in un momento diverso da quello in cui effettuano la perizia e probabilmente abbastanza lontano nel tempo (57). Inoltre è sempre insito nel lavoro del perito il rischio di

compromettere la sua funzione con altre, vagliando ad esempio, l'attendibilità dell'imputato e della sua ricostruzione dei fatti anziché la sua capacità nel momento in cui li commise (58). Queste

caratteristiche, come apparirà chiaro, rendono più labili i confini di una valutazione che già presenta margini di incertezza.

Passando all'accertamento della pericolosità sociale, ricordiamo che questa altro non è che la probabilità che il soggetto in futuro commetta nuovi atti dalla legge previsti come reati. La struttura probabilistica della fattispecie complessa della pericolosità sociale pone problemi riguardo alla stessa legittimità delle misure di sicurezza. Difatti, postulare una limitazione della libertà personale ad un presupposto probabilistico porta con sé l'inevitabile rischio di un «sacrificio non necessario» di questo diritto fondamentale (59). Queste considerazioni di carattere generale si sono rafforzate con l'affiorare dei dubbi sulle modalità di accertamento di questo presupposto.

Preliminarmente chiariamo che i metodi di accertamento sono essenzialmente tre:

‡Il metodo clinico anamnestico che si basa sul colloquio clinico, sulla sottoposizione a test

psicologici, psicodiagnostici e neurobiologici, al fine di cogliere le modalità di reazione del soggetto a particolari situazioni, nonché i fattori che lo hanno motivato all'azione delittuosa;

‡Il metodo statistico che consiste nella verifica della possibilità di ascrivere il soggetto ad una

specifica categoria delinquenziale;

‡Il metodo intuitivo che è fondato sul senso comune e sulle conoscenze ed esperienze

pregresse del giudice (60).

Progressivamente, questi metodi entrano in crisi: il metodo intuitivo porta con sé l'elemento positivo della maggiore individualizzazione possibile della valutazione, del resto però non può propriamente definirsi un metodo scientifico; il metodo statistico, riportando il soggetto a determinate categorie delinquenziali, rischia di produrre una sovrastima dei soggetti pericolosi, oltre a presentarsi come una lesione del diritto alla libertà personale di un soggetto fondata su un pregiudizio legato alla sua appartenenza ad una particolare categoria di soggetti; il metodo clinico anamnestico ha risentito della progressiva messa in discussione della criminologia positivista e della concezione del delitto come una malattia, inoltre con l'avvento del movimento cosiddetto anti-psichiatrico e di un nuovo punto di vista sulla malattia mentale, il nesso causale che si riteneva sussistere tra malattia e pericolosità è stato progressivamente messo in discussione (61).

Se nell'ottica deterministica dei criminologi positivisti, il giudizio di pericolosità era scientificamente fondato ed obiettivo, per cui si sarebbe potuto ricorrere alla predisposizione di categorie legali di soggetti pericolosi (62), con la crisi del determinismo ed il crescente diffondersi di incertezze sull'attendibilità dei metodi di accertamento esistenti, la struttura delle misure di sicurezza e la loro legittimazione sembra vacillare. Peraltro, nel nostro ordinamento la pericolosità sociale è scarsamente circoscritta. Da un lato infatti non vi è alcun riferimento alla tipologia di fatto che il soggetto valutato pericoloso potrebbe in futuro compiere, dall'altra non è qualificata quantitativamente la probabilità di futura commissione. Questi due elementi rendono la valutazione aleatoria, in quanto, con probabilità si intende, nel linguaggio scientifico la quantificazione della possibilità che un determinato evento si verifichi, possibilità che potrebbe essere anche tendente allo zero (63). D'altro canto, il fatto che il perito

sia chiamato a valutare la possibilità che il soggetto commetta in futuro un qualsiasi atto dalla legge previsto come reato, rende ancora più labili i margini già incerti di questa valutazione. Come anticipato, queste incertezze producono un riflesso diretto sulla legittimità e giustificazione delle misure stesse. In alcuni dei Paesi che adottano un sistema dualistico la valutazione è soggetta ad una serie di

limitazioni: in primo luogo limitazioni che riguardano il reato commesso (questo, attraverso il riferimento al limite edittale, avviene anche nel nostro paese) (64); in secondo luogo è circoscritto il margine di valutazione della prognosi, in quanto è ritenuto pericoloso soltanto il soggetto che si ritiene potrebbe in futuro commettere reati di una certa "rilevanza" (65). Anche questa limitazione prevista dai codici dell'area tedesca mantiene dei difetti analoghi a quelli appena esaminati in relazione alla nostra legislazione, difatti la valutazione circa la «rilevanza» dei fatti che il soggetto potrebbe in futuro commettere, rimane ampiamente discrezionale.

Date le numerose criticità della valutazione di pericolosità sociale alcuni psichiatri ritengono sia necessario rifiutare il compito di partecipare alla perizia psichiatrica volta a valutare la pericolosità del soggetto, considerando il concetto stesso di pericolosità un elemento estraneo alla scienza medica e il compito loro assegnato all'interno del processo in contrasto con la funzione e lo spirito della loro professione. Altri ritengono invece che si dovrebbe procedere a modificare quanto è richiesto allo psichiatra in fase di perizia, intervenendo anche sul concetto di pericolosità. Il concetto di pericolosità potrebbe, a detta di questi ultimi, essere sostituito con quello di aggressività, sul quale esistono maggiori margini per una valutazione obiettiva (66).

2.4.2. Manicomio giudiziario e principi costituzionali: il divieto di trattamenti inumani e degradanti e la tutela del diritto fondamentale alla salute

Abbiamo finora parlato delle misure di sicurezza in genere, ci sembra a questo punto necessario affrontare la tematica più specifica della misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario. Fin dall'inizio della nostra trattazione abbiamo potuto evidenziare come, nel manicomio giudiziario, alle esigenze di custodia si accompagnino, in un'ottica di difesa sociale, quelle di cura. La questione della salute, a nostro avviso, si pone in due diverse ottiche e in due diversi significati. Da un lato c'è infatti il profilo funzionale: le misure di sicurezza hanno la loro ragione d'essere proprio nella particolare funzione special-preventiva e il manicomio giudiziario in quella terapeutica, che le distingue

contenutisticamente - o meglio dovrebbe - dalle pene. Dall'altro lato è necessaria una considerazione circa la garanzia della tutela del diritto inviolabile alla salute in tutte le situazioni, comprese quelle nelle quali il soggetto si trova a subire una restrizione della propria libertà personale come conseguenza di un fatto dalla legge previsto come reato. Questa situazione presenta, ovviamente, delle analogie con la materia della tutela della salute in carcere, difatti, si tratta della garanzia del diritto inviolabile al

mantenimento del benessere psico-fisico (67), in una situazione di restrizione della libertà personale. Ai detenuti, così come agli internati, deve garantirsi tale diritto, sia in virtù del fatto che la pena (o la misura di sicurezza) non può limitare il godimento di diritti costituzionali al di là di quelli incompatibili con la detenzione (68), sia in quanto dei trattamenti che violassero l'integrità psico-fisica del soggetto si sostanzierebbero in quei trattamenti vietati dall'art. 27, 3º comma della Costituzione. La peculiarità di questa situazione rispetto a quella delle prigioni si trova proprio in quella differenza che dovrebbe esservi tra la pena e la misura di sicurezza in termini di contenuto e dunque nel carattere

spiccatamente rieducativo che l'internamento in manicomio giudiziario dovrebbe assumere. La rieducazione e la prevenzione-speciale, nell'ottica della misura, si specificano come "cura". Quindi, seguendo lo schema tracciato da Padovani, da un lato l'art.32 della Costituzione incide su

aspetti organizzativi e istituzionali, essendo le misure di sicurezza finalizzate all'intervento terapeutico. Infatti, la risocializzazione in tema di misure di sicurezza si concretizza in un'esigenza curativa.

Dall'altro lato, trattandosi comunque di un trattamento sanitario e nella specie di un trattamento coattivo dovrà rispettare i limiti previsti dal secondo comma dell'art. 32 della Costituzione (69). Del resto, si aggiunge, sotto il profilo della garanzia del diritto alla salute, all'interno dei manicomi giudiziari, così come all'interno delle carceri, dovranno essere garantiti ambienti salubri ed interventi medici all'occorrenza (70).

Soffermandoci per il momento sul primo aspetto occorre distinguere due filoni di analisi: da un lato se la funzione del manicomio giudiziario è prettamente terapeutica e la sua giustificazione è data dalle particolari esigenze di terapia che pone il folle reo rispetto al folle comune, la struttura e la sua organizzazione si devono mostrare idonee a svolgere tale funzione almeno al pari delle strutture civili rivolte alla cura dei malati di mente; dall'altro il manicomio giudiziario deve risultare in grado di

penitenziario in senso stretto (71). Dunque il manicomio giudiziario dovrebbe presentare qualità affini ad un ospedale psichiatrico civile. Nel 1978 Padovani rilevava come, al netto della pretesa specificità clinica dei folli rei, il personale addetto al trattamento di questi soggetti dovesse essere altamente qualificato (72).

Se nell'ottica post-costituzionale la misura di sicurezza si trova giustificata e legittimata da istanze terapeutiche, se dunque la giustificazione della sua esistenza e della sua differenziazione dalla pena, si trova nel fatto che il manicomio giudiziario, non deve punire, ma non deve neppure limitarsi a recludere, bensì deve offrire terapia al malato di mente autore di reato e se questa persona non può che essere accolta in un tal genere di struttura in virtù delle presupposte peculiarità della sua patologia, attestate dal compimento dell'atto criminoso; il manicomio giudiziario deve come minimo presentare requisiti analoghi a quelli delle strutture che all'esterno si occupano di provvedere alla salute dei malati di mente (73). In questa logica Padovani criticava la mancata estensione delle disposizioni circa il rapporto numerico tra pazienti e personale medico e sanitario, introdotta dalla legge Mariotti del 1965 ai manicomi giudiziari (74). Nel manicomio (che ha ormai assunto il nome di ospedale psichiatrico (75)) giudiziario, l'organizzazione degli istituti era disciplinata dal regolamento nel 1975 la legge n. 354, recante disposizioni sull'ordinamento penitenziario, che si limitava a stabilire che i singoli istituti dovessero essere organizzati con caratteristiche differenziate in relazione alla posizione giuridica dei detenuti e degli internati e alle necessità del trattamento individuale o di gruppo degli stessi. (76)Il regolamento dell'anno seguente, contenente norme sull'esecuzione dell'ordinamento penitenziario, all'art. 98 precisava che gli operatori professionali e volontari chiamati a svolgere la loro attività nelle case di cura e custodia, negli ospedali psichiatrici giudiziari fossero selezionati con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti ivi ospitati (77). La normativa non appariva come rilevava criticamente Padovani coerente con la funzione terapeutica che l'istituzione avrebbe dovuto svolgere. A questo riguardo occorre forse effettuare un passo indietro e ricordare le origini del manicomio

giudiziario, questa istituzione nasceva nell'ambito del sistema penitenziario, come istituto di pena speciale, con funzione ad esso «servente» (78), dunque con lo scopo di sottrarre dagli istituti di pena quei soggetti che potevano essere causa di disordini e di confusione (79). Non c'è da stupirsi che questi somiglino più a prigioni che ad ospedali.

A questo punto sembra opportuno inoltre ricordare l'insegnamento di Foucault, se questa serie di istituzioni disciplinari che sono nate con l'età moderna e ne hanno caratterizzato la storia, somigliano al carcere ciò non deve suscitare nessuna meraviglia, sono infatti figlie della stessa microfisica di potere, della stessa tecnica disciplinare, sono figlie anch'esse della logica della prigione.

Guardando all'ordinamento penitenziario, approvato con legge n 354 del 1975, Padovani sollevava alcune perplessità. Il trattamento degli internati risultava plasmato in toto su quello dei detenuti (80). Alcuni istituti mostravano delle differenze ma erano comunque delle piccole variazioni su istituti pensati per i detenuti (81). Se questo poteva da un lato far sperare per un superamento delle rigide categorie ereditate dal positivismo, nella prospettiva di una disciplina più flessibile, d'altro canto poteva tramutarsi in una perpetuazione della realtà precedente, quella di una vera e propria pena manicomiale (82). Riprendendo il ragionamento di Padovani, anticipato in precedenza, il rispetto dell'art. 32 in rapporto alla misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario, non si esaurisce nella garanzia di un trattamento che abbia negli effetti una valenza terapeutica, pena la sua illegittimità nell'assetto costituzionale, ma si configura come necessità ulteriore di garantire il rispetto dei limiti previsti dal comma 2º per i trattamenti obbligatori (83). La misura di sicurezza se, come necessariamente deve essere, ha carattere e funzione di cura, dunque si sostanzia in un trattamento sanitario e d'altronde, mancando il consenso del paziente, deve configurarsi come obbligatorio, deve muoversi nel reticolo dei limiti imposti dall'art.32 della carta costituzionale (84). La Costituzione prevede due garanzie per l'intervento coattivo sul malato: a) la riserva di legge, ma per quanto riguarda questo aspetto possiamo ritenere che la riserva prevista dall'art 25 della Costituzione in materia di misure di sicurezza garantisca superiormente rispetto a quella prevista dall'art. 32, b) il divieto di trattamenti che violino il rispetto della persona umana (85). Padovani rinviene in questo secondo punto limiti importanti in relazione

all'internamento in OPG. Difatti per garantire un pieno rispetto della persona umana trattamenti coattivi possono essere disposti solo per finalità terapeutiche e non perdurare per un tempo superiore a quello in cui perdurano le esigenze di salute (86). Se così non fosse la misura di sicurezza finirebbe per costituire una illegittima strumentalizzazione della persona (87). In questo senso Padovani ritiene illegittima la normativa penale sia relativamente alla presunzione di pericolosità sociale, che non consentiva una valutazione circa l'attualità dell'infermità mentale, sia la disciplina sulla durata minima in