La necessità di implementare un più ampio processo di ri-organizzazione territoriale delle politiche sociali, avvenuta sotto la spinta dei cambiamenti avvenuti nei decenni precedenti, venne risolta da una parte attraverso l’implementazione di un federalismo amministrativo, che consentisse di scaricare verso i livelli sub-nazionali una serie di oneri finanziari, alleggerendo il deficit ed il debito a carico del bilancio dello Stato, dall’altra attraverso un rafforzamento del ruolo delle Regioni sia nella prospettiva europea, allargando gli spazi di partecipazione delle stesse in ambito Comunitario e
31 garantendogli un maggior potere decisionale ed operativo attraverso l’accesso diretto a risorse europee, sia in quella nazionale allargando gli spazi decisionali delle stesse attraverso una più ampia attribuzione di competenze. La natura e l’entità della nuova domande scontrandosi con l’unità territoriale di intervento e di programmazione utilizzata sino a quel momento, lo Stato centrale, aveva posto in essere una palese asimmetria tra la scala delle strategie e degli obiettivi assunti e il livello territoriale in cui gli stessi venivano messi in atto., incentivando processi di trasformazione dell’assetto esistente ed identificando forme e livelli nuovi di organizzazione istituzionale. In Italia i processi di riorganizzazione territoriale delle politiche sociali non avvennero in un vacuum istituzionale ma al contrario si inserirono e sovrapposero ad altri processi di cambiamento che caratterizzavano le riforme degli ultimi decenni, come quelli del più ampio decentramento politico-amministrativo iniziato negli anni ’70, della moltiplicazione degli attori coinvolti nei processi di policy making, delle nuove pratiche di New Public Management che riformularono l’assetto organizzativo e gestionale delle pubbliche amministrazioni, dei processi di esternalizzazione, privatizzazione, individualizzazione dei servizi.
Il processo di Rescaling delle politiche sociali prese il via a livello nazionale con la legge quadro n. 328 del 2000 per poi assumere una più ampia accezione e legittimazione attraverso la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. Nell’ambito delle politiche sociali la legge quadro (l. n. 328 del 2000) prima e la riforma costituzionale poi (l. cost. n. 3 del 2001) aveva individuato nuovi scenari per le politiche sociali segnando il passo verso un sistema delle autonomie locali fondato sulla libera iniziativa e le responsabilità delle Comunità locali, assegnando alle Regioni un ruolo forte di indirizzo, di programmazione e di regia del sistema delle autonomie sia in termini propositivi che di gestione. Il nuovo assetto della potestà legislativa e di regolamentazione attribuita alla Regioni dalla riforma costituzionale si fondava su di un sistema di sinergie tra i veri livelli istituzionali (nazionale, regionale e locale), incentrato sul riconoscimento del principio di sussidiarietà, di concertazione e di integrazione, dal quale doveva discendere una composizione delle opposte tendenze: l’uniformità, garantita dai livelli essenziali delle prestazioni sanciti a livello nazionale, e la differenziazione, derivante dalla nuova potestà legislativa riconosciuta alle singole Regioni (ad esempio la competenza esclusiva in materia di assistenza). A livello locale
32 il ricorso crescente a strumenti contrattualizzazione dei servizi e l’apertura degli spazi decisionali a una pluralità di istituzioni e attori privati, attraverso l’utilizzo di strumenti quali accordi, patti, intese, contratti, ridisegnò il profilo e i contenuti delle relazioni fra le amministrazioni pubbliche,, a vario titolo competenti o interessate e le forme di rappresentanza delle Società Civile (Gaudin, 1999; Bobbio, 2000; Boivard, 2004). Il Rescaling delle politiche sociali nella sua duplice implicazione: implicita, in riferimento ai processi che hanno mutato gli equilibri tra misure specifiche regolate a livelli territoriali diversi, esplicita mediante il mutamento dell’assetto regolativo attraverso lo spostamento della responsabilità ad attori istituzionali di differenti livelli territoriali, aveva riportato il tema della regolazione pubblica al centro del discorso politico. Se guardiamo alla regolazione come
«le modalità attraverso le quali un insieme di attività o di rapporti fra attori viene coordinato, le risorse che vi sono connesse vengono allocate e i relativi conflitti reali o potenziali vengono strutturati cioè prevenuti o composti» (Lange e Regini, 1987) Il nuovo assetto costituzionale aveva inciso fortemente sia sulla dimensione economica della regolazione, intesa come modello di regolazione nella produzione di servizi, sia sulla dimensione politica, intesa come modelli di interazione tra pubblico e privato (Pavolini, 2003). Il “paradigma assicurativo” in base al quale per far fronte ai rischi sociali era sufficiente un sistema di trasferimenti monetari gestito centralmente dallo Stato lasciava il posto ad un nuovo assetto regolativo più complesso ma allo stesso tempo meno gerarchizzato e regolamentato, fondato sull’interazione e la negoziazione fra attori che afferiscono a livelli territoriali differenti (Bache, Flinders,2004; Gales, 2002). A porre una questione sulla regolazione complessiva possibile aveva influito quindi il crescente spazio conquistato da forme di regolazione sociale che avevano trovato nella loro dimensione locale la propria legittimazione . Lo spostamento verso il basso della responsabilità regolativa, attraverso processi di devolution, risulta, tuttavia, fortemente influenzato sia dagli assetti istituzionali dei sistemi di welfare locale, sia dal contesto culturale che legittimava tali assetti, divenendo quindi la risultante dell’integrazione e dei giochi di potere tra le forme di regolazione esistenti nel dato contesto territoriale, in relazione al bagaglio di specificità che ogni realtà portava con sé ma anche al grado di potere e legittimazione che ognuna delle forme di regolazione aveva assunto nel territorio, generando nel contempo assetti regolativi complessivi
33 fortemente differenziati. Lo stesso Crouch (2007) riassume i luoghi e le forme che delineano le caratteristiche del nuovo paradigma regolativo: le strutture giuridiche (diritti in particolare), le azioni dei governi (politica sociale, dell’occupazione, ecc.), le associazioni (rilevanti per la negoziazione, a diversi livelli geografici), le gerarchie (condizioni stabilite in ogni singola realtà), le Comunità (famiglia, vicinato, ecc.), le reti (importanti per la regolazione informale, specie locale e regionale).
Il processo di attuazione dei principi disegnati dalla nuova architettura del Welfare nazionale si mostrò sempre più tortuoso sotto diversi aspetti. Sul piano delle interazioni tra livelli di governo la mancata riformulazione del Piano nazionale dei servizi e degli interventi sociali allo scadere della prima triennalità e delle disposizioni previste dalla legge del 2000 (adozione parziale per l’art. 11, mancata adozione per gli artt. 12 e 13), nonché la riscrittura delle materie di competenza nazionale e soprattutto regionale, non fecero altro che aumentare i problemi ed i conflitti tra gli attori istituzionali. Le forti interdipendenze tra settore e settore l’accentuata dinamica sociale ed economica , si erano accompagnati ad una forte spinta decentralista, implicita ed esplicita, che da un punto di vista amministrativo-gestionale e politico-regolativo non si è accompagnata ad un vero e proprio decentramento fiscale. Inoltre l’assenza di alcuna definizione circa i livelli essenziali delle prestazioni da un lato accrebbe il grado di libertà decisionale garantito alla Regioni e dall’altro determinò anche una maggiore differenziazione tra i sistemi di welfare locali realizzati, tali da riprodurre e legittimare le differenze esistenti tra le diverse aree del paese.
Nell’ultimo decennio, le Regioni hanno variamente interpretato il loro ruolo anche in termini di modalità e tempi entro cui hanno assunto la cabina di regia nella programmazione delle forme del welfare territoriale, strutturando o assestando la rete dei servizi alla luce delle peculiarità locali e dei bisogni della popolazione del loro territorio. A livello regionale l’ampio margine di discrezionalità rispetto alle scelte politiche intraprese, alle modalità di implementazione del modello di regolazione locale delle politiche sociali e alle connotazioni che esso poteva assumere, aveva incontrato diversi ostacoli in relazione ad alcune criticità insite nel processo stesso di Rescaling delle politiche sociali così come prospettato dal disegno istituzionale. Proprio le modalità attraverso cui tale processo era stato realizzato, che investivano la dimensione economica, normativa ed istituzionale del nuovo sistema di welfare, impattando con le
34 diverse opportunità offerte agli attori istituzionali, avevano generato da una parte un articolato quadro di complessità, dall’altra aveva dato il via a spazi di sperimentazione a favore degli attori locali che, in ultima istanza, contribuirono a produrre nei territori specifici esiti contestualizzati.
In particolare in merito alla dimensione economica il sistema di autonomie, prospettato dalla legge quadro e dal l’art.119 (riformulato alla luce dell’intervento del 2001) della Costituzione, mutando l’equilibrio delle relazioni finanziarie tra Stato ed enti territoriali, in mancanza dell’introduzione di processi e luoghi reali di collaborazione tra gli attori istituzionali, rappresentò uno dei più rilevanti elementi di debolezza del sistema di Welfare italiano. Il nuovo assetto della finanza regionale e l’introduzione di meccanismi perequativi, atti a mediare le differenze esistenti tra le diverse aree del paese, apparivano poco significativi nella misura in cui risultava molto ampia la discrezionalità del legislatore statale nel determinare le risorse disponibili. A livello statale la discrepanza tra fondi programmati e quelli effettivamente stanziati, la diversa ripartizione dei fondi tra le aree del paese, la progressiva contrazione dei fondi disponibili per alcune aree tematiche unitamente alla persistenza a livello regionale di continui mutamenti dell’autonomia finanziaria garantita agli Enti territoriali,( a causa della rimodulazione annuale della normativa fiscale e della legge finanziaria che determinava la differente capacità impositiva e finanziaria dei singoli territori) e di una scarsa autonomia finanziaria degli enti sub-nazionali, determinando una forte dipendenza delle Regioni dai finanziamenti nazionali ostacolò l’implementazione effettiva del disegno politico delineato dalla legge. La nascita di relazioni di potere asimmetriche tra Stato e livelli sub-nazionali, margini di disuguaglianza tra le realtà locali e/o le condizioni del verificarsi di un vantaggio/svantaggio di una politica o di un’area di bisogno rispetto ad altre sono solo alcuni degli effetti prodotti, in un contesto in cui
« la penalizzazione delle politiche sociali è sempre più spesso il prodotto del processo endemico di conflitto a somma zero sull’allocazione delle risorse» (Righettini, Arlotti, in Kazepov, 2009, pag.109).
Allo stesso modo l’utilizzo della perequazione aveva inciso fortemente sull’entità della compartecipazione alla spesa sociale da parte degli enti territoriali e sull’esercizio della
35 loro capacità impositiva, nel verso di disincentivarne lo sviluppo e ostacolare il processo di responsabilizzazione degli stessi verso la propria collettività in relazione ai risultati gestionali raggiunti e alle politiche implementate.
In merito alla dimensione normativa la ri-organizzazione territoriale delle politiche sociali ha comportato processi che hanno mutato le politiche implementate, la loro natura e gli equilibri tra le stesse. La loro regolazione attraverso livelli territoriali diversi e sempre più stringenti forme di finalizzazione nell’utilizzo dei trasferimenti statali (e allo stesso modo di quelli regionali ), prevedendo, quindi, un ripartizione delle risorse vincolata, hanno rallentato l’adozione nei territori di politiche e/o interventi contestualizzati determinando una certa lentezza nel processo di differenziazione delle politiche regionali rispetto alle previsioni statali a discapito di una effettiva programmazione locale che segua la domanda sociale del territorio. Qualora tale differenziazione sia avvenuta alle differenze categoriali e territoriali delle politiche sociali nazionali si sono aggiunte poi quelle delle politiche locali che hanno creato veri e propri sistemi di cittadinanza locale non solo in termini di prestazioni erogate, modalità di identificazione e tutela dei bisogni ma anche di cittadinanza.
Infine in merito alla dimensione istituzionale i cambiamenti intercorsi, unitamente all’impreparazione da una parte delle Regioni a far fronte alle nuove competenze, alla frammentazione e debolezza delle amministrazioni locali, alla configurazione degli assetti organizzativi esistenti, hanno determinato differenze nei tempi di implementazioni delle disposizioni contenute nella legge quadro e reso difficoltoso l’introduzione di meccanismi di coordinamento e concertazione tra gli attori del sistema. Quanto alla ritrovata centralità del ruolo degli Enti Locali, in particolare dei Comuni, sancita dal nuovo assetto costituzionale, occorre ricordare da una parte la forte eterogeneità che caratterizza Regioni, Province e Comuni italiani, dall’altra l’attribuzione agli stessi di ruoli diversi e spesso concorrenziali. Le Regioni, in virtù dei loro poteri di programmazione, di indirizzo e controllo, rivestono per lo più un ruolo di governo economico del territorio, le Province un ruolo di coordinamento degli interventi ricadenti nel proprio territorio, infine i Comuni rivestono per lo più un ruolo operativo che comunque gli garantisce un rilevante peso politico nei processi di policy making. Nel caso emblematico delle Provincie la mancata attribuzione di qualsiasi potestà legislativa e regolamentare, ma anche strumenti attraverso cui esercitare
36 funzioni di controllo e supervisione (se non la sola compartecipazione finanziaria alle spese relative all’ Ufficio di piano ed il potere di voto rispetto all’approvazione dei PdZ) sulle politiche e sui flussi di finanziamento nel territorio ha determinato più ad un’attribuzione formale di responsabilità che l’assunzione di un ruolo attivo delle stesse. In merito ai Comuni sembra possibile concordare con i numerosi studi di storia amministrativa, economica, sociale, urbana12, quando si sottolinea che il loro “protagonismo” non sia un dato recente, ma che anzi sia riscontrabile nell’intera esperienza dell’Italia pre e post-unitaria e solo provvisoriamente opacizzatosi nel corso degli anni ’80. In tal senso, le riforme susseguitesi negli ultimi quindicenni, non sono stati gli strumenti che hanno “creato” le capacità di intervento politico degli Enti Locali, né le responsabilità di quella accresciuta domanda di politiche locali che taluni fanno oggi risaltare, se mai avrebbero contribuito alla ratifica formale di uno stato di cose già consolidatosi nel tempo, difatti secondo diversi autori l’analisi del processo di decentramento amministrativo e degli interventi delle istituzioni locali ,qualora si allargasse a uno spettro cronologico più ampio, vedrebbe sfumare in modo sensibile tale caratteristica (Adorni, Magagnoli, 2005). Non è dunque tanto l’ambito dell’intervento istituzionale dei Comuni a cambiare (che pure si adeguano in ogni settore alle mutate necessità), ma la natura degli strumenti adottati e la dimensione progettuale nuova nella quale sono inseriti a rappresentare il punto di vera novità. Sembra possibile condividere le affermazioni per cui la direzione delle riforme sicuramente ha determinato un incremento della autorevolezza dei Comuni, intesa come
«capacità di percepirsi ed essere percepiti dagli altri attori come “punto di coagulo”
del contesto locale….[…] “crocevia” naturale delle scelte che riguardano gli interessi, economici e non, della Comunità locale» (Arrighetti, Seravalli,1999, p.36; Adorni,
Magagnoli, 2005, p.15),
Condizione che consentiva di ampliare ulteriormente lo spettro degli interventi extra legem loro consentiti.
Bisogna tuttavia considerare che un governo locale seppur per sua collocazione istituzionale riesce a “vedere” più e meglio di altri attori istituzionali locali le
12 Si veda per tutti Adorni, D. e Magnoli,S., L'esperienza di decentramento istituzionale in Italia e lo
37 problematiche del territorio, allo stesso modo riesce tanto più a rafforzare la propria autorevolezza quanto più è capace di produrre “equilibrio” nel contesto stesso, o meglio, quanto più le sue politiche sono percepite dagli attori/elettori locali (che possono o meno “premiare” con il proprio consenso la politica di equilibrio attraverso il meccanismo elettorale) come un’azione efficace per ricostituire un equilibrio perduto o conseguirne uno nuovo, riducendo, annullando, mediando, le naturali condizioni di conflitto esistenti in ogni realtà sociale (ibid., 2005).
In ultima analisi l’unico canale libero attraverso cui si è espressa la vera capacità innovativa dei governi locali ha riguardato per lo più le modalità di erogazione dei servizi intesa anche in termini di grado di integrazione e coinvolgimento delle realtà no profit del territorio.
38
Capitolo Secondo. La dimensione economica del processo di Rescaling delle politiche sociali
In questo capitolo l’analisi della dimensione economica prenderà in considerazione il quadro delle risorse complessive trasferite alla Regione Campania ed impegnate nell’ambito delle politiche sociali che concorrono al finanziamento delle politiche sociali implementate sul territorio, incentrando l’analisi su gli interventi socio- assistenziali. Al fine di ricostruire il quadro dei finanziamenti a favore della Regione è stato necessario procedere, attraverso l’analisi e la rielaborazione dei dati contenuti in tutti decreti di riparto e/o leggi finanziarie, all’elaborazione e la comparazione dei dati riguardo ai principali canali, europei, nazionali e regionali, lungo l'arco temporale considerato delineando percorsi, strumenti e risorse del sistema di cofinanziamento prospettato dalla norma nazionale.
Prima di passare ad una trattazione specifica dei singoli trasferimenti finanziari sembra opportuno introdurre alcune nozioni preliminari in merito alle principali dimensioni che li caratterizzano, utilizzando la classificazione di Break13 (cit. in O’Toole, 1993) essi si articolano in base alla :
- Possibilità di impiego dei trasferimenti da parte dei beneficiari Senza vicoli di destinazione;
Generale, con alcune condizioni; Vincolato in macroaree di attività;
Vincolato al finanziamento di specifiche attività -Modalità di distribuzione dei finanziamenti ai beneficiari
Attraverso formule oggettive di riparto con erogazione automatica;
Attraverso formule oggettive di riparto verificate alcune condizioni di ammissione;
Attraverso formule oggettive di riparto a seguito di controlli amministrativi; Su selezione delle domande formulate da parte dei richiedenti ammissibili al
trasferimento;
-Coinvolgimento e partecipazione dell’ Ente erogante
13 In O’Toole L. (a cura di ), American Intergovernmental Relations, Congressional Quarterly Inc.,
39 Sola erogazione;
Verifica attraverso controlli amministrativi;
Assistenza tecnica, collaborazione nella formulazione dei programmi, progetti e gestione degli interventi;
accesso ad una porzione limitata del fondo (fondo chiuso) a seguito di partecipazione del beneficiario attraverso una propria quota percentuale;
accesso senza limi al fondo (fondo aperto) a seguito di partecipazione del beneficiario attraverso una propria quota percentuale;
In linea generale essi possono esser distinti in trasferimenti generali e specifici, i primi sono attribuiti senza vincoli di destinazione, i secondi sono concessi per il finanziamento di determinati interventi.
I programmi di trasferimento implementati nell’ambito delle politiche sociali in Italia presentano per lo più un carattere differente a seconda del livello territoriale considerato. Quelli statali sono a carattere misto, trasferimenti statali specifici, ripartiti tra i beneficiari in base a determinati criteri-obiettivi, uniti a trasferimenti statali senza vincoli di destinazione; quelli a livello regionale sono vincolati per lo più per macro- aree di attività, ripartite attraverso formule oggettive verificate alcune condizioni di ammissione e/o a seguito di controlli amministrativi. L’Ente statale provvede alla sola erogazione, quello regionale provvede ai controlli amministrativi, all’assistenza tecnica, alla collaborazione per la formulazione dei programmi e dei progetti, quelli comunali, organizzati in Ambiti sociali, alla gestione ed erogazione degli interventi.
La risposta territoriale all’attribuzione delle nuove funzioni operative è stata molto diversificata ed ha chiaramente risentito di una serie di variabili legate agli andamenti gestionali, politici ed amministrativi propri degli Enti Locali e alle difficoltà di avviare un processo del tutto nuovo e sperimentale che comportava innanzitutto il superamento del concetto di municipalità, una modifica degli assetti organizzativi interni agli enti e l’adozione di una serie di regolamenti che disciplinassero una nuova gestione finanziaria demandata al Comune capofila ed all’Ufficio di piano. In particolare, nei diversi Ambiti territoriali, relativamente agli aspetti legati alla programmazione e alla gestione delle risorse finanziarie del “Fondo di ambito”, si è registrata in questi anni una forte difformità territoriale nell’adeguare le vecchie logiche di gestione e
40 amministrazione degli interventi sociali alla nuova cultura della programmazione e della gestione previste dalla legge 328/2000. Infatti, in alcuni territori si è avviato e si va consolidando un governo delle politiche sociali orientato a favorire una programmazione e una gestione delle risorse pubbliche che consenta una maggior efficienza ed efficacia degli interventi finanziati ed una maggior integrazione tra i servizi e tra gli enti pubblici afferenti ad un ambito territoriale. In altri contesti, prevale ancora un governo ispirato alle vecchie logiche ben lontane dall’ottica dell’integrazione e della razionalizzazione delle risorse. Inoltre, come è logico, le scelte gestionali hanno avuto un forte impatto anche sulla dimensione organizzativa dell’Ufficio di piano. Infatti, l’Ufficio di piano, relativamente alle sue funzioni di programmazione, gestione, monitoraggio e valutazione e rendicontazione, sembra risentire di queste scelte gestionali.
Per quanto riguarda gli aspetti legati alla programmazione e gestione delle risorse finanziarie, la Regione Campania ha promosso una gestione unitaria delle risorse finanziarie destinate al Piano di zona attraverso le indicazioni contenute nelle linee guida annuali. Per rimediare a queste criticità gli obiettivi della Regione sono stati dunque: a) far convergere tutta la spesa sociale comunale nel Fondo di ambito; b) favorire una programmazione unitaria all’interno del Piano di zona di tutti i servizi di welfare previsti e finanziati nell’Ambito territoriale con diverse fonti (nazionali, regionali, Comunitarie, comunali). Dal punto di vista finanziario, è stato chiesto agli Ambiti territoriali:
- di istituire il Fondo di ambito in cui far confluire oltre alle risorse trasferite dalla Regione agli Ambiti, le risorse Asl per l’integrazione socio-sanitaria, le risorse provenienti dalle misure del Piano Operativo Regionale (da ora in poi P.O.R.),