2. L’AUTOBIOGRAFIA E IL MEMOIR IN AMERICA 1 Breve storia del genere autobiografico
2.2. La cultura nativa americana e il memoir
Il paragrafo precedente si è chiuso non a caso col termine “differenze”. Questa parola sintetizza il motivo per cui ho scelto di trattare separatamente gli sviluppi del genere autobiografico nella cultura nativa americana. Volevo mettere in evidenza le tradizioni letterarie specifiche dei Native Americans, facendo tesoro della seguente affermazione di Paula Gunn Allen: “Culture is fundamentally a shaper of perception, after all, and perception is shaped by culture in many subtle ways.” 52 Per comprendere un mondo diverso dal proprio, occorre liberarsi dal pregiudizio e dalla convinzione che l’unica realtà corretta e possibile sia quella del proprio sistema assiologico. 53
Parlare di autobiografia nel contesto nativo è, all’inizio, quasi una contraddizione, come sottolineano diversi esponenti della critica. Hertha D.
52Allen, Paula Gunn, The Sacred Hoop – Recovering the Feminine in American Indian Traditions,
Boston, Beacon Press, 1986, p. 225. Visto che questo volume è stato consultato spesso, d’ora in avanti si userà la sigla SH per riferirvisi e le pagine da cui sono estrapolate le citazioni verranno indicate fra parentesi.
53“If you want a definition, you would not go, I hope, to the stereotype which has burdened the
American Indian for many years. He is not that befeathered spectacle who is always chasing John Wayne across the silver screen.” Momaday, N. Scott, “Native American Attitudes to the Environment”, in Bol, Marsha C. (a cura di), Stars Above, Earth Below – American Indians and
Nature, Niwot (Colorado), Roberts Rinehart Publishers, 1998, p. 4. Questo è un tipico esempio di Indian humor, una sana autoironia, che esprime però in modo assai chiaro l’entità dei pregiudizi
nei confronti dei nativi americani, ben riassunto da Allen: “In contemporary times those who view Indians as hostile savages paint modern Indian people as worthless, alcoholic, and lazy […] Allied with the view […] is the common practice […] of proving that Indians mistreat their women brutally, at every level and in every way […].” SH, p. 5.
34 Wong54, per esempio, scompone il termine e lo analizza etimologicamente55, precisando che:
1) il concetto di self non è affatto individualista, come nel caso della cultura occidentale, semmai ha qui valore inclusivo e collettivo;
2) gli eventi dell’esistenza presi in esame sono specifici della cultura che ci riguarda e possono essere descritti come event-oriented (riferiti cioè a un’occasione particolare, che si tratti di una visione o di un rituale di guerra);
3) infine, la scrittura non appartiene ai nativi delle origini. La loro tradizione vive e si è sempre manifestata nell’oralità, nello storytelling.
Wong si riferisce qui alla cultura nativa prima del contatto con l’uomo bianco e, sebbene possa sembrare il contrario vista l’analisi appena elaborata, la studiosa non nega affatto la possibilità di “forme narrative personali” al suo interno. Esistono infatti moltissimi tipi di rappresentazione autobiografica ante litteram, ma è necessario definire correttamente ciò di cui si parla: è per questo che Wong conia l’espressione “communo-bio-oratory.” 56
Le testimonianze autobiografiche di nostro interesse sono difficili da reperire, trattandosi di oral, dramatic and artistic expressions, nate per la condivisione con
54Wong, Hertha D., “Pre-literate Native American Autobiography: Forms of Personal Narrative”, MELUS, 14, 1, Spring 1987, pp. 17-21.
55L’etimologia è stata fornita nel capitolo 1, ma la faccio presente un’altra volta. Dal greco antico:
αὑτός, cioè “stesso”, ßíος, ossia “vita”, γράϕω, che corrisponde a “scrivo”.
56L’espressione si ritrova in: Wong, H. D., op.cit., Spring 1987, p. 22. Nel momento in cui la
scrittura verrà introdotta nel contesto nativo, si giungerà, con una lieve modifica, a “communo-
biography”. Cfr. Browdy De Hernandez, Jennifer, “The Plural Self: The Politicization of Memory
and Form in Three American Ethnic Autobiographies”, in Singh, A., Skerrett, J. T. e Hogan, R. E. (a cura di), Memory and Cultural Politics – New Approaches to American Ethnic Literatures, Boston, Northeastern University Press, 1995, p. 42.
35 un pubblico ben definito, a livello tribale57. Eppure possiamo rinvenirle almeno in parte nella procedura di nominazione58 degli individui, nella creazione e trasmissione delle storie mitiche, nelle vesti e nelle decorazioni dei tipi59 di alcuni capi Indiani, nelle coperte, nelle ceramiche o nei cesti creati dalle donne native.
Il linguaggio è dotato di un’aura sacrale importantissima, per cui “parlare”, ossia “usare le parole”, non è cosa banale, bensì costituisce una vera e propria holy action, in quanto rivelazione dello spirito. È anche per questo motivo che si tende a preferire “cultura nativa americana”, in opposizione a “cultura indiana o indianoamericana”. La prima definizione si è diffusa dagli anni Sessanta, in opposizione alla seconda, perché in quest’ultima è presente una componente razzista, oltre al palese errore dettato dalla convinzione di Cristoforo Colombo di essere giunto nelle Indie60. In questo contesto, che richiede una certa “prudenza linguistica” da parte di chi scrive, si situa l’importanza dei nomi61
, rappresentanti l’individuo e l’essenza del medesimo. Il fatto di assumere diversi nomi nel corso
57Non bisogna mai dimenticare che le cerimonie indiane costituiscono un’espressione artistica
eccezionale, una ritualità completa, essendo composte da canti, danze e storytelling. Questa loro peculiarità ne rende assai complessa la trasmissione e il recupero, soprattutto per noi occidentali.
58“[…] the proper name might reflect accomplishments of the past, aspirations for the future, or
connections to geography, to family, to clan, or to the spiritual world in the present. Personal names may embody personal anecdotes, family stories, and tribal myths as well as the dynamic relationship among them. Names, then, can be profoundly narrative as well as descriptive.” Wong, H. D., Sending My Heart Back Across the Years – Traditions and Innovations in Native American
Autobiography, New York, Oxford University Press, 1992, p. 39.
59Il tipi (o anche teepee, tepee) è la tenda conica che costituisce l’abitazione tipica dei nativi
americani delle Grandi Pianure.
60Per un approfondimento sulla questione terminologica, cfr. “Tribal Nomenclature: American
Indian, Native American, and First Nation”, a cura di Elizabeth Prine Pauls: http://www.britannica.com/EBchecked/topic/1386025/Tribal-Nomenclature-American-Indian-
Native-American-and-First-Nation.
61Non a caso il memoir di Momaday s’intitola The Names. Nella sezione che precede il prologo,
Pohd-Lock, colui che conferisce il primo nome Kiowa al piccolo Momaday, crede che: “[…]a man’s life proceeds from his name, in the way a river proceeds from its source.” Si veda il capitolo 3.
36 della vita, riflette la convinzione che l’uomo sia sottoposto a evoluzioni, cambiamenti costanti. Tutto secondo un processo dinamico, che riporta alla concezione del tempo e dello spazio, rispettivamente ciclico e sferico62. L’universo indiano (inteso come wholeness) si muove e respira continuamente, e l’uomo con lui, seguendo i ritmi perpetui di dying, birth, growth, ripening, dying, and rebirth (SH, p. 80). Questo è il rito supremo, il sacred hoop, ossia il “cerchio sacro” della vita, cui i nativi sentono di appartenere, insieme a ogni essere del creato (SH, pp. 1-7). 63
Per ciò che concerne le storie “mitiche”, esse costituiscono un mezzo per unire, educare attraverso la memorizzazione e intrattenere i membri della tribù. Inizialmente, un tipo di narrazione molto frequente è il coup tale, un resoconto delle imprese belliche da parte di un guerriero o di un capo indiano. La gloria della vittoria non alimenta l’egoismo del protagonista delle gesta, ma celebra la comunità nella sua interezza, determinando un arricchimento delle tradizioni. Quando l’uomo bianco giunge in America, mette in grave pericolo queste usanze e lo storytelling diventa il solo mezzo per la loro sopravvivenza, una forma
62SH, pp. 59-60. A proposito del “tempo indiano”, si rimanda ad un articolo molto interessante:
Bauerkemper, Joseph, “Narrating Nationhood: Indian Time and Ideologies of Progress”, Studies in American Literatures, 19, 4, Winter 2007, pp. 27-53.
Invece, nel cap. 3, soprattutto alle pp. 68-9, si specificano le qualità del landscape e la questione della reciprocal appropriation, nel rapporto tra la terra e i nativi, intesa proprio da Momaday in questi termini.
63La madre di P. G. Allen, appartenente alla cultura Laguna, come L. M. Silko, soleva affermare:
“Life is a circle, and everything has its place in it.” Cfr. SH, introduzione. O ancora, la stessa Allen: “Belonging is a basic assumption for traditional Indians […]”. Ibidem, p. 127. “The American Indian sees all creatures as relatives […].” SH, p. 59.
37 estrema di resistenza64. Una precisazione necessaria riguarda il mito, termine che deriva dal greco μύθος (mithos) e significa “parola, discorso, favola”. Originariamente, si trattava di una narrazione fantastica intorno a esseri divini ed eroi, tramandata oralmente, con valore religioso e simbolico65. Le civiltà antiche avevano un apparato mitologico molto solido, che non si è estinto nemmeno dopo l’avvento del Cristianesimo, soprattutto durante il Medioevo. Anzi, nel Rinascimento i modelli classici sono tornati in auge e molti miti hanno trovato espressione nelle arti, pratica che è continuata fino all’età contemporanea. Julien Ries si esprime così circa il senso del mito oggi:
La nostra epoca ha riscoperto il mito e di continuo lo ridefinisce e lo analizza. Il termine mito è ormai usato nelle accezioni più diverse. Le teorie sul mito si moltiplicano e si accavallano. Per i teorici delle scienze, il mito è un racconto popolare che fornisce una risposta o un tentativo di risposta alle domande poste dall’uomo […] Gli storici, da parte loro, hanno la tendenza a considerare il mito come un insieme di leggende […] Anche il sociologo si interessa ai miti: egli tende a vedere nel mito una rappresentazione collettiva che ha la sua origine nella società […] Agli occhi degli strutturalisti il mito è parola. […] Agli occhi dello psicanalista che si richiama a Jung, il mito è una creazione basata su archetipi che costituiscono il contenuto dell’inconscio collettivo. 66
Appare chiaro che il dibattito sul significato del mito nel mondo occidentale è ben lungi dall’esaurirsi, considerate tutte le prospettive possibili. Tuttavia, attualmente la visione più diffusa si pone agli antipodi rispetto a quella della cultura nativa, in quanto per “mito” si intende una costruzione falsa o quantomeno
64“Since the coming of the Anglo-Europeans beginning in the fifteenth century, the fragile web of
identity that long held tribal people secure has gradually been weakened and torn. But the oral tradition has prevented the complete destruction of the web, the ultimate disruption of tribal ways. The oral tradition is vital; it heals itself and the tribal web by adapting to the flow of the present while never relinquishing its connection to the past.” SH, p. 45. “The oral tradition, […] has, since contact with white people, been a major force in Indian resistance.” SH, p. 53.
65Si rimanda per esempio al vocabolario Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/mito/. 66Ries, Julien, Il mito e il suo significato, Milano, Editoriale Jaca Book, 2005, p. 16.
38 una idealizzazione della realtà67. Paula Gunn Allen chiarisce la prospettiva nativa, come segue:
In the culture and literature of Indian America, the meaning of myth may be discovered, not as a speculation about primitive long-dead ancestral societies but in terms of what is real, actual, and viable in living cultures in America. Myth abounds in all of its forms; from the most sacred stories to the most trivial, mythic vision informs the prose and poetry of American Indians in the United States as well as the rest of the Americas (SH, p. 105).
Tralasciati il coup tale e il valore del mito, tra le forme autobiografiche vi sono, come si è anticipato, le vesti dei capi indiani, per esempio quella di Mah-to-toh-pa (The Four Bears), della tribù Mandan, la quale sarebbe stata composta e intessuta così da rappresentare tutte le battaglie militari combattute; o ancora i tipi, abitualmente dipinti dal popolo di Momaday, i Kiowa. I disegni, così come la scelta dei colori, sono a discrezione del singolo e possono costituire l’espressione di una visione o di un sogno. 68
Infine, sia gli uomini che le donne sono esperti nell’arte di cucire, intrecciare cesti con materiali vegetali e creare ceramiche artigianali davvero raffinate. Questi oggetti risultano peculiari e distinti in base alle diverse tribù di appartenenza e ai periodi storici:
Each artifact is produced by a particular individual, large artifacts like canoes by a group. The materials used, the way an artifact is made, its final shape, the decoration which embellishes it, and the uses made of it are distinctive of the society or the tribe of the person who made it. Artifacts reflect the ideas, the concepts, and the knowledge acquired or learned as a member of a tribe. Members of a particular tribe use certain techniques, and create a particular style because that is their tradition. 69
67Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/mito/. 68
Wong, H. D., op. cit., Spring 1987, pp. 25-7.
69Whiteford, Andrew Hunter, North American Indian Arts, New York, St. Martin’s Press, 2002, p.
39 Per esempio, le indiane Navajo, abili tessitrici, sono tuttora famose per le loro bellissime coperte, ciascuna dotata di motivi originali, per lo più di carattere astratto: “Navajo weaving is done by the women. […] Colors in Navajo fabrics have changed over the years. Early blankets had simple designs and somber colors like those of the Pueblo Indians.” 70 È possibile ammirare ciò che resta di questi manufatti in diversi musei degli Stati Uniti. 71
Nel momento in cui i colonizzatori europei giungono in America, tutto cambia. Nonostante le prime relazioni siano pacifiche, non appena i bianchi palesano le loro reali intenzioni di conquista del continente, i rapporti si incrinano. I nativi, decimati da malattie e brutalità di ogni specie, sono costretti a combattere e, gradualmente, a sottomettersi agli europei, che si impongono con la violenza. Basti pensare che la tecnica bellica adoperata abitualmente dalle truppe europee consisteva nella distruzione sistematica di interi villaggi e nel massacro dei non combattenti, vale a dire anziani, donne e bambini nativi72. Al XIX secolo, caratterizzato da guerre di resistenza, trattati di pace non rispettati e barbarie di
70Ibidem, pp. 72-5.
71Occorre fare presente che i musei sono una nota dolente per i nativi americani, in quanto la loro
creazione è frutto di un’ulteriore espropriazione. Ci si riferisce in questa sede ai musei gestiti dai nativi, per esempio il Museum of Indian Arts and Culture, a Santa Fe, in New Mexico, molto significativo per la cultura nativa pueblo. Vi si possono anche acquistare manufatti (soprattutto ceramiche e gioielli), oltre alla cosiddetta pueblo pottery: ricordo in particolare i motivi e le decorazioni usate dal pueblo Acoma e quelli delle ceramiche “nero su nero” del pueblo San Ildefonso (si pensi all’artista Maria Martinez) e del pueblo Santa Clara.
40 ogni tipo, risalgono le prime autobiografie native, sollecitate dai coloni soprattutto presso ex prigionieri di guerra convertitisi, perché obbligati, al credo cristiano. 73
Arnold Krupat74 distingue tra Indian Autobiographies e Autobiographies by Indians. I primi testi sono frutto dell’interesse “antropologico” dei coloni verso gli Indiani e non vengono scritti personalmente dai protagonisti. Si tratta piuttosto del risultato di una collaborazione bi-culturale, tra due o talvolta tre persone, nel caso in cui alla figura del curatore si aggiunga quella del traduttore. Ovviamente, bisogna tenere presente che spesso gli “intervistati” mentivano, inventavano, perché non tutto può essere condiviso, meno che mai con i bianchi, spesso letteralmente presi in giro dai nativi. 75
Le Autobiographies by Indians sono invece composte da chi vive realmente le vicende che si sono scelte di narrare, a patto che l’autore “si europeizzi”: “For the Native American to become author of such a text requires that he – and later also she – must have become ‘educated’ and ‘civilized’ and, in the vast majority of cases, also Christianized.” 76 Il primo esempio di questa seconda tipologia narrativa risalirebbe al 1768 e si deve a un indiano Mohegan, Samson Occom77.
73“It is the Christianized Indian’s relation to Euroamerican religion that thematically dominates the
early period of autobiographies by Indians”. Krupat, Arnold, Native American Autobiography – an
Anthology, Madison, The University of Wisconsin Press, 1994, p. 5. 74
Ibidem, pp. 3-5.
75Un esempio: “Rain in the Face, a Hunkpapa Sioux who was once arrested by Tom Custer – and
who later boasted that he had cut out Tom Custer’s heart on the battlefield and eaten it […] later said that he had made that story up for eager newspaper reporters.” Welch, James, Killing Custer:
The Battle of Little Bighorn and the Fate of te Plains Indians, New York, W. W. Norton, 2007 (I
ed. 1994), p. 178.
76Krupat, A., op. cit., 1994, pp. 3-5.
77Il titolo completo dell’opera, costituita a malapena una decina di pagine e disponibile solo dal
1982, è A Short Narrative of My Life. La si può leggere nelle più recenti edizioni di The Norton
Anthology of American Literature. La critica ha considerato questo testo come una sorta di
41 Un po’ più tardi, nel 1829, viene pubblicato A Son of the Forest: The Experience of William Apess a Native of the Forest, Written by Himself, i cui contenuti mostrano una sorta di sincretismo, in quanto l’autore, William Apess, è un indiano convertitosi al Cristianesimo78. Viceversa, un esempio di Indian Autobiography è Life of Ma-ka-tai-she-me-kia-kiak, or Black Hawk79, una figura contraddistintasi per gli sforzi e la lotta di resistenza contro i soprusi degli europei. Il curatore di questo testo è il giornalista J. B. Patterson, mentre la traduzione in inglese si deve a un mixed-blood, tale Antoine LeClair. Purtroppo non si può dire se e quanto Black Hawk si sia dedicato sua sponte al progetto, viste le diverse interpolazioni e mediazioni in gioco. Come si è accennato, non è possibile distinguere il vero dal falso in queste autobiografie, né ci si può aspettare la fedeltà delle versioni pubblicate ai contenuti reali delle interviste, per errori ingenui da parte del traduttore, o, nel peggiore dei casi, per un intervento “mirato” del curatore:
[…] and it is important to keep in mind the very particular mode of production of these texts, because it bears, among other things, upon the virtually irresistible question of whether or to what degree Indian autobiographies give us the “real” or “authentic” Indian. 80
L’opera di Black Hawk viene inserita da Krupat nel contesto delle Indian wars, che si ritengono concluse nel 1890, anno del massacro di Wounded Knee81
78Cfr. p. 26.
79E-book disponibile sul sito: http://www.gutenberg.org/files/7097/7097-h/7097-h.htm. 80
Krupat, A., op. cit., 1994, p. 8.
81Il terribile episodio di Wounded Knee è connesso con il movimento noto come Ghost Dance Religion, avviatosi dopo la visione del profeta Wovoka, indiano Paiute. Il governo americano
considerava questa nuova religione come una minaccia, dato che aggregava troppi indiani nello stesso luogo, mettendo in pericolo la “stabilità bianca”. In realtà, si cercava un mero pretesto per attaccare e annientare definitivamente gli ultimi nativi che ancora resistevano, strappando loro i territori rimasti e relegandoli nelle riserve. Cfr. Welch, J., op. cit., 2007, p. 271.
42 e della chiusura ufficiale della western frontier82. Molti capi indiani, fatti prigionieri, vengono incitati a raccontare le proprie storie e a spiegare le ragioni della loro resistenza. Non è un caso che vengano interpellati solo i leader delle tribù native, visto che gli europei provengono da una società patriarcale (ecco perché vi è indifferenza nei riguardi delle donne, per esempio) e da un sistema che privilegia istituzioni di ordine gerarchico.
Oltre al già citato Black Hawk, si possono ricordare le opere, sempre frutto di “collaborazioni” con gli europei, che narrano le gesta di Yellow Wolf, Geronimo83 e soprattutto il caso emblematico di Black Elk, il cui nome compare nel titolo del famoso Black Elk Speaks, il cui curatore (e in verità, autore) è John Neihardt84. Costui ha compiuto non poche manomissioni e tagli, se non censure, ai racconti originali di Black Elk, tanto che si può addirittura parlare di “falso storico”. Black Elk, nato nel 1863, ha una visione all’età di cinque anni, e un’altra, ancora più dettagliata e potente, a nove anni. Presente alla vittoria di Little Big Horn contro il generale Custer, nel 1876, Black Elk si converte in seguito alla religione cristiana e si unisce al Wild West Show di Buffalo Bill. Riceve il battesimo solo molti anni dopo Wounded Knee, diventando “Nicholas”.
82La scelta di questa data è in realtà puramente convenzionale per la storiografia “bianca”. “And so