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5 JOY HARJO

5.4. Le poesie di Crazy Brave

Come si è anticipato, nel memoir Joy Harjo ha inserito anche materiale narrativo, e soprattutto poetico, già edito in pubblicazioni passate. La selezione dei diversi estratti è senz’altro frutto di uno studio accurato, in quanto ogni testo

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Harjo non è stata altrettanto generosa con il materiale fotografico, forse anche perché non possiede molte stampe relative agli anni trattati nel memoir. Esclusa la foto di copertina, che sfrutta un effetto “nero di seppia” e la ritrae di profilo, in tutta la sua bellezza di ventenne, troviamo solo due foto nel memoir. Una in incipit, che la vede adolescente, e l’altra alla fine, da bambina. Quest’ultima reca la seguente didascalia, un ulteriore invito al perdono: “When Sun

leaves at dusk, it makes a doorway. We have access to ancestors, to eternity. Breathe out. Ask for forgiveness. Let all hurts and failures go. Let them go.” CB, p. 171. Cfr. l’appendice, pp. 144-6. 50Perreault, Jeanne, “Memory Alive: An Inquiry into the Uses of Memory in Marilyn Dumont,

Jeannette Armstrong, Louise Halfe, and Joy Harjo”, in Hulan, Renée, Native North America –

Critical and Cultural Perspectives, Toronto, ECW Press, 1999, p. 253. 51Harjo, J., op. cit., 2011, pp. 125-6.

122 rimanda a livello tematico ed emotivo alla sezione del memoir immediatamente precedente o successiva.

L’opera, presentando dunque un ordine strutturale ben pianificato, è corredata di un apparato mitopoietico molto significativo, che rivela ancora più esplicitamente la prima vocazione di Harjo, ossia la poesia, fulcro dell’intero percorso autobiografico intrapreso e realizzato in Crazy Brave.

Vorrei soffermarmi brevemente su quattro poesie52: “This is My Heart”, “Rainy Dawn”, “Eagle Poem” e “I Give You Back”. In particolare, ho deciso di occuparmi di questi componimenti perché ritengo forniscano una chiave di lettura abbastanza convincente per la comprensione del memoir e, di riflesso, dell’esistenza di Harjo, almeno per quanto riguarda il periodo coperto dalla narrazione.

“This is my Heart” 53

è posta pressoché in incipit, quasi a voler sottolineare ed enucleare gli intenti propositivi del memoir e la natura dell’offerta al lettore. Ho scelto il termine “offerta” perché questo componimento, che consta di cinque strofe (le prime tre formate da sei versi, le ultime due rispettivamente da quattro e tre versi), è quasi l’espressione di un rito nel quale l’io lirico si offre appunto, nella pienezza di cuore, testa, anima, attraverso un canto, il canto poetico per eccellenza.

Il titolo viene ripreso sin dal primo verso: “This is my heart. It is a good heart”. Questo cuore è qualificato come una membrana di mist and fire, un organo

52Per una lettura integrale di queste poesie, si rimanda all’appendice del presente lavoro. Cfr. pp.

147-51.

123 misterioso e “contradditorio” per natura, come viene fatto intendere dall’accostamento di acqua e fuoco. Questi due elementi riprendono direttamente la sezione del memoir ove Harjo descrive i genitori e l’attrazione fra i due, la cui unione fu turbolenta forse anche per la diversità dettata dal loro appartenere a due elementi cosmogonici decisamente agli antipodi:

My mother-to-be was fire. Those of fire move about the earth with inspiration and purpose. They are creative, and can consume and be consumed by their desires. […] My father-to-be was of the water, and could not find a hold on the banks of earthiness. Water people can easily get lost (CB, p. 25).

Il primo verso è ripreso mediante l’anafora all’inizio di ogni strofa, ad eccezione dell’ultima, sostituendo di volta in volta l’elemento heart con altre entità: head, soul, song.

Il climax di questa ricognizione organica e spirituale è riconoscibile nel canto (lo stesso memoir) della penultima strofa, protagonista di una lotta al confine di acqua e fuoco, la cui presenza è ancora una volta imprescindibile, per liberarsi definitivamente e trasmettere il proprio messaggio:

This is my song. It is a good song. It walked forever the border of fire and water,

climbed ribs of desire to sing to you. Its new wings quiver with vulnerability (vv. 19-22).

Per concludere, Harjo palesa l’invito e concretizza l’offerta menzionata inizialmente. L’armonia è raggiunta e il cuore è abbastanza vicino da poter cantare:

Come lie next to me. Put your head here.

124 E il memoir parte esattamente da questo punto, da questa convergenza perfetta, a patto che il lettore sia veramente pronto all’ascolto, con la mente e con il cuore.

Per incontrare un’altra poesia, si deve giungere quasi alla conclusione dell’opera, ove, a distanza di poche pagine le une dalle altre troviamo ben tre componimenti, senza dubbio affini per i temi trattati, vale a dire la (ri)nascita, la speranza54 e la libertà.

Dedicata alla figlia, “Rainy Dawn” 55

segue la lunga sezione narrativa ove l’autrice rivela alcuni particolari dolorosi circa la sua relazione con Simon Ortiz e vuole essere una testimonianza positiva, di luce. La piccola nasce e porta con sé anche la pioggia, tanto attesa ad Albuquerque in un luglio particolarmente afoso: “Not long after Rainy Dawn was born on a hot July day in Albuquerque when everyone was wishing for rain” (CB, p. 147).

La poesia, oltre che costituire l’espressione di un amore materno incondizionato, rende perfettamente la dimensione mitica sottesa alla cultura nativa. Un evento che, dal punto di vista occidentale, è ritenuto assolutamente privato, è invece rituale condiviso e inclusivo nel mondo di Harjo. Sono presenti le voci delle bisnonne e degli antenati, oltre che Mother Earth, manifestatasi attraverso il vento e la pioggia. Harjo afferma:

I had to participate in the dreaming of you into memory, […]

54Sulla “speranza”, in particolare: “This sense of hope is characteristic of the peoples whose

history on this continent stretches beyond the dimmest reaches of time, winding back through history to time immemorial; it is a hope that comes about when one has faced ultimate disaster time and time again over the ages and has emerged stronger and more certain of the endurance of the people, the spirits, and the land from which they both arise and which informs both with life.” SH, p. 160.

125 And let you go, as I am letting you go once more in this ceremony

of the living (vv. 11-7).

Rainy Dawn, sebbene sia “a butterfly newly born from the chrysalis of my [Harjo’s] body” (v. 19) non appartiene solo alla madre, ma all’intera comunità. È un altro partecipante del viaggio immenso della vita, nella sua circolarità:

Then was your promise to take it on like the rest of us, this immense journey, for love, for rain (vv. 21-2).

La nascita di Rainy Dawn è un avvenimento importante, presagito dalla poetessa come prepotente richiamo alla vita in una fase particolarmente cupa e fosca. Nel contesto del memoir lascia intendere la nuova direzione che l’autrice percorrerà, una via positiva.

Si giunge così a “Eagle Poem” 56, che può ben dirsi il culmine del processo di emancipazione e acquisita indipendenza dell’autrice: “I became aware of an opening within me. […] This was when I began to write poetry” (CB, p. 154).

Il profondo senso di libertà in fieri è sottolineato, a mio avviso, anche dalla quasi totale assenza di punti finali nella poesia (se ne riscontrano solo due, uno nel terzo e l’altro nel ventunesimo verso). Non c’è “oppressione” o chiusura definitiva neanche a livello di punteggiatura e anzi, si può volare: “Like eagle, rounding out the morning inside us” (v. 22).

L’aquila è un animale fondamentale nella cultura nativa, come asserisce ad esempio Allen: “An eagle is a symbol of the spirit, of vision, of transcendence to many American Indian traditional […]” (SH, p. 160). Nel componimento di

56Apparsa in: In Mad Love and War; in CB, pp. 154-5. L’autrice ne parla come di una preghiera

126 Harjo, il volo dell’aquila rappresenta la metafora di quel viaggio esistenziale teso verso la libertà, che inizia spiegando le ali e aprendosi totalmente al cielo, alla terra, al sole e alla luna, oltre che ascoltando la propria voce interiore. I versi iniziali di “Eagle Poem” recitano:

To pray, you open your whole self To sky, to earth, to sun, to moon to one whole voice that is you (vv.1-3).

Si prosegue in circles of motion, respirando e ritrovando l’armonia, la chiusura del cerchio sacro:

Breathe in knowing we are made of all of this And breathe, knowing we are truly blessed

because we were born and die soon within a true circle of motion (vv. 18-20).

“Eagle Poem”, in questa precisa posizione nel testo autobiografico, anticipa una decisione drastica, ma necessaria affinché Harjo si trasformi proprio nell’aquila e si liberi. E infatti, subito dopo il finale della poesia e l’augurio che quanto narrato si realizzi in beauty, in beauty (ripetizione enfatica nell’ultimo verso), una frase molto incisiva del memoir ci rende partecipi della scelta effettuata: “I knew I had to break off from the father of my child” (CB, p. 155).

Si è giunti all’atto finale e l’ultimo passo da compiere comporta uno sforzo notevole, coinvolgendo la paura, forza misteriosa che può condurre verso il baratro.

127 Questa minaccia viene sconfitta definitivamente, come dimostra “I Give You Back”, nota anche come “Fear Poem57”. È una cerimonia concretizzatasi nel

linguaggio e nella ripetitività di alcune espressioni peculiari, sin dal verso iniziale I release you, my beautiful and terrible

fear. I release you (vv. 1-2).

L’enjambement isola e pone enfasi sul termine fear. Inoltre, è significativo il fatto che la formula “I release you” ricorra ben otto volte, in alternanza con l’espressione “I am not afraid”, presente anch’essa in otto versi consecutivi e di volta in volta riferita ad attività o stati antitetici, culminanti nell’opposizione tra odio e amore:

I am not afraid to be hated.

I am not afraid to be loved (vv. 26-7).

Sulla falsariga di questi enunciati volti all’autoaffermazione, si trova la doppia ripetizione della frase “I give you back”, già nel titolo, riferita sempre alla paura. È proprio lei, quasi un’entità personificata, l’interlocutore privilegiato di “I Give You Back”, la destinataria di un lamento e di accuse necessarie per la realizzazione di un atto di coraggio culminante nella seguente dichiarazione: “I take myself back, fear” (v. 32). 58

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Originariamente pubblicata in She Had Some Horses; in CB, pp. 162-3.

58Fuori dal contesto del memoir, la poesia è interpretata, con cognizione di causa, soprattutto in

senso comunitario, e la paura che viene “rimandata indietro” è quella di un intero popolo, che ha conosciuto il genocidio e ha rischiato l’estinzione. Senz’altro non si può prescindere da tale linea ermeneutica, come confermano i seguenti versi del componimento: I give you back to the white

soldiers / who burned down my home, beheaded my children, / raped and sodomized my brothers and sisters. / I give you back to those who stole the / food from our plates when we were starving.

Per esempio, cfr. Archuleta, Elizabeth, op. cit., Winter 2006, p. 108. “The narrator refuses to claim responsibility for a fear that has kept her paralyzed. The narrator connects the fear she feels with the violence of an ongoing colonialism, and […] refuses to participate in a relationship that fosters fear and terror any longer. […] she connects her fear to patriarchal violence and racism.”

128 L’unica conclusione positiva possibile è quella vitalistica, in direzione della poesia: “It was the spirit of poetry who reached out and found me as I stood at the doorway between panic and love” (CB, p. 163).

Per terminare, non si possono non citare le parole della poetessa che, con estrema semplicità, confessa perché ha sentito l’esigenza di scrivere il memoir: “I believe in the power of words. […] I needed to tell my story59

.” La giustificazione del memoir è rintracciabile nella descrizione di questo percorso accidentato verso l’arte, e il titolo stesso, Crazy Brave, che sarebbe inutile tentare di tradurre in italiano, rimanda alla forza e all’audacia di questa scelta esistenziale, che porta finalmente a compimento il destino del nome Harjo.

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Conclusioni

La mia indagine nell’universo dell’autobiografia si è rivelata un po’ meno fruttuosa del previsto, in quanto, in definitiva, mi sono dovuta arrendere di fronte al fatto che non esistono differenze sostanziali con il cosiddetto “memoir”. La critica odierna considera generalmente interscambiabili i due termini, riconoscendo talvolta l’uso di maggiore “prestigio” del vocabolo memoir: “[…] memoir is the term of art, the prestige term.” 60

Tuttavia, c’è anche chi individua nella scelta delle tematiche e nell’estensione temporale delle vicende narrate un elemento di contrasto importante. In altre parole, l’autobiografia coprirebbe un arco cronologico più ampio, mentre il memoir avrebbe un focus più limitato, circoscritto a eventi selezionati ad hoc. Per esempio, Ben Yagoda sostiene proprio la tesi appena esposta: “The one clear difference is that while ‘autobiography’ or ‘memoirs’ usually cover the full span of that life, ‘memoir’ has been used by books that cover […] some part of it.” 61

Dopo aver analizzato le opere di Momaday, Silko e Harjo, non si può che condividere questa idea, in quanto i tre scrittori hanno composto il loro memoir seguendo consapevolmente questa impostazione.

A prescindere dal dibattito sul genere, mi ritengo comunque abbastanza soddisfatta per aver chiarito la questione terminologica che poneva alcune incertezze iniziali e, soprattutto, ho avuto piacere nell’approfondire diversi aspetti propri della cultura nativa americana.

60Couser, G. T., op. cit., 2012, p. 18. 61Yagoda, B., op. cit., 2009, p. 1.

130 The Names è un testo del 1976, scritto da Momaday nel pieno del Native American Renaissance, per cui si pone sul panorama letterario come “novità”, dato l’interesse risvegliatosi in seno alla critica relativamente al mondo nativo. Il memoir passa in rassegna l’infanzia e l’adolescenza di Momaday, attraverso impressioni, libere associazioni, aneddoti e racconti “mitici”. Questo ricco apparato, nel quale si accavallano e intersecano piani spazio-temporali diversi, sogni e visioni, permette di cogliere il valore di un punto di vista preciso, quello “multiculturale”, che coinvolge allo stesso tempo l’identità del singolo e della comunità. I “nomi” del titolo si riferiscono appunto all’identità di Momaday e del popolo Kiowa, “definita” coniugando linguaggio e immaginazione, in un atto creativo che ha come risultato le storie, tramandate nel continuum di passato, presente, futuro.

Le opere di Silko e Harjo sono molto più recenti, risalendo rispettivamente al 2010 e al 2012, e ci offrono una prospettiva tutta al femminile. Nonostante ciò, non potremmo avere opere più diverse, per quanto riguarda la struttura e gli “obiettivi” prepostisi.

The Turquoise Ledge si avvicina maggiormente a The Names per impostazione, dato che procede in maniera episodica, riferendosi costantemente alla sacralità della dimensione “mitica” (con vari riferimenti agli antenati, i Cloud Beings, o anche ad esseri divini quali gli Star Beings o Lord Chapulin). L’autrice, più che parlare di sé in modo diretto ed esplicito, si serve delle tradizioni Laguna e di quanto appreso nel corso della sua esistenza, per fornirci un quadro che appare

131 “confuso e insoddisfacente”. 62

A mio avviso, si tratta dell’ennesima sfida al lettore occidentale, o genericamente “non nativo”, incapace di accostarsi a una cultura che per esempio venera i serpenti alla stregua di divinità, e per questo disarmato di fronte alla manipolazione di un genere letterario “così semplice”, dal quale ci si aspettano descrizioni autobiografiche semplici e molto dettagliate, per soddisfare forse le proprie curiosità. Silko non ci risparmia toni a tratti aspri, critici, che bisogna comunque apprezzare perché costituiscono la sua “firma” e una testimonianza onesta, priva di condizionamenti di alcun tipo.

Crazy Brave si distingue in parte dagli altri due memoir, in quanto la vera e unica protagonista è Harjo, che certamente affronta problematiche comuni nel mondo nativo, ad esempio la piaga diffusa dell’alcolismo, evidenziando però in particolare le sue esperienze personali, assai travagliate, di bambina, adolescente, figlia, compagna, ragazza madre. Ogni “ruolo” ha comportato coraggio, forza, determinazione, e l’opera, la cui stesura è stata assai difficoltosa, segue un percorso preciso, teso verso la scoperta della poesia, per dare un messaggio positivo, di speranza. La scrittura di Harjo è sempre “lirica”, dotata di un’aura sacrale, rivelando la spiritualità che è cifra distintiva di una donna che si riconosce pienamente nella propria identità di nativa Muskogee (Creek).

Le modalità della scrittura autobiografica nel contesto nativo americano sono imprescindibili quando ci si accosta a questa cultura, che ha saputo e continua a

132 sapersi adattare ai mutamenti storici e sociali, rivendicando oggi la propria “identità multiculturale” con decisione:

A contemporary American Indian is always faced with a dual perception of the world: that which is particular to American Indian life, and that which exists ignorant of that life. Each is largely irrelevant to the other except where they meet – in the experiences and consciousness of the Indian. Because the divergent realities must meet and form comprehensible patterns within Indian life, an Indian poet must develop metaphors that not only will reflect the dual perceptions of Indian/non-Indian but also will reconcile them. The ideal metaphor will harmonize the contradictions and balance them so that internal equilibrium can be achieved, so that each perspective is

meaningful and that in their joining, psychic unity rather than fragmentation occurs. (SH, p. 161).

Artisti come Momaday, Silko e Harjo costituiscono la prova evidente del raggiungimento dell’equilibrio di cui parla Allen, nel quale diversi sistemi assiologici sono in ballo.

Sarebbe molto interessante partire dalla mia analisi e concentrarsi ulteriormente sulle testimonianze autobiografiche delle donne native, cui è dato raramente modo di esprimersi e far sentire la propria voce. Si tratta di una vera e propria “minoranza nella minoranza” che, come si è potuto mostrare, ha in realtà molto da dire e “rivelare”.

Mi piacerebbe poter continuare le ricerche in questa direzione, sperando che il

mio lavoro possa costituire se non un contributo, almeno un tributo a una cultura così affascinante.

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