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d Il racconto e la giustificazione della violenza nelle opere

3. Riflessioni sulla violenza

3.2. d Il racconto e la giustificazione della violenza nelle opere

Quella che segue è una panoramica, una veduta d’insieme delle biografie finora analizzate singolarmente, di modo da far affiorare, laddove sussistono, i tratti comuni riguardanti la narrazione e la legittimazione della tematica della violenza.

Come emerso dalla già ricordata Circolare sull’organizzazione del 1942, Giacomo Buranello è sulla posizione di motivare l’esercizio della violenza come scelta militare, rivoluzionaria e di classe nella lotta del proletariato contro le strutture fasciste. Il

background di Buranello è costituito dal fecondo rapporto

instaurato con il maestro Antonio Rossi, dall’ottenimento di cognizioni sempre più chiare a proposito della sua condizione sociale e dalla rilevanza di studi e letture per la formazione del suo pensiero politico. Questo insieme di componenti è alla base della sua volontà di creare un’«organizzazione illegale preparata in vista dell’azione»49 e di «sacrificare i propri interessi e i propri punti di vista di fronte a quelli della propria classe»50. Malgrado il ruolo riconosciuto alla violenza quale mezzo per l’ottenimento dei fini prefissati, tuttavia, egli mostra una maggiore predilezione per ruoli di tipo dirigenziale, piegandosi, suo malgrado, alla direttiva di farsi gappista e mostrando segni di insofferenza nei confronti di una strada di aggressività e durezza che, tutto sommato, tende a cozzare con la sua sensibilità e la sua natura.

Il percorso di Ilio Barontini, invece, si sviluppa a partire dall’ambito della fabbrica di pipe del padre:

[…] smanioso di uscire dal chiuso della fabbrica, conoscere l’ambiente dove Turildo lo aveva portato. Comincia a bazzicare i socialisti, poi ne diventa assiduo, quindi si iscrive al partito. L’istinto, tutto per quella vocazione nutrita nell’ambiente familiare fra le confessioni del padre, i consensi della madre alle scelte del

49 Circolare sull’organizzazione, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p.

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marito non per soggezione femminile, ma per discendenza di povera gente. Il resto lo fa la strada […]51.

Le convinzioni maturate, le spedizioni punitive delle squadre fasciste, le perquisizioni e gli arresti lo spingono all’emigrazione in Francia e a dedicarsi a tempo pieno alla causa comunista quale rivoluzionario di professione. La violenza, dunque, viene accettata e legittimata da Barontini, secondo un’ottica non dissimile da quella riscontrata in Buranello, in quanto «soldato disciplinato al grande partito rivoluzionario della classe operaia»52, un ruolo di

militanza assoluta che gli costa la «separazione dalle abitudini, dagli affetti tradizionali»53:

Capisco anche i lati sentimentali della mia situazione, la moglie, le figlie abbandonate, impossibilità qualche volta di mandargli degli aiuti, tutto ciò per i cosiddetti benpensanti è biasimevole, ma se nella vita le ragioni affettive devono essere motivo di freno a tutti gli altri doveri […] allora nella vita avverrebbe la stasi, ciò sarebbe molto stupido54.

Le esperienze maturate in Unione Sovietica, in Spagna, in Etiopia e in Francia, sempre assecondando le esigenze di partito, rendono Barontini una figura chiave per lo sviluppo, l’organizzazione e l’addestramento dei primi nuclei gappisti nell’Italia settentrionale.

Anche Giovanni Pesce costituisce l’«emblema del proletario- rivoluzionario di professione, forgiato prima dal duro lavoro manuale nell’emigrazione, e poi da importanti esperienze di combattimento nella guerra civile spagnola»55. Egli afferma che «gli anni passati nei pozzi di carbone, alla Grand Combe, lo avevano indurito e fatto crescere alla svelta»56, oltre a creare in lui un abbozzo di spirito di classe e di coscienza politica, poi ampliatosi, a livello culturale e di consapevolezza, nel periodo del confino a Ventotene. Pesce ha il primo contatto concreto con la

51Barontini e Marchi, Dario, cit., p. 107.

52Bll, Fondo Barontini, Lettere di Ilio alla famiglia, b. 2, Lettera a Cornelia del 20-12-1932.

53Barontini e Marchi, Dario, cit., p. 145.

54Bll, Fondo Barontini, Lettere di Ilio alla famiglia, b. 2, Lettera a Cornelia del 20-12-1932.

55Peli, La Resistenza in Italia, cit., p. 266. 56Pesce, Senza tregua, cit., p. 107.

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violenza in terra spagnola. Si tratta, però, di un’esperienza bellica di diverso tipo, rispetto a quella che egli sostiene come gappista. Uccidere a sangue freddo, infatti, è altra cosa rispetto a ciò che si compie in una guerra tradizionale:

La necessità di infliggere la morte vis-à-vis non è certo esclusiva della guerra partigiana, ma certo ricorre in essa con più frequenza che in una guerra tradizionale. […] difficoltà che un rapporto diretto con una vittima designata fatalmente comporta, senza mediazioni del numero, della distanza, della casualità e dell’incertezza degli esiti […]57.

Nei suoi scritti autobiografici, Pesce avalla, nel modo che segue, il suo utilizzo della violenza in ambito resistenziale:

Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e ad uccidere58.

In questa frase, la responsabilità morale viene fatta ricadere nel campo avversario, la violenza viene giustificata come reazione ad una situazione non più sopportabile cui l’altro, il nemico, ha obbligato. In questo senso, la violenza viene legittimata come «strumento dolorosamente indispensabile di liberazione da quel sistema»59, come «risposta violenta a una situazione di violenza»60:

L’impegno in vista di fini positivi non cancellò mai completamente nella violenza resistenziale il carattere difensivo. La scelta di uccidere veniva dopo, era una conseguenza della scelta fondamentale di contrapporsi alla violenza dell’altro61.

Allo stesso tempo, in Pesce permane l’ideale comunista, politico, rivoluzionario, rivenuto anche in Barontini e Buranello, di «combattere per creare qualcosa di diverso»62. Forse Pesce, nel racconto della violenza e nelle motivazioni addotte, si trova a metà strada tra Barontini e Buranello da una parte, che antepongono le istanze di partito, e Bentivegna, Fiorentini e Romagnoli dall’altra,

57Peli, La Resistenza difficile, cit., p. 114. 58Pesce, Senza tregua, cit., pp. 204-205. 59Peli, La Resistenza in Italia, cit., p. 240.

60Portelli, L’ordine è già stato eseguito, cit., p. 152. 61Pavone, Una guerra civile, cit., p. 445.

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che scrivono principalmente di una violenza «necessariamente perpetrata»63.

In Rosario Bentivegna prevale una legittimazione della violenza come necessità. Egli, di buona condizione sociale, non cresce in un ambiente proletario, ma matura convinzioni antifasciste grazie all’influsso della famiglia, in special modo del secondo marito della madre, alle letture e ad eventi, come la campagna antisemita del 1938, che gli aprono gli occhi a proposito delle deficienze del regime mussoliniano. Pur partendo da posizioni pacifiste e nonviolente, Bentivegna, si potrebbe dire quasi sorprendentemente viste le premesse, approda al gappismo:

Ero stato educato, dai miei, contro la violenza e nell’amore per gli uomini. […] Avevo scelto la professione di medico, anzi, proprio perché la mia speranza era di contribuire a salvare vite umane, non a distruggerle, e, ove fossi stato condotto a una guerra, come medico, su qualsiasi campo di battaglia, la mia opera, prestata ad amici o nemici, sarebbe valsa a contenere i danni della violenza. Questa guerra fascista mi aveva costretto a uccidere64.

La sua giustificazione riguardo all’utilizzo della violenza sta nella convinzione, nella «coscienza di “essere nel giusto”»65 e nella rivendicazione di un’«estraneità di fondo ai valori della violenza e della morte che però, in quel momento, si poneva necessaria»66, riversando le colpe, come fatto da Pesce, nell’altro campo. Per i resistenti, dunque, l’affermazione del carattere difensivo della lotta, come reazione alla violenza voluta da altri, ha un «valore di garanzia morale»67:

Mi domandavo mille volte se un uomo aveva il diritto di colpire un altro uomo. A una domanda così semplicistica mi rispondevo mille volte di no. Ma la mia guerra era legittima, e soprattutto non l’avevo voluta io, né gli uomini dalla mia parte. Eravamo stati travolti da un mare di violenza, cercavamo di difenderci da essa e di salvare quanto più fosse possibile dallo sfacelo68.

63Lusuardi, Gappisti di pianura, cit. p. 12. 64Bentivegna, Achtung Banditen! , cit., p. 112.

65Bentivegna, Senza fare di necessità virtù, cit., p. 109. 66Ibid., p. 95.

67Pavone, Una guerra civile, cit., p. 447. 68Bentivegna, Achtung Banditen! , cit., p. 110.

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Dagli scritti di Bentivegna traspare «l’angoscia della costrizione a dare la morte»69, il dolore che egli stesso prova nel trasformarsi in giustiziere:

La guerra fatta sul serio la porti dentro come una sporcizia, per sempre. […] non c’è mai stata un’azione in cui, prima, non avessi provato paura; e, dopo, nausea, voglia di vomitare. Tutte le volte che ho dovuto sparare ho avuto voglia di tirarmi indietro. Perché affrontarsi uomo a uomo è duro, ed è inutile dirsi: “è un tedesco” o “è un fascista”; in colui che avevo davanti, anche se era il nemico, non potevo fare a meno di ritrovare parte della mia umanità, di riconoscere un uomo. […] Per questo, ogni volta che ho dovuto sparare, è stata una pena. E ne sono rimasto sconvolto, sempre. Perché quando estrai l’arma sei scoperto; sei nudo. E tirarla fuori per colpire è davvero ripugnante. Non era però solo paura quella che provavo; forse si può dire che fosse anche dolore70.

Quanto costi il dare la morte, in termini di sofferenza, di «dolore soppresso»71, emerge anche in Renato Romagnoli:

È indubbio che l’uomo deve farsi una ragione per sormontare il travaglio che l’atto di uccidere comporta ma non sempre gli riesce: dover sparare è qualcosa che rompe con noi stessi, con le nostre più intime convinzioni. […] E se è difficile quando si spara in tanti, contro un obbiettivo non bene precisato o quando si colloca la bomba che non si sa quali effetti sortirà è invece impossibile descrivere quanto pesi e si soffra doverlo fare a sangue freddo contro un nemico prestabilito, è un’angoscia, un tormento che si rinnova ogni volta e lascia tracce indelebili dentro72.

Anche l’esperienza della paura rappresenta una tematica che ricorre nelle autobiografie prese in esame. A tal proposito, Romagnoli sviscera la questione in modo approfondito:

Il concetto di paura è naturale nell’uomo. […] si ha il diritto di avere paura perché un giovane che si aspetta tanto dalla vita, che ha progetti, programmi, sogni da realizzare, non può pensare alla morte con indifferenza e in guerra la morte è la prospettiva naturale. […] Nella Resistenza non è che si facesse professione di paura ma era maggiormente considerato chi valutava serenamente e obiettivamente ostacoli, difficoltà e pericoli, rispetto a coloro che davano dimostrazione gratuita di estremo coraggio, che spesso era solo incoscienza. […] In un certo senso era più naturale avere fiducia e comprensione in chi ammetteva apertamente la propria paura ma non si tirava indietro, rispetto a quelli che ostentavano di non temere niente e nessuno, perché in questi casi, rari fortunatamente, si cadeva nella faciloneria e si finiva per sbagliare

69Peli, La Resistenza difficile, cit., p. 112.

70Bentivegna, Senza fare di necessità virtù, cit., p. 97. 71Portelli, L’ordine è già stato eseguito, cit., p. 165.

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e gli errori si pagavano duramente in proprio e non solo. […] La paura c’era soprattutto prima d’intraprendere una determinata decisione o impresa, nel momento in cui affrontavo i termini per portare a conclusione un incarico, quando si trattava di uscire per cominciare a svolgere il compito assegnato e i piedi sembravano di piombo73.

Questa dichiarazione di Romagnoli, critica verso gli eccessi di spavalderia e temerarietà, presenta analogie con un’altra affermazione, scaturita a proposito del contesto di guerra francese, ma da ritenersi valida universalmente:

Molti ufficiali credono erroneamente che i più bravi soldati si trovino fra i violenti, gli avventurosi o i teppisti. Io, al contrario, ho sempre notato che i tipi brutali resistono male a qualsiasi pericolo un po’prolungato74.

La paura, dunque, trattandosi di un denominatore comune a chiunque affronti situazioni di pericolo o di guerra, non è vista come un disvalore in sé. La dote decisiva, per chi intraprende la via del partigiano o del gappista, viene individuata nella «capacità di dominarla»75. Il vero coraggio viene identificato con il «vincere la paura che afferrava alla gola prima dell’azione»76, con il «riconoscere che si ha paura ma non ci si tira indietro»77.

Più pragmatico, nelle sue dichiarazioni ex post, risulta Mario Fiorentini, ebreo di famiglia borghese, che sostiene di esser stato inevitabilmente portato a fare delle scelte che, in quel momento, si è, intimamente, sentito quasi obbligato a prendere, pur conscio del fatto che «data la situazione, bisognava fare anche un certo tipo di guerra»78:

Sbaglia chi pensa che fossimo eroi, sia chi pensa che fossimo violenti bombaroli: la verità è che sapevamo commuoverci e anche piangere, ma la storia ci aveva messo nella condizione di avere una sola scelta, quella di combattere contro la barbarie nazifascista79.

73Ibid., pp. 99-100.

74Marc Bloch, La strana disfatta. Con gli scritti della clandestinità 1942- 1944, Res Gestae, Milano 2014, pp. 107-108.

75Peli, Storie di Gap, cit., p. 48.

76Giannantoni e Paolucci, Giovanni Pesce “Visone” un comunista che ha fatto l’Italia, cit., p. 114.

77Romagnoli, Gappista, cit., p. 80.

78Grimaldi, Soda e Garasi (a cura di), Partigiani a Roma, cit., p. 36. 79Fiorentini, Sette mesi di guerriglia urbana, cit., p. 65.

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Franco Calamandrei, invece, cerca «attraverso la guerra la via di un riscatto personale»80. La sua lotta armata è, prima di tutto, conseguenza di un’esigenza individuale rispondente al «bisogno ansioso ed elementare di attivismo come certezza pratica di partecipazione civile e patriottica, di scelta netta del giusto contro l’ingiusto»81.

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