3. Riflessioni sulla violenza
3.1 La scelta
Alla base delle azioni di guerriglia compiute da gappisti e partigiani tra il settembre del 1943 e il maggio del 1945 vi è, innanzitutto, la scelta resistenziale. Essa è precondizione della disponibilità individuale all’uso della violenza. La scelta, intesa come «atto di disobbedienza»1 verso chi ha la forza di farsi obbedire, è premessa di quella ulteriore di impugnare le armi.
Sono il vuoto istituzionale creatosi a partire dall’8 settembre 1943, con la perdita di credibilità da parte delle preesistenti strutture statali che fino a quel momento erano state detentrici della legalità, e il riempimento forzoso di quel vuoto da parte di un diverso sistema di autorità, a costituire il contesto in cui, per una parte della popolazione italiana, diviene indilazionabile scegliere in prima persona «fra una disobbedienza dai prezzi sempre più alti e le lusinghe della pur tetra normalizzazione nazifascista»2:
Le date topiche, come l’8 settembre e il 25 luglio, esistono per davvero ma esse non possono essere sovrapposte in modo meccanico a quelle delle decisioni dei singoli: restare, scappare, nascondersi, andare con gli uno o con gli altri o […] decidere che la misura è colma. Queste infatti non hanno il giorno sul calendario e in qualche modo hanno a che fare con quello che ognuno di noi ha già vissuto3.
È quindi l’8 settembre, unitamente alle sue conseguenze, a fare da catalizzatore, da avvenimento che esercita un decisivo influsso per una linea di condotta di cui già esistono le necessarie premesse. Esso porta, per quel che concerne gli organismi di vertice, a un’accelerazione dei tempi in cui avviene la costituzione del CLN e nei quali si decide di dare avvio alla lotta armata contro l’occupante tedesco e il suo collaboratore fascista repubblicano. Parimenti, ciò avviene per gli individui, portati a valutare la possibilità di entrare
1Pavone, Una guerra civile, cit., p. 25. 2Ivi.
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in clandestinità in alternativa a quella di rispondere
affermativamente ai bandi di leva della RSI. Gli avvisi di chiamata alle armi, infatti, creando «una situazione senza uscita»4, costringono migliaia di soggetti e famiglie a interrogarsi sulla posizione da prendere e rappresentano una «spinta importantissima per indurre tanti indecisi a scegliere la via della montagna»5. In questo senso, diserzione e renitenza costituiscono «il primo fondamentale gesto di resistenza, la ribellione alla imposizione, alla autorità, al senso comune»6:
Fino al giorno prima a decidere per tutti c’era lo stato; dopo l’8 settembre tutto diverso. Ognuno, individualmente, era stato chiamato a decidere su come comportarsi di fronte ai bandi, difendersi dai bombardamenti, sbarcare il lunario, non farsi spedire in Germania7.
Nella scelta di campo di ogni persona gioca un ruolo primario la varietà di motivazioni individuali, rimaste fino a quel momento più o meno latenti, che il contesto generatosi dopo l’armistizio di Cassibile fa emergere in modo netto:
[…] insopportabilità di un mondo divenuto teatro di ferocia; ribellione contro i soprusi remoti e vicini […] istinto di autodifesa; desiderio di vendicare un congiunto caduto; spirito di avventura; amore del rischio e insieme non piena cognizione di esso; tradizioni familiari; antifascismo di vecchia o di nuova data; amor di patria; odio di classe. Queste motivazioni, di diverso spessore culturale, si intrecciano spesso l’una con l’altra […]8.
Le numerose testimonianze partigiane sul fatto che «spesso sono gli eventi più casuali ad avere un peso notevole sulla nostra vita»9, inducono a non tralasciare le «sottili contiguità»10, «quanto di comune, specie a un livello di cultura profonda e di lunga durata, operava anche in coloro che esercitarono scelte opposte»11 e, come visto a proposito di alcune biografie nel capitolo precedente, quanta
4Ibid., p. 221.
5Zingoni, La lunga strada, cit., p. 84. 6Calegari, La sega di Hitler, cit., p. 17. 7Ibid., p. 190.
8Pavone, Una guerra civile, cit., p. 31. 9Calegari, La sega di Hitler, cit., pp. 60-61. 10Lusuardi, Gappisti di pianura, cit., p. 11. 11Pavone, Una guerra civile, cit., p. 35.
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importanza, a lungo termine, possa aver rivestito «un incontro casuale con la persona giusta o con la persona sbagliata»12:
Consideravo i fascisti nemici, ma vedevo in loro anche uomini che una diversa serie di eventi avrebbero potuto portare nel mio campo, al mio fianco […]13.
Partendo dal presupposto che figure emblematiche come quelle di Ilio Barontini o Giovanni Pesce, per via della straordinarietà delle loro esperienze e dei loro percorsi, rappresentino l’eccezione e non la norma, si può affermare che, tra l’interpretazione del «partigianato come uno sviluppo dell’antifascismo tradizionale»14 e quella della «rappresentazione antieroica del partigianato, l’essere quella scelta spesso dettata più da un rifiuto o da una somma di casi che da una precisa vocazione»15, sia la seconda a risultare più
attinente a buona parte dei resistenti:
Il rifiuto di combattere per Hitler e per Mussolini, non coincide necessariamente con una scelta consapevolmente antifascista, anche se a volte sfocia nell’adesione a una banda partigiana. […] la tendenza a far coincidere la resistenza armata con una scelta consapevolmente e fin dall’inizio antifascista ha contribuito a confinare a lungo, nel limbo dei fenomeni prepolitici e marginali, comportamenti diffusi quali la renitenza e la diserzione, tanto importanti quanto, in sé, poco «virtuosi» e scarsamente adatti all’inclusione in un glorioso paradigma guerriero16.
Solo gradualmente la piccola guerra divenne per molti partigiani la continuazione d’una guerra più antica, civile e di classe, prima sconosciuta. […] erano diventati comunisti solo “dopo”. La loro montagna non era stata la destinazione voluta dal partito ma più spesso un ricovero, luogo per sottrarsi o difendersi prima che attaccare17.
«Togliere enfasi alla scelta iniziale»18 non significa, comunque,
una svalutazione dell’attività combattentistica resistenziale. Difatti, la scelta di opporsi non va vista come un qualcosa di acquisito per sempre, che, da quel momento, guida l’individuo in modo inesorabile e costante, ma come un processo che necessita di un
12Ibid., p. 33.
13Bentivegna, Senza fare di necessità virtù, cit., p. 233. 14Calegari, La sega di Hitler, cit., p. 18.
15Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 535. 16Peli, La Resistenza in Italia, cit., pp. 225-228. 17Ibid., pp. 523-524.
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continuo rinnovamento, nell’intimo di ognuno, man mano che, con il passare dei mesi, le condizioni di vita e di lotta diventano sempre più estreme:
[…] quanti giorni decisivi, quante scelte. Non si poteva farle discendere tutte da quella iniziale. […] C’era stato chi era tornato a casa dopo pochi giorni e chi, scampato all’eccidio seguito al rastrellamento, era passato col nemico e si era presentato al distretto chiedendo scusa per il ritardo. E chi […] era entrato in una squadra gappista fino a quando, scoperto, era di nuovo salito in montagna […]19.
[…] per essere lì non bastava aver scelto una volta sola. […] La patente di partigiano non era la patente di guida che superato l’esame ti viene data per sempre o quasi. Piuttosto una scelta, un legame che si rinnovava sul campo20.
Il soffermarsi sull’«importanza del caso che non aveva suggerito agli altri di fare lo stesso»21, sulle «occasioni»22 e sugli accadimenti personali non vuole, allo stesso modo, sottostimare la rilevanza avuta dalle organizzazioni di partito nell’attrarre parte di quella massa di disobbedienti. Tali organismi, infatti, costituiscono significativi «supporti»23 che, spesso, producono nei resistenti una più efficace presa di coscienza degli eventi e l’acquisizione di una maggiore consapevolezza politica:
Poi c’era quell’antifascismo che potremmo chiamare spontaneo, nei giovani intellettuali e nelle masse non politicamente organizzate, malcontente per i disagi causati dalla guerra voluta dal fascismo. […] Molti ovviamente sono andati in montagna per non lasciarsi prendere dai tedeschi, non per combattere. […] Era una situazione grave, difficile; comprensibile, quindi questa fuga, questo voler sottrarsi alla persecuzione. […] È da ritenere, perciò, molto discutibile l’esattezza dell’affermazione, che spesso, ricorre, che la guerra di Liberazione fu un moto popolare spontaneo. A mio avviso, lo è stato solo in piccola misura. Più esatto sarebbe dire che la Resistenza, la guerra di Liberazione sono nate dalla tradizione antifascista, dalla cospirazione e dall’attività dei partiti antifascisti. Stabilire i collegamenti per organizzare meglio, rifornire di uomini, viveri, indumenti e armi i gruppi […] educare gli uomini, sviluppare tra di essi uno spirito di lotta e una coscienza sociale e politica; portare subito, decisamente la
19Calegari, La sega di Hitler, cit., p. 23. 20Ibid., pp. 113-114.
21Ibid., p. 65.
22Bentivegna e Mazzantini, C’eravamo tanto odiati, cit., p. 267. 23Calegari, La sega di Hitler, cit., p. 17.
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guerriglia nelle città, questo fu l’assillo dei dirigenti antifascisti incaricati di dirigere la lotta, il lavoro militare24.