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Ragioni della fine: per una retorica della clôture

2. Da orizzonti diversi: tutte le facce della clôture

Considerato per molto tempo luogo di ordine e di stabilità oltre che di frontiera tra due mondi possibili, il reale e quello fittizio, all’explicit si attribuiscono funzioni ermeneutiche complesse veicolate anche da una certa tipizzazione di genere, come sostiene Hamon, che parla di ritualizzazione dei processi clausulari100 determinanti la leggibilità del testo in rapporto ai suoi modelli. Ponendosi in termini di storia letteraria il problema della demarcazione forte dell’uscita dal testo, Hamon riconosce opportunamente al naturalismo una sorta di primato nel processo di svalutazione del finale accentuato. Ci sono generi o scuole letterarie che privilegiano la conformità ai modelli e si inseriscono in una tradizione forte e, proprio perciò, accentuano decisamente anche i processi retorici di uscita dal testo. Hamon pensa al teatro e rimanda specificamente all’intero e vasto apparato di strategie conclusive proprie del genere: happy ending, deus ex machina, anagnorisis, etc., ma altrettanto legittimo sarebbe rinviare alla struttura tradizionalmente chiusa del genere epico e ai suoi moduli conclusivi: morte o conversione del nemico, conquista della città; o, ancor meglio ai

100 P. Hamon, Clausules, cit., ma si veda anche H. Bonheim che parla di closing topoi in The Narrative Modes. Techniques of the Short Story, Cambridge, D.S. Brewer, 1986, p. 40.

topoi conclusivi delle fiabe, con trasformazioni, ricompense e punizioni101. La rivendicazione di una maggiore autenticità e vicinanza al reale, tuttavia, comporta la banalizzazione delle soglie d’accesso e di tutti i momenti di consapevolezza del testo:

« A cet égard l’école naturaliste-réaliste, avec sa théorie de la « tranche de vie », ou de « l’œuvre– fenêtre » ou de « l’œuvre-miroir » a, sans doute, fortement contribué, au sein du genre narratif en prose, à vulgariser des types de fins désaccentuées : fins rapides, neutres, « blanches », fates de détails hors structure », fins sur des phrases « plates », fins en mineurs, fins où ne coïncident pas explicitation maximum, densité sémantique, et signaux stéréotypés, fins qui se présentent comme un simple « arrêt » dans un continuum amorphe et incohérent (la vie de tous les jours) »102.

L’obiettivo è dunque chiaro: sottrarre il lettore alla guida accorta del narratore onnisciente e giudicante. Ricollocarlo in posizione di forza, metterlo in condizione di ricostruire autonomamente il testo e tornare ad assumersi la responsabilità del senso. Restituire al lettore il potere ermeneutico, in una fruizione straniata e responsabilizzante

inscritta nel testo e mimetica della realtà fuori dal testo. La rivendicazione di un

progetto contraddittoriamente anti-pedagogico passa proprio per la rinuncia all’explicit romanzesco e forte, bandisce finali con morti e matrimoni e punta alla chiusa di tono sbiadito..

Queste almeno le intenzioni, gli obiettivi che la teoria di quegli anni andava delineando e che prendevano forma nelle dichiarazioni programmatiche delle préfaces ai romanzi. Ciò che avviene nella realtà concreta di ciascuna opera è però sostanzialmente diverso, a riprova di un’autonomia del testo mai abbastanza affermata. E questo anche perché, bisogna pur dirlo, non necessariamente vale un automatismo tra scelte di tecnica e scelte di poetica. Non solo, infatti, fino alle soglie dell’Ottocento la voce d’autore può essere riconosciuta come presenza positiva e godibile (da Cervantes, a Fielding) ma, addirittura, anche un narratore onnisciente e autoritario per eccellenza, quale fu Balzac, può convivere con chiuse blande e sospese. Fatto implicito già nel ritorno dei personaggi da un romanzo all’altro – si pensi a Lucien che, sottratto al suicidio alla fine di Illusions perdues (1837-43) anticipa ciò che accadrà in futuro – ma perfino esibite dall’autore come necessità del realismo. Nell’epilogo alle prime edizioni

101 Per un approccio tipologico alla clôture narrativa nel romanzo pastorale, nella fiaba e nella novella si

veda: Le dénoument romanesque du XII au XVIII siècle, Ed. par C. Piau-Gillot, Septième colloqe international SATOR, (soc. Analyse de la topique romanesque), Paris-Orsay, 1993.

di Eugénie Grandet, poi soppresso nell’edizione finale, a poche righe dalla chiusa si legge:

«Ce dénouement trompe nécessairement la curiosité. Peut-être en est-il de tous les dénouement vrais. Les tragédies, les drames, pour parler le langage de ce temps, sont rares dans la nature.»103

Dove la curiosità del lettore – quella stessa di cui parlerà Maupassant- è spezzata e resta inappagata da una chiusa che è già in sordina. A vagliare i testi, però, si scopre che l’apertura non è affatto la norma adottata dal genere nel secondo Ottocento e che si registra un’affezione radicata per le conclusioni forti e significanti; che il romanzo non si sottrae davvero alla surdeterminazione di quei luoghi-soglia che sono inizio e fine; che molto più spesso di quanto la teoria andasse pianificando questi luoghi conservano lo statuto di sedi stabili per figure perspicue e significati definitivi, di spazi in cui un narratore giudicante riesce ancora ad appiattarsi.

Tanto per limitare l’osservazione al solo Zola, ad esempio, su venti romanzi del ciclo, per ben tredici volte il testo inserisce nell’ultima pagina una scena cimiteriale (6 testi in totale) o, più in generale, a un’immagine di morte104, segno della radicata fiducia nella forza modellizzante della fine: la morte impone un ordine significante nel percorso di una vita, così diventa motivo irrinunciabile nell’organizzazione del plot (“Fort

comme la mort” potrebbe essere il motto preso a prestito a Maupassant). In questo

senso, nel manifesto bisogno di dare un assetto stabile, di chiudere nella completezza di un percorso, Zola – a dispetto di ogni dichiarazione teorica – resta nella retroguardia. O meglio, gioca sporco, perché s’inventa una struttura bipartita che diventerà tratto riconoscibile dell’intero ciclo: l’associazione del tema funebre con un motivo di valenza opposta. In 9 casi su 13 la scena di morte finale è immediatamente seguita o affiancata da un elemento vitalistico o di apertura al futuro, così alla sepoltura di Albine segue la nascita del vitellino (La faute de l’Abbé Mouret), alla sepoltura di Jeanne la partenza dei Rambaud (Une page d’amour), all’immagine del corpo osceno di Naná l’esortazione

103 H. de Balzac, Epilogue des Premières Editions, Eugénie Grandet, in La Comédie humaine, vol. III,

Paris, Gallimard, 1976, p.1201. Un finale notevolissimo in questo senso è quello che chiude Sarrasine, «la Marquise demeura pensive». Sui finali in Balzac cfr. A. Kotin Mortimer, Problems of Closure in

Balzac’s Stories, «French Forum», 1985, vol. 10, n. 1, pp. 20-39; D. A. Miller, Balzac’s Illusions Lost and Found, in Yale French Studies, n. 67, 1984, Conceps of Closure, 164-181.

104 In La fortune des Rougon ; La Curée ; La conquête de Plassans ; La faute de l’Abbé Mouret ; L’Assommoir ; Une page d’amour ; Naná ; La joie de vivre ; L’œuvre ; La Terre ; Le rêve ; La bête humaine ; La débalce.

alla conquista di Berlino (Naná), alla distruzione la marcia verso il futuro (non solo della locomotiva impazzita ne La Bête humaine, ma anche dell’energia «de toute une France à refaire», ne La Débacle), passando per la banalizzazione dell’evento morte stesso (La joie de vivre; L’oeuvre), l’identificazione totale dei due poli opposti (Le

rêve), fino alla metafora esplicita della terra che custodisce i morti e fa germogliare il

grano della vita (La Terre). Zola tende sempre più costantemente a identificare la rinuncia a un finale forte con la pratica di una coabitazione ultima di motivi conclusivi e motivi inaugurali. Di conseguenza, pochissimi sono i romanzi che si chiudono in una decisa apertura sul futuro (l’attesa del matrimonio in Au bonheur des dames; la partenza nell’alba piena di promesse di Gérminal; la nuova vita che cresce in Le Docteur

Pascal). Zola, insomma, non agisce sulle strutture profonde del testo, non opera a

scardinarne il significato stabile, si ‘limita’ invece ad agire sul piano più superficiale, affiancando la rappresentazione del continuo fluire della vita all’immagine di compimento conclusivo e significante che arresta ogni ulteriore slancio: la furbizia è un fatto di dispositio e sta nel posizionare la morte leggermente più indietro rispetto alla soglia d’uscita, a farla ricadere su un personaggio secondario oppure a farla stemperare dalla battuta comica. La signature dell’artefice è precisamente in questo monito che – forse troppo meccanicamente – irrompe a ricordare la precarietà di ogni conclusione. Zola si specializza a tal punto in questa formula che arriva a farne quasi un marchio di fabbrica, esasperandone il principio: la frizione tra stasi imposta dalla morte e flusso vitale si risolve sempre più spesso nel contrapporre alla scena cimiteriale un chiacchiericcio anodino, quando non una singola battuta banalizzante. A cominciare da quell’urlo che annuncia la nascita del vitellino e che sembra rivolto a un personaggio ormai oltre la cornice che limita il plot e si colloca piuttosto dentro il quotidiano fuori dal testo che ingloba anche il lettore:

«Serge! Serge! Cria-t-elle plus fort, en tapant des mains, la vache a fait un veau!»105.

Nella stessa direzione aprono le futili preoccupazioni di Madame e Monsieur Rambaud, mentre lasciano sotto la neve il cimitero in cui è sepolta Jeanne (Une page

d’amour):

«- Je suis sûr que tu as oublié les cannes à pêche!

- Oh ! absolument ! cria-t-elle, surprise et fâchée de son manque de mémoire. Nous aurions du les prendre hier.

(…) Jeanne, morte, restait seule en face de Paris, à jamais.»106

Così basta il grido «A Berlin! A Berlin! » a mettere fine all’orripilante descrizione del cadavere di Naná e alludere al battagliero incalzare del futuro.

La riduzione ai minimi termini del polo ‘vitalistico’ produce effetti di realtà sempre più bruschi, così il suicidio di Véronique è siglato dalla battuta cinica e senza riguardo (La joie de vivre):

«-Faut-il etre bete pour se tuer!»107

Mentre ne L’oeuvre, alla solita ambientazione cimiteriale, questa volta particolarmente macabra - le bianche tombe dei bambini, il falò di vecchie bare marce – segue la più quotidiana delle constatazioni:

« “Fichtre! Onze heures! Dit Bongrand en tirant sa montre. Il faut que je rentre.” Sandoz eut une exclamation de surprise. “Comment! Dèjà onze heures!” Il promena sur les sépultures basses, sur le vaste champ fleuri de perles, si régulier et si froid, un long regard de désespoir, encore aveuglé de larmes. Puis il ajouta : Allons travailler.»108

Che ore sono? Tempo di tornare alla realtà, di andare al lavoro! Una soluzione- cerniera particolarmente felice, mi pare, per il fatto che la naturale uscita dal mondo della fictio e il naturale ritorno alla realtà fuori dal testo, con il discreto coinvolgimento del lettore, alludono precisamente al fatto che nemmeno la morte ferma e chiude il continuo flusso della vita. Resta che di quella morte c’è bisogno per marcare, almeno temporaneamente, un significato.

Il motivo conclusivo per eccellenza, la morte e le sue declinazioni, continua ad imporsi e, anche quando è stemperato da una frase quotidiana e banalizzante, come avviene nei finali ‘doppi’, non di meno impone una certa dose di stabilità sul piano ermeneutico. Altrettanto succede nei tre casi di chiusa aperta che si limitano a mutare di segno il senso (dal negativo al positivo109). Il corpus zoliano è rilevantissimo sotto questo aspetto, perché nonostante ciascun testo costituisca l’elemento di un ciclo più

106 E. Zola, Une page d’amour, in Les Rougon-Macquart , cit., 1961, t. II, p. 1092. 107 E. Zola, La joie de vivre, in Les Rougon-Macquart, cit., 1964, t. III, p. 1130. 108 E. Zola, L’œuvre, in Les Rougon-Macquart, cit., 1966, t. IV, p. 363.

vasto, pure, la maggior parte di essi si affida a un finale forte – non importa se di segno negativo o positivo - e quei finali doppi, in cui un’ultima battuta si aggiunge e stempera la solennità della chiusa, non si potrebbero dire irrisolti, piuttosto sdrammatizzati. La battuta che registra il quotidiano: è l’ovvietà di queste sentenze a fine romanzo che garantisce il passaggio da un romanzo all’altro e l’uscita dal singolo testo. La stabilità ermeneutica e una certa solennità della chiusa tematica non vengono globalmente messe in discussione110. Anzi, sulla scorta dell’intervento di Anne Belgrand111, non c’è dubbio che si possa riconoscere all’interno del ciclo un percorso dal “tutto chiuso” all’apertura come risposta definitiva e perciò stabile di significato112. L’opposizione tra forze vitali e pulsioni di morte si risolvono nettamente nei primi romanzi – ne La fortune des Rougon eminentemente – con il trionfo del secondo polo sul primo. Con il procedere dell’indagine storico-genealogica si afferma la simultaneità delle due conclusioni (risolta di fatto, nella maggior parte dei romanzi, con l’aggiunta della battuta quotidiana e banalizzante a un finale più solenne113): Pot Bouille si colloca come il turning point di questo percorso in cui lo straniero (colui che immette un punto di vista altro nel mondo in cui si inserisce) non viene più estromesso, schiacciato (Silvère fucilato alla fine del romanzo incipitario) ma vi impone un principio dinamico di trasformazione ancora in

fieri quando cala il sipario. D’ora in avanti, tutti i successivi romanzi del ciclo, mettendo

l’una affianco dell’altra le due soluzioni (quella chiusa, della morte e quella aperta dello squarcio sul quotidiano), procederanno all’affermazione di quel principio vitalistico che sigla il senso di tutta l’Opera, che ogni morte chiama alla vita, che ogni fine preannuncia una nascita. Entro questo percorso, dunque, la ricerca di una lettura stabile del mondo subisce un’evoluzione dal negativo al positivo ma non conosce di fatto momenti di radicale instabilità, di dubbio circa la naturale (e scientifica) interpretabilità del mondo: il protagonista di Pot Bouille, Octave Mouret, esce dal romanzo già fuori

110 Si tratta, a ben vedere, dello stesso approccio all’explicit che Zola esprimeva nella entusiastica lettura

de Les soeurs Vatard. Cfr. supra.

111 A. Belgrand, Les dénouements dans «Les Rougon-Macquart», « Romantisme », vol. 18, 61, 1988, pp.

85-94.

112 Belgrand parla di «ambition d’apporter une réponse définitive (…) progression vers l’espoir», cit., p.

93.

113 Belgrand non dà, mi pare, sufficiente rilievo a questo aspetto formale della questione – che tende,

come ho già detto, al meccanismo ben rodato - e, tuttavia, ammette che talvolta si può avere l’impressione «d’un laborieux effort pour corriger l’excès de pessimisme à tout prix, pour trouver un équilibre que peut- être, spontanément, l’œuvre ne demandait pas.», cit., p. 90.

dalla crisi, proteso in avanti a investire positivamente e altrove le proprie energie creative.

L’apertura zoliana è insomma ben lontana dalla tragica rinuncia alla conclusione di Flaubert.

Le considerazioni fatte sul corpus dei Rougon-Macquart hanno messo in luce l’urgenza di una migliore articolazione della problematica, innanzitutto per un fatto di coerenza linguistica: bisogna chiarire cosa si intende per ‘apertura’ e ‘chiusura’; di conseguenza bisogna fare ricorso a un vocabolario più ampio quando queste definizioni non sono sufficienti a descrivere il fenomeno che stiamo analizzando (perciò in via provvisoria abbiamo appena parlato di finali doppi o sospesi).

In verità, non tutte le proposte metodologiche che, a partire dagli anni Settanta ad oggi hanno tentato di affrontare la questione, si sono poste dentro un orizzonte ampio (clôture come processo, come architettura del testo) e ciascuna ha risposto diversamente alla domanda circa cosa è necessario affinché un testo narrativo venga percepito come saturo e perciò concluso. L’intento di formalizzazione ha trovato un suo esito rigoroso con il saggio di Guy Larroux, Le mot de la fin114, sulla cui proposta torneremo più avanti e che ha gettato le basi per una descrizione tassonomica dell’oggetto in questione, ampliando il discrimine già aristotelico tra scioglimento e fine allo scopo di portare alla luce problemi di delimitazione e organizzazione interna del processo conclusivo.

Altri studi hanno invece lavorato a partire dalla distinzione genettiana tra piano del racconto (la determinante narrativa) e piano della storia (la determinate tematica).

Michel Arrivé, proprio a partire da questa bivalenza, ha ricondotto la percezione dell'effetto ‘aperto’ alla non obbligatorietà della corrispondenza tra discorso e racconto. Secondo il suo modello sono possibili quattro combinazioni:

A. discorso chiuso-racconto chiuso: romanzo poliziesco classico; tragedia classica. B. discorso chiuso-racconto aperto: cicli di romanzi con ritorno di personaggi; cronache storiche.

C. discorso aperto-racconto aperto: romanzi tipo nouveau roman.

D. discorso aperto-racconto chiuso: è il caso di più difficile definizione, dipendente da un segno esplicito di non-chiusura del discorso. 115

114 G. Larroux, Le mot de la fin, Paris, Nathan, 1995.

115 Lo stesso Arrivé non è chiarissimo su quest’ultimo punto, cfr. La sémiotique littéraire, in Sémiotique: l’école de Paris, textes réunis par J.-C. Coquet, Paris, Hachette, 1982, pp. 132-133.

Arrivé imposta correttamente il problema ma non spinge la riflessione fino a un’analisi sulle strutture che determinano i quattro tipi delineati. Si limita, così, a constatare la differenza tra le situazioni ‘ibride’ e le situazioni ‘pure’ - quella del tutto chiusa, il tipo A, in cui la saturazione del discorso è contestuale a uno scioglimento narrativo, e quella del tutto aperta, il tipo C, in cui apertura formale e narrativa coincidono perfettamente.

Il modello D secondo Arrivé sarebbe molto raro, se ben ‘ritagliato’ rispetto agli atri, tuttavia, si mostrerà il più rilevante per la tipologia della chiusa naturalista che si sta cercando di delineare116.

A partire dalla stessa distinzione tra récit e histoire il lavoro di Ugo Dionne, lavorando su un corpus di un migliaio di romanzi, ha preso in esame non l’ultima pagina del testo quanto le ‘singole ultime pagine’ del testo, ovvero tutte le interruzioni interne, quelle legate ai capitoli, ai bianchi di pagina, alla ponctuation etc. Ne ha evinto un modello che può avere una sua applicabilità anche alla conclusione che perciò è utile sintetizzare.

Sul piano a determinante narrativa distingue:

- commento editoriale: commento esibizionista di diversa intensità, dalla frase che glossa o che fa la lezione, all’anticipazione; oppure l’autorappresentazione del narratore ai margini del testo;

- passaggio di regime discorsivo, di modo: dal racconto al discorso;

- processi cloturants idiosincratici: ricapitolazioni, sovrapposizioni; allocuzioni (al lettore, al pubblico etc.) rimandi ad altri capitoli, domande retoriche, onomatopee, rottura di tono che crea un effetto conclusivo.

Sul piano a determinante tematica Dionne evidenzia quei topoi propriamente detti che riflettono metonimicamente o metaforicamente lo scivolamento verso la chiusura: - sospensione di coscienza (sonno, svenimento, ma anche morte con i riti che la accompagnano e socialmente la significano – funerali, epitaffi etc);

- trasformazione, passaggio da uno stato all’altro: cambiamento di maestro o professione nei romanzi picareschi, metamorfosi nei romanzi fantastici o filosofici,

116 Proprio perchè il romanzo naturalista identifica l’apertura con la sola apertura sul piano del discorso,

non rinunciando a modelli epistemolgici chiusi (valga ancora l’esempio de Les Sœurs Vatard, ma, anche, come si vedrà più avanti, molti dei romanzi del ciclo zoliano)

cambiamento di proprietario nei racconti di animali, promozione, cambio di casa e spostamento in generale…;

- frattura di tipo scenico: dal teatro entrata e uscita di personaggi;

- topoi inaugurali che metaforicamente annunciano il prossimo capitolo: arrivo, ascesa

al potere, nascita, introduzione di un nuovo personaggio;

- topoi che metaforicamente incarnano la suspense del testo, che si interrompe:

personaggio che si ferma a riflettere, o fine simbolica di qualcosa: di un’assemblea, di una cena etc;

- interruzione “pudica”: evento lasciato intendere al lettore ma che il buon gusto o le buone maniere impediscono di raccontare;

- eventi sociali e religiosi;

- topoi non conclusivi in senso proprio – e per questo infiniti – che rilanciano il testo:

rapimenti, condanne a morte, minacce, naufragi, e in generale motivi melodrammatici. Dionne non nega la difficoltà di teorizzare topoi di rottura, soprattutto per il fatto che essi sono e diventano tali proprio in ragione della loro posizione. La fine di capitolo deve assolvere a funzioni specifiche: ricapitolazione, proiezione in avanti, accumulo di informazioni, rilancio dell’azione. Così avviene che il luogo fisico occupato e il contenuto semantico si determinano mutuamente.

Queste stesse considerazioni sono applicabili al segmento finale tout court le cui funzioni, come si dirà tra non molto, sono state riconosciute e classificate ampiamente già dalla retorica antica. E a ben vedere il fatto che a determinare il significato di questo fondamentale passaggio narrativo è lo spazio stesso che occupa nella geografia del testo, comporta alcune rilevanti conseguenze:

- non ci sono motivi che non possano farsi conclusivi nel momento in cui appaiono nel