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Ragioni della fine: per una retorica della clôture

EFFETTI INSCRITTI NEL TESTO

APPAGAMENTO IMMEDIATO INAPPAGAMENTO

(ASPETTATIVA SODDISFATTA) (ASPETTATIVA DISATTESA)

RASSICURAZIONE, FIDUCIA FRUSTRAZIONE, PERPLESSITÀ, CURIOSITÀ

STASI = CONTEMPLAZIONE MOVIMENTO = SLANCIO ERMENEUTICO

Nella lettura di questa sintesi grafica (i cui diversi piani sono commentati dalle espressioni in grassetto nel testo), la prima distinzione va marcata, dunque, tra una reazione di appagamento immediato suscitata presso il destinatario versus un deliberato effetto di inappagamento. Siamo forse abituati a far coincidere questa mancata gratificazione immediata con una delusione dell’aspettativa: l’orizzonte d’attesa cui il lettore aderisce è funzione diretta del genere cui il testo appartiene,

considerato nel suo momento storico; rispetto ai testi narrativi, poi, è anche

conseguenza degli snodi della trama che di biforcazione in biforcazione inducono aspettative sempre più chiare e plausibili. Di qui, in effetti, l’idea - per certi aspetti formali legittima - di una topica delle chiuse per generi letterari.

Ma in questo contributo sto provando a sostenere l’impraticabilità di questo sistema, almeno quando applicato al genere romanzesco, nelle sue strutture profonde. Come un romanzo può chiudersi in modo del tutto imprevisto e risultare comunque immediatamente gratificante, nel senso che è capace di suscitare una risposta immediata al desiderio di senso avanzato dal lettore, così la consolante soddisfazione di un’aspettativa non garantisce la stabilità di un senso definitivo. Per esempio, non è detto che sia attribuita al destinatario la possibilità di (gli siano dati i mezzi per) prevedere l’omicidio-suicidio di Thérèse e Laurent alla fine di Thérèse Raquin di Zola, eppure fuori di dubbio che la chiusa appaghi immediatamente il bisogno di senso e di completezza del senso. Anche se nessuno negherebbe comunque che l’effetto sarà tanto più forte quanto più l’aspettativa che il destinatario si è andato costruendo verrà

soddisfatta invece che disattesa. Allo stesso modo, una delusione dell’aspettativa non è

necessaria all’effetto di inappagamento: così per esempio, ci aspettiamo senz’altro che alla fine del romanzo biografico, costruito come percorso di ascesa dell’individuo,

Gesualdo muoia, eppure come mai quel finale non ci riempie immediatamente e non ferma la nostra ricerca di un senso? E come mai il finale con matrimonio ne I Promessi

Sposi è unanimemente considerato un idillio solo a metà? Non basta allora aver

accontentato le aspettative del lettore accorto? La delusione dell’aspettativa insomma è condizione né necessaria né sufficiente all’inappagamento, come non lo è la sua gratificazione; semmai, in entrambi i casi può costituire un “valore aggiunto” 325. La fragilità - o la forza - di una chiusa deve poggiare su altro. Certamente i finali in sordina che certa prassi naturalista ha diffuso a imitazione di Flaubert furono sentiti, almeno dal pubblico contemporaneo e spesso avvezzo alle chiuse ben concludenti del feuilleton, come espressione di una sospensione di giudizio, una rinuncia alla morale della storia, una resa alla insignificanza. Eppure, abbiamo già detto, pochissimi colsero la dinamica profonda di certe chiuse flaubertiane, la natura dell’ambiguità che le attraversa. Così poteva capitare che una scena dialogata, posta a conclusione di un romanzo, il chiacchiericcio inconcludente, lo scivolamento nel triviale, il tono interlocutorio, esibissero – per il lettore dell’epoca - una crisi dello scioglimento significante sul piano formale. La distanza storica ha alterato la leggibilità di questi testi, almeno nel senso che oggi – usi alla chiusa “aperta” - riconosciamo puntualmente la natura tutta formale di quella esibizione e a una analisi delle strutture profonde appare chiaro che, tranne in pochissimi casi, non si riuscì a fare del finale in sordina un finale sempre debole, impotente a una riconciliazione significante: oltre l’indugio nel caffè di boulevard, i due giovani protagonisti de Les soeurs Vatard hanno chiuso per sempre il loro destino alla tenerezza di un affetto sincero; il senso definitivo triste, pessimista e non consolatorio non trova voci che lo contraddicano.

Il punto, infatti, non è il contenuto – verosimilmente anche tutto negativo – del senso ultimo del testo, quanto la possibilità che il testo garantisce di accedere, attraverso la rappresentazione mimetica, a una ricostruzione significante del mondo. Un appagamento immediato gratifica questa più sostanziale aspettativa (che nulla ha a che fare evidentemente con la trama e il suo scioglimento) e imprime, di volta in volta, effetti di rassicurazione, se viene anche incontro all’orizzonte d’attesa, di fiducia quando impone certe soluzioni più sorprendenti.

Da questo punto di vista, certo, il romanzo naturalista può considerarsi anche una rivoluzione incompiuta. Perché è spesso alle strutture e alla forma che ha limitato

325 La condizione non necessaria e non sufficiente della gratificazione dell’aspettativa è rappresentata

l’innovazione. Basti pensare alla nuova posizione che nella trama è stata data alla sequenza con la morte del personaggio. Già l’agonia di Emma non occupava più l’avant-scène dell’ultimissima pagina. Zola poi, come si è detto, ha fatto di questa strategia della retrocessione un marchio di fabbrica per cui, in moltissimi romanzi del ciclo, la morte del protagonista precede – anche solo di una breve frase - l’ultima scena, di solito insignificante, triviale o allusiva di un movimento in avanti: una furbizia dispositiva, senza rinunciare alla morte né, soprattutto, alla pienezza di senso che questa veicola.

Insomma, invece di lacerare il contenuto profondo del testo, certo naturalismo risolve la battaglia contro la fine a un’apertura stilistico-formale al continuum dell’esistenza, che desta al massimo un effetto di sorpresa, senza che però nessun contrasto, nessuno scontro, nessuna polisemia problematica ne abiti davvero le chiuse. Questa la grande contraddizione interna alla poetica naturalista contro la conclusione romanzesca.

Nella direzione opposta, di quei testi cioè che mettono in scena la conflittualità delle istanze in gioco, prevalgono invece nel destinatario effetti di sospensione dell’appagamento, perplessità, vera e propria frustrazione o semplice curiosità di vederci più chiaro, segno che il romanzo sta rimettendo in questione, in modo più o meno radicale, la possibilità di offrirsi come mediatore di una lettura ordinata e

significante del mondo e, di riflesso, sta dubitando del fatto stesso che ve ne sia una e

una sola. Ho detto “in modo più o meno radicale”: intendo dire che la tensione che agisce nel testo può essere duplice, tra desiderio di credere a un senso stabile per mettersene alla ricerca e disperazione epistemologica. Così, la tipologia che potrebbe delinearsi è proprio quella che valorizza i differenti equilibri di questa dinamica profonda. E’ ovvio, insomma, che non bisogna pensare a una polarizzazione netta ma piuttosto a uno spettro complesso di situazioni.

Appagamento, inappagamento: reazioni a caldo di un lettore che nell’atto di chiudere l’ultima pagina del libro resta solo con se stesso a gustare il meritato riposo dei sensi o, invece, agonisticamente costretto a ripartire alla ricerca di un principio unificante che faccia apparire ordine e armonia laddove il finale l’ha (temporaneamente) oscurato: stasi o movimento? Contemplazione o slancio ermeneutico? Da dove cominciare?

Nel prossimo capitolo cominciamo proprio dal fatto che dinamismo e passioni sono forze che s’incrociano, l’una funzione dell’altra, inscritte nelle profondità del discorso romanzesco.

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APITOLO

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