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Il minimo indispensabile: il finale come costante di lettura

Passioni della fine: per una tipologia della clôture

1. Il minimo indispensabile: il finale come costante di lettura

La pionieristica distinzione di Marianna Torgovnick326 tra ending e closure poneva da un lato un oggetto concreto, la parte fisica di testo collocata alla fine, dall’altro un processo che, ricostruendo una rete di rapporti interni, approda a una conclusione.

Fino a questo punto ci siamo mossi piuttosto sul primo versante del problema, e questo per la buona ragione che closure non può non includere ending e che non si può non affrontare propedeuticamente la questione della dispositio, partire cioè da dove e

come finisce materialmente un testo, da quali segnali permettono di ritagliare la parte

finale.

Ma l’aspetto della clôture che prendiamo in conto da questo punto in poi verte su elementi che non sono affatto circoscrivibili all’ending, che perciò d’ora in avanti ci importerà soprattutto come ultima tappa del processo, lì dove il processo di costruzione del senso si ferma327 e dove si esplicita un certo tipo di reazione finale che il destinatario dovrà riconoscere e assumere, a pena di non godere del testo stesso.

326 M. Torgovnivk, Closure in the Novel, cit., p. 6.

327 Ibrahim Taha scrive che le ricerche su fine e chiusura identificano tre diversi livelli, quello testuale che

esamina i limiti del testo e le relazioni intra-testuali; quello contestuale che esamina i rapporti tra il testo e la realtà fuori di esso; quello comunicativo che esamina il ruolo del lettore. Taha precisa che il termine

ending indica l’ultima tappa di un processo, precisamente lì dove questo si ferma. Per il resto lo studioso

conviene con l’impostazione della Torgovnick nel definire ending come parte della closure, processo – comprendente elementi testuali ma anche extra-testuali - attraverso il quale il testo compie una soddisfacente conclusione. Cfr. Semiotics of ending and closure: Post-ending activity of the reade, «Semiotica», 138 – 1/4 (2002), p.263.

Questa impostazione tiene esplicitamente conto di una distinzione che si ritrova variamente elaborata fin dai formalisti russi e che qui adotto come concetto di funzione- destinatario quale è stato definito da Francesco Orlando:

«distinguere tra una funzione-destinatario e un destinatario empirico per me vuol dire semplicemente questo: tendere a stabilire un determinato numero di costanti che il senso di un’opera manterrà per ogni lettore e per ogni lettura, distinguendole dalle infinite serie di varianti che comporterà il variare dell’individualità del lettore, dell’epoca a cui costui appartiene, del momento in cui la sua lettura avviene, del fatto che essa sia solitaria o corale, integrale o frammentaria, la prima o l’ennesima ecc.»328

Il fatto certo che due letture non siano mai identiche, che ci siano infinite variabili, costringe a intendere il concetto di funzione destinatario come un “minimo indispensabile” di istruzioni di lettura che vanno inderogabilmente assunte dal lettore empirico ed è precisamente su questo minimo indispensabile che si fonda la comprensione.

Considerare il finale come reagente d’efficacia significa evidentemente ascriverlo a quel numero minimo ma indispensabile di costanti che il destinatario deve condividere, a pena di non capire il testo. Un testo è fatto per generare certe reazioni e il finale, per come l’abbiamo definito attraverso la retorica antica e per come l’abbiamo visto funzionare nel primo capitolo di questo lavoro, è la macchina e la sede in cui statutariamente quelle reazioni vengono fissate, reazioni di stasi o di slancio ermeneutico, di pieno e immediato assenso al progetto del testo o solo di perplessità.

Se nella conclusione del capitolo precedente abbiamo voluto dare una prima rappresentazione schematica delle due principali reazioni che il destinatario può assumere, quella di appagamento immediato (e perciò di adesione emotiva al testo) e quella di inappagamento, tocca, in questo secondo capitolo, far emergere quelle strategie formali che inscrivono nel testo questo effetto finale, tocca cioè analizzare il piano dell’azione: quali strutture retoriche, quali modelli di organizzazione dei contenuti servono a fissare nella parte conclusiva un certo tipo di reazione nel destinatario. Abbiamo parzialmente già impostato la questione al momento di ripercorrere le formulazioni della retorica antica in materia di chiusa e nel riconoscere la persistenza di certi modelli anche nel testo letterario329. Quel modello ci servirà per riflettere sul significato di nuove e meno esplicite strutture. Adesso, infatti, bisogna circoscrivere

328 F. Orlando, Per una teoria…, cit., p. 111.

l’attenzione a un tipo di testi problematici a priori: come si è già detto certo romanzo del secondo Ottocento rivendica, fin dai suoi esordi (Flaubert), e per partito preso, una esplicita insofferenza per il concetto di chiusura, l’ambizione ad una soluzione inconcludente, in una vera e propria sindrome claustrofobica.

Eppure sarebbe un grave errore di interpretazione far coincidere questa insofferenza con una rinuncia alla funzione performativa dell’opera d’arte, alla possibilità di trasmettere un messaggio sul mondo, alla fiducia di poter agire su di esso.

Ciò vuol dire che i finali di alcuni dei romanzi naturalisti (molti, sorprendentemente, contro le dichiarazioni di poetica) sono capaci di fissare in un’immagine ultima un contenuto fortemente significante, un’ipotesi sul mondo, che chiude un senso. Quali siano le strutture che presiedono a questa clôture è ciò a cui ci interesseremo in questo capitolo.

La proposta tipologica dei finali romanzeschi che si proverà ad avanzare non si fonderà né su un principio tematico-simbolico (morti, partenze, nascite e matrimoni) né su un principio meramente formale (tempi verbali, sospensione della trama, inizio di nuovi nuclei narrativo-tematici etc). All’interno del discorso sulle reazioni inscritte nel testo – e quindi su una retorica delle passioni così intesa – l’elemento discriminante sarà l’equilibrio dinamico nel quale verranno a trovarsi le molteplici istanze del testo al momento del suo congedo: messe a confronto, lasciate parlare contemporaneamente, non sarà necessariamente sempre possibile alla fine riconoscere quale fosse il discorso giusto; oppure, se un discorso giusto si imporrà, lo sarà in modo precario, dimidiato, critico.

A soluzioni di cristallina coerenza si oppongono finali più o meno lacunosi o lacerati nell’affermazione di un unico punto di vista sul mondo, implicando quindi, per la funzione destinatario, una diversa reazione emotiva. Sarà sempre più chiaro che il piano tematico-simbolico e quello strutturale-formale, ciascuno preso singolarmente non possono costituire l’elemento su cui fondare la tipologia, ma si configurano come un arsenale di strumenti che agisce su tutto l’asse del testo, inscrivendovi dinamiche articolate. Sono queste dinamiche che vogliamo indagare e perciò, se fino ad ora abbiamo circoscritto l’attenzione alle sole ultime pagine dei testi, dobbiamo partire adesso a un’analisi del profondo, che porti alla luce le strutture simbolico-formali che

innescano la post-ending activity330 come processo inscritto nel testo, ovvero quei

modelli di reazione previsti per l’adesione del lettore. Una precisazione è tuttavia d’obbligo.

Smettere di concentrarsi sulla fine intesa come soglia d’uscita dal testo per orientarsi verso un’analisi dei processi di clôture implica – lo sappiamo bene – negare alla fine, come spazio riconoscibile del testo, una valenza semantica specifica; significa, a ben pensarci, rimettere radicalmente in discussione la teoria stessa dell’explicit narrativo. Certo, se ci si limitasse, come ha fatto la maggior parte degli interventi teorici fin qui (in specie quelli improntati al formalismo puro) al singolo oggetto d’inchiesta – la fine come luogo del testo ben ritagliato – si correrebbero davvero pochi rischi, metodologicamente parlando. Tuttavia, come si è già osservato fin dall’introduzione a questo lavoro, forse non è sempre vero che l’ultima parte di un romanzo è quella più pregna di senso. O, quanto meno, l’approccio dello studioso non può darlo per scontato e deve valutarlo caso per caso.

Il fatto è che lavorare sui processi di costruzione della clôture, se da un lato oblitera la pregiudiziale della densità semantica della fine, dall’altro ne preserva la funzionalità come parte decisiva di un processo, limite oltre il quale l’informazione non può più essere alterata. Se un qualche ‘protagonismo della fine’ ci perde in ambito semantico, insomma, il ruolo sintattico ne risulta forse anche valorizzato.

Per valutare tutto ciò è necessario passare attraverso un corpo a corpo coi testi: nelle analisi che seguiranno le citazioni estrapolate a monte rispetto alla fine necessariamente si moltiplicheranno, proprio nell’obiettivo di seguire le tracce di una strategia di coerenza sull’intero asse diacronico del testo. In un secondo momento bisognerà evidenziare le costanti che individuano gruppi di testi, a cominciare da quelli in cui le strutture di coerenza sono più solide ed esplicite fino a quelli che, agendo su uno

330 Adotto qui l’espressione di Ibrahim Taha che attribuisce a closure anche il senso di lacuna: «that

require a kind of complementary activity by the reader to break through the defined borders of the ending. In sum closure is an encounter between the ending and the history mediated by the reader». cfr. Semiotics

of ending and closure: Post-ending activity of the reader, cit., p.263. Lo studioso ammette che l’intensità

e il livello di tale intervento possono essere molto diversi, al punto che una fine completa (complete

ending) innesca la partecipazione del lettore in una direzione opposta, spingendo il lettore a passare dallo

specifico del testo al generale dell’extra-testo (cit., p. 268). Pur riconoscendo all’intervento che sto citando un’impostazione corretta del problema, ridimensionerei senz’altro l’importanza che viene attribuita a ciò che l’autore chiama history, ovvero, appunto, l’extra-testo, per riaffermare lo statuto di autonomia del testo e di sua superiorità rispetto al lettore: è nel testo che troviamo inscritte le istruzioni che ne determinano la reazione.

scontro di piani, propongono modelli conclusivi che negano ogni stabilità e univocità. Sulla base di queste differenze si potrà quindi orientare il discorso in senso tipologico.

Bando agli indugi, allora, e cominciamo la lettura!