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Ragioni della fine: per una retorica della clôture

3. Nei fatti e nelle emozioni: un po’ di retorica

Insomma l’autore della Rethorica ad Herennium non scrive di certo pensando ai ‘romanzieri’ dei suoi tempi, e perciò quando, descritte debitamente le parti del discorso afferma: «La conclusione termina il discorso secondo le regole dell’arte»137, per arte si deve intendere solo quella forense. E tuttavia quando passiamo alla descrizione normativa della conclusione del discorso «che è l’ultima delle sei parti dell’orazione», comincia a profilarsi una retorica dell’epilogo che mostrerà una sua pertinenza anche per il discorso letterario:

135 Francesco Orlando propone di parlare di “processo di estrapolazione” ogni qual volta un sistema di

analisi viene applicato e si mostra efficace oltre i limiti della disciplina per cui era stato fondato. Così, per esempio, quando propone di applicare allo studio della letteratura strumenti introdotti da Freud per studiare la logica e il linguaggio dell’inconscio. D’altra parte è vero pure che la retorica ha subito nel tempo un processo di restriction généralisée che ha portato all’identificazione di un vasto ‘discorso sul discorso’ con la teoria dei tropi, prima, e con la metafora tout court poi (G. Genette, La rhétorique

restreinte, «Communications», 16, 1970, pp. 158-171). Recuperare il dettato di certi testi della retorica

antica, concepiti per l’oratoria forense, al fine di estenderlo al testo narrativo implica, allora, la necessità di restare consapevoli di una estrapolazione in atto.

136 E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, 1966, p. 241-242 e cfr. anche G.

Mathieu-Castellani, La réthorique des passions, cit., p. 8.

«Le conclusioni, che i Greci dicono epiloghi, si compongono di tre parti: enumerazione,

amplificazione, commiserazione. In quattro luoghi possiamo inserire le conclusioni: nel principio, dopo la

narrazione, dopo la più valida argomentazione, nella conclusione. L’enumerazione è quella per cui riassumiamo e ripetiamo brevemente quello di cui parlammo, non per ripetere, ma per richiamare a memoria il discorso tutto come già fu detto, perché l’uditore riveda le idee che poté ritenere. (…) l’amplificazione tende ad eccitare gli uditori con dei luoghi comuni. Dieci precetti indicano in modo chiarissimo i luoghi comuni atti ad amplificare l’accusa (…) Ma bisogna che la commiserazione sia breve, ché nulla s’asciuga più presto che una lagrima »138. (Corsivo mio)

Risulta chiaro il riferimento a una pluralità di soglie ricapitolative più interne nel testo rispetto alla conclusione ultima, soglie che agiscono a delimitare le varie parti del discorso e la sua parte più importante, l’argomentazione. Ed è precisamente in questo senso che Hamon recupera per i testi narrativi il concetto di clausola, benché in modo decisamente problematico e si chiede:

«Faut-il enfin entendre par clausule, comme le fait B. H. S., les modes de terminaison du texte dans

son ensamble, ou bien les modes de terminaison de n’importe quelle séquence intérieure au texte

relativement autonome, comme une description, un dialogue, un paragraphe, une strophe, voire une seule phrase (pensons au fameux esse videatur ciceronien) ? Ce dernier sens serait sans doute préférable, la terminaison du texte dans son ensamble n’étant probablement qu’un cas particulier « d’effet de cadre » (B. Uspenski) très général, réitérable en n’importe quel endroit du texte.»139

Se, dunque, riassumere, enfatizzare e commuovere sono gli effetti che la conclusione del discorso deve ottenere al fine di imprimere bene il tutto nella memoria, quali siano gli strumenti retorici più efficaci a raggiungere tali effetti è ciò che gli studi sulla clôture dovrebbero chiarire. L’idea che si è andata affermando, come si diceva, è di disinteresse per ciò che la retorica classica ha detto in relazione a questo spazio, come se l’organizzazione e l’ornamento dipendessero dall’autore soltanto. In realtà i testi classici testimoniano una articolata riflessione sulla questione (certo entro l’orizzonte dell’oratoria) ed evidenziano una serie di figure, se non esclusive della clausola finale, atte però più di altre a garantire quegli effetti che si diceva. Innanzitutto, la teoria che l’epilogo abbia la funzione di passare in rassegna per sommi capi facendo ricordare agli ascoltatori, verso la fine, le cose che sono state dette era già sostenuta da Platone nel

Fedro; già Aristotele, poi, tra le tecniche della rassegna indica il sommario, la

138 ibidem, II, 30-31.

comparazione degli argomenti, l’ironia, l’interrogazione (il dubbio)140; Cicerone vi aggiunge, tra i mezzi stilistici, la prosopopea; Quintiliano il dialogo con l’avversario141. Insomma, la ricapitolazione smette di apparire come semplice riassunto, si articola in precise figure e strategie e fa entrare sulla scena le parti.

Quanto all’organizzazione della conclusione, allora, e per tornare alla Retorica ad

Erennio, enumerazione, amplificazione, commiserazione sono indicate come partizioni

interne: riprendere schematicamente i punti salienti, quindi dare enfasi al discorso al fine di conquistarsi l’uditorio. Niente di più, niente di meno. Enumerazione, amplificazione, commiserazione sono le figure che innegabilmente ottengono meglio di altre quegli effetti indicati. E se, come si vedrà subito, nell’amplificazione si mostra l’arte massima dell’oratore, vera summa di tutte queste la sentenza finale le realizza e le condensa in sé:

«La definizione è quella che in poche parole, ma senza tralasciar nulla, riassume compiutamente tutti gli attributi di un oggetto. (…) questa figura viene dunque giudicata vantaggiosa perché fa conoscere il significato di qualsivoglia oggetto con tanta chiarezza (e brevità) che non sembri debba esser detta con maggiore o minor numero di parole».142

La natura della frase finale è quindi quella di un periodo molto condensato, in cui fortissima è la concatenazione logica e volta a dimostrare, una volta di più e in assoluta sintesi la bontà della tesi. Dalla perfezione, dall’equilibrio e dall’efficacia di tale battuta conclusiva dipendono niente di meno che la bravura stessa e la potenza dell’oratore:

«Il periodo è una densa concatenazione di parole a senso compiuto. In tre casi l’impiegheremo molto utilmente: nella sentenza, nel contrario, nella conclusione (…) in queste tre figure la concatenazione è così necessaria alla forza del periodo che sarebbe stimata insufficiente la potenza di un oratore, se non sapesse esporre con frasi ben legate una sentenza, un contrario, una conclusione; (…)».143 (corsivo mio)

140 Aristotele, Retorica, 1419 b 30-20 a 4 (si cita dall’edizione a cura di Guido Paduano, Bari, Laterza,

1998).

141 Per una presentazione della retorica dell’epilogo cfr. C. Guérin, Rhétorique de l’épilogue. Normes et déviations rhétoriques dans les péroraisons judiciares cicéroniennes, Maîtrise de Lettres, Université

Paris XII- Créteil, juin 2000 (consultabile presso la Bibliothèque de Lettres dell’Ecole Normale Supérieure de Paris).

142 Retorica ad Herennium, IV, 25 (si cita dall’edizione italiana Milano, Anonima Notari, 1931). 143 ibidem, IV, 19.

Sugli effetti persuasivi di una sentenza in fine di discorso, nessun dubbio:

« (…) poiché sono le ultime cose dette quelle che più facilmente si imprimono nella memoria, conviene terminando il discorso, lasciare nell’animo degli uditori la fresca impressione di un

ragionamento molto solido.»144. (corsivo mio)

In ambito letterario si mantiene volentieri il binomio sentenza-moralità, tanto nei generi lirici che in prosa, nell’antichità come nella modernità: in questo senso il modello giuridico, che affida a una battuta finale la pregnanza del senso di tutto il discorso, resta imprescindibile145. E, a questo proposito, ancora una volta, vedremo che il naturalismo proporrà un anti-modello con l’istituzionalizzazione di battute finali provocatoriamente anodine: anche solo un rapido elenco di frasi celebri dovrebbe annoverare niente di meno che la battuta conclusiva di Madame Bovary, quella de L’Education Sentimentale, quella de I Malavoglia e poi moltissime chiuse del ciclo zoliano, molte di Maupassant... Certo, non si vuol dire con ciò che fuori dal naturalismo le battute finali siano sempre e comunque enfatizzate, sature di senso, sovrapponibili alla morale della favola (nemmeno si potrebbe negare un senso grave a molte di quelle tag-lines in sordina). E’ certo, però, che solo il naturalismo, come insieme di testi, fa di questa forma una prassi, una tecnica, una scelta di poetica.

Le funzioni di una struttura a tre gradi (enumerazione, amplificazione, commiserazione), chiusa spesso al suo margine estremo da una sentenza, sono precise. Una sostanziale diversità di natura e di scopi delle parti nella globalità del discorso è anticipata da Cicerone:

«Cominciare con una premessa, esporre poi il fatto, comprovare successivamente la nostra tesi, adducendo solide prove a sostegno e confutando quelle dell’avversario, e infine concludere e perorare: questo procedimento lo impone la natura stessa dell’eloquenza.»146. (Corsivo mio)

Se concludere, infatti, risponde a un’esigenza – narrativa, si vorrebbe dire - tutta interna al discorso e implica la necessità di tirare le logiche conseguenze di quanto s’è affermato (dopo aver riassunto gli argomenti), perorare introduce invece nella fase del

movere, implicando non più l’informazione e perciò la narrazione, ma la mozione degli

144 ibidem, III, 10.

145 Si tornerà più avanti sulla questione, a proposito della teoria del sonetto elaborata da Federigo

Meninni.

affetti ovvero l’esplicita interazione col destinatario. Se quindi l’enumerazione è ancora parte della fase conclusiva del discorso, l’amplificazione si pone già sul bilico mentre la commiserazione è già tutta interna alla peroratio. Concludere e perorare saranno dunque i due momenti riconoscibili della parte finale del testo, il primo sul piano narrativo, il secondo su quello performativo. A coronamento del tutto, la conclusione, è logica conseguenza di quanto precede, cristallina sintesi di un teorema che solo nella sua evidenza finale potrà imprimersi nella mente:

« La conclusione è quella che deduce, con breve argomentazione, da quanto fu detto o fatto prima, ciò che deve necessariamente conseguirne (…)».147

Radicalizzando la partizione, Quintiliano parlerà addirittura di due diverse tipologie di conclusioni, quella fondata sui fatti (ricapitolazione) e quella fondata sulle emozioni (miseratio)148. Il principio comune è che esse racchiudano ciò che in un discorso è più favorevole allo scopo che ci si è proposti. In questo senso la conclusione è il reagente d’efficacia del testo149.

Quanto alla prima parte, la ripresa dei fatti mira a rinfrescare la memoria e a porre davanti agli occhi dei giudici tutto il dibattimento di modo che, seppure il discorso non era stato perfettamente efficace, con l’accorpamento finale dei punti si raggiunge l’effetto voluto150. Sempre che la ripresa sia fatta per sommi capi: questa parte del discorso deve essere più un elenco che una ripetizione, un’enumerazione di tutti gli argomenti, l’esposizione la più breve possibile, anche se organizzata con una certa

147 Cicerone, cit. IV, 31.

148 Mettendo in evidenza così la duplice natura della peroratio che verte sui fatti ma anche sulle passioni:

«eius duplex ratio est, posita aut in rebus aut in adfectibus », Institutio Oratatoria, VI, 1, 1, (si cita dall’edizione italiana Torino, Einaudi, 2001, II voll.).

149 Ma le definizioni dell’epilogo sono molteplici, volte soprattutto a metterne in evidenza la finalità e con

approccio tipologico: «l’epilogo, se contiene una ricapitolazione dei fatti, richiede una continuità di frasi concise; se è finalizzato a infiammare l’animo dei giudici, uno dei toni dei quali ho parlato sopra (cfr); se è volto a placarli, una certa calma modulata; se bisogna muoverli alla pietà, un’inflessione della voce e una dolente dolcezza che spezza in particolare i cuori e che è del tutto naturale. (…) Nella peroratio ha inoltre un effetto straordinario confessare che la forza viene meno per il dolore e la fatica». Quintiliano, cit., XI, 3, 170.

efficacia di frasi concise e una certa varietà di figure, volta a comprovare ciò che si è riusciti a dimostrare151.

La novità introdotta da Quintiliano è - se è lecito metterla in questi termini - una novità di tipo decostruzionista ante litteram. Nella ricapitolazione infatti non devono essere riprese solo le argomentazioni dell’oratore ma devono anche essere derivati argomenti dall’avversario, sollecitate le domande e le obiezioni della controparte, purché (e ci mancherebbe altro!) vi sia modo di replicare e gli argomenti avanzati non ammettano confutazione. Si afferma dunque l’idea di una conclusione come parte estremamente dialogica, in cui l’interlocutore e i destinatari sono funzioni interne ed elementi attivi dell’equilibrio stesso del discorso. Destabilizzare per poi ricomporre è ciò che darà forza alla ricapitolazione degli argomenti ed è potenzialmente il solo procedimento innovatore dentro lo schema di una ripetizione.

L’influenza di questo modello si trasferisce chiaramente all’ambito letterario, e non penso solamente a quei testi costruiti su un principio dialogico a livello esplicito, per cui in ogni personaggio è riconoscibile un’istanza ideologica. Su un piano più astratto, invece, si deve pensare a quei testi in cui i processi di focalizzazione e d’istanza

narrativa – il punto di vista e la voce, genettianamente intesi – sono mobilitati nella

fascia finale idiosincraticamente, per mettere in dubbio o ribaltare la stabilità del significato che il testo sta costruendo. Il realismo-naturalismo, in questo senso, è un vero e proprio thesaurus di esempi e più avanti si ritornerà approfonditamente sulla questione152.

Il fatto è però che nell’ambito del discorso argomentativo la fine è sempre luogo della sintesi e perciò della non-informazione, della ridondanza. Tutta la retorica antica impone che niente di nuovo venga aggiunto quando si sta chiudendo. Per quanto giuste siano le conseguenze di un’argomentazione, esse produrranno sempre un cattivo effetto se, in conclusione di discorso, faranno sorgere un nuovo elemento di discussione, deviando l’attenzione dal soggetto principale, indebolendo l’insieme del discorso. E’ dunque implicita l’idea che il testo giuridico, nella sua conclusione, debba appagare le attese del suo destinatario, rispondere alle domande senza aprirne di nuove. Solo a questo punto può scattare, a cementare certezze, la mozione dei sentimenti.

151 ibidem, V, 14-11; ma cfr. anche XI, 3-170.

Invece, il divieto di indebolire una conclusione aprendo sul finire a nuovi argomenti non è un imperativo per il testo letterario. Almeno fino a una certa data: vale la pena ricordare, infatti, che alla base della querelle sul genere romanzo che ha imperversato in Italia a metà Cinquecento sta proprio l’innovativa tecnica ariostesca di aprire nuove sequenze narrative – e perciò informative – esattamente in coincidenza con la chiusa di canto153.

Ha moltissima pertinenza, dunque, chiedersi, come s’è fatto fin dall’inizio di questo lavoro, se il genere romanzo risponda o non piuttosto apra domande sul mondo. O meglio, quale sia la risposta data da ciascun modello storico-culturale, quella del romanzo storico, del feuilleton, del giallo, quella del romanzo realista.

Gli antichi credettero che nella ricerca della verità, al fine di persuadere l’uomo se ne dovessero muovere le passioni: il regno dell’eloquenza coincide con la mozione dei sentimenti. Ma se è vero che gli affetti dell’animo vengono mobilitati in ogni parte del discorso, la retorica latina – che, nel suo approccio, fa prevalere un aspetto pragmatico piuttosto che teorico-analitico - si occupa del pathos soprattutto come effetto precipuo dell’esordio e dell’epilogo, con questa differenza, che nell’esordio la pietà va sondata in modo più riservato mentre nell’epilogo è lecito dar corso a tutto ciò che suscita le passioni. Tutta orientata all’arte della comunicazione la retorica latina descrive, analizza e fissa le tecniche e i mezzi per muovere le passioni e produrre certe emozioni, mentre Aristotele nella Retorica aveva trattato l’argomento con maggior sistematicità, non limitandosi a una parte del discorso ma volendo arrivare a una definizione delle passioni, ne descrisse la natura, le cause e si pose il problema di come esse interferiscano con la ricezione del messaggio. Un approccio così vasto e una classificazione tanto impegnativa non è l’oggetto immediato del nostro studio che, almeno in prima istanza, si limita ai processi semantici del testo e vuole portare alla luce l’arsenale topico e stilistico dell’epilogo.

Quintiliano richiama spesso l’attenzione sulla miseratio, (il destar compassione, che è uno dei due scopi dell’eloquenza154); presente in vari snodi dell’orazione, trova la sua collocazione naturale nell’epilogo, sede privilegiata di tutte quelle tecniche atte a

153 Ho analizzato questa tecnica in Al fin tratte l’impresa. Prassi di chiusura narrativa e ideologia del tempo nell’Orlando furioso, «Strumenti Critici», 2/2005.

muovere l’animo: dall’evocazione dei morti, ai discorsi immaginari attribuiti ai personaggi, alle prosopopee155:

« (…) ma più di tutto ha effetto la commiserazione, che induce il giudice non soltanto ad assoggettarsi, ma anzi a confessare col pianto il proprio sentimento interiore. Proprio in questi momenti si dimostrano utili le prosopopee, cioè i discorsi immaginari di personaggi diversi dall’oratore, *quali pronuncia il difensore invece del cliente* I fatti nudi e crudi commuovono da soli; ma quando immaginiamo che gli interessati prendano personalmente la parola, allora è dalle persone che si trae l’emozione. La commiserazione tuttavia non deve mai essere lunga. Non senza ragione si è soliti dire che niente inaridisce più facilmente delle lacrime156».

Dunque, non solo si ribadisce che la mozione degli affetti è il più importante obiettivo di una conclusione efficace157, non solo si riconferma l’imperativo della

brevitas, ma, soprattutto si introduce un problema tecnico, ovvero quali siano le figure

retoriche (in senso ampio e, quindi, anche in quanto strutture di pensiero) che meglio si conformino alle conclusioni del discorso giuridico.

La questione delle passioni e delle tecniche per eccitarle, dall’ambito del discorso orale si trasferisce agevolmente alla letteratura, dall’oraziano ut ridentibus arrident,

flentibus adflent/ humani vultus158 al vasto recupero degli studi retorici del XVII secolo francese, che dedica la sua attenzione al problema nei termini di una teoria delle ricezione ante litteram, ribadendo che la forza del poeta sta nel ribaltare i sentimenti di un’anima con la sola forza delle parole:

«il est certain que le poete ne produira point ces effets, s’il n’est fortement touché des sentiments interieurs qu’il doit inspirer à ses jujes»159.

155 «Infatti io non condivido l’opinione sostenuta da alcuni, così da credere che la differenza tra proemio

ed epilogo consista nel fatto che in quest’ultimo si espongono le cose passate e nel primo le cose future; la differenza invece sta in questo, che nella parte iniziale dell’orazione si deve sondare la pietà del giudice in misura più sobria e più riservata, mentre nell’epilogo è lecito dar libero corso a tutto ciò che suscita le passioni, attribuire discorsi immaginari ai personaggi, evocare i trapassati, presentare in tribunale le persone care agli imputati: tutti espedienti che negli esordi sono meno usati ». Quintiliano, cit., IV, 1, 28.

156 ibidem, VI, 1, 23. 157 ibidem, VI; 1, 51-52. 158 Orazio, Ars Poetica, v. 101.

159 H.-J. Pilet de la Mesnardière, La poёtique (Réimpression de l’édition de Paris, 1640), Slatkine

A ripercorrere la trattatistica classica non sorgono dubbi: l’amplificazione è riconosciuta unanimemente come la struttura portante della conclusione:

«E difatti la potenza dell’arte oratoria risiede in questo, nell’indirizzare il giudice non soltanto là dove lo condurrebbe la natura stessa del fatto, ma nel fargli provare o un sentimento che non c’è o uno maggiore di quel che c’è».160

Ma già Cicerone metteva in strettissimo rapporto la forma dell’amplificatio con la mozione degli affetti, e questo ad ogni altezza del discorso:

«L’amplificatio è necessaria tutte le volte che ricorriamo a quei mezzi di argomentazione che, (…), servono a rendere convincente il nostro discorso: quando chiariamo qualcosa, o quando vogliamo conquistarci l’uditorio, o suscitare delle emozioni; ma, in quest’ultimo caso, l’amplificazione ha la massima efficacia; ed è l’unico pregio veramente proprio dell’oratore»161.

Per poi sancirne l’imprescindibilità in chiusura, quando bisogna lasciare l’animo del giudice gonfio di emozioni:

«Si deve inoltre concludere il tutto per lo più amplificando gli argomenti, infiammando il giudice o placandolo, e, come nelle parti precedenti dell’orazione, soprattutto nel finale si devono raccogliere tutti gli elementi che possono commuovere al massimo grado l’animo dei giudici e influenzarlo a nostro vantaggio»162.

In questo senso, Quintiliano – che, più spesso di chiunque altro, torna sui modi della conclusione – ricorda, giustamente, che ciò che conta è la disposizione d’animo con la quale il giudice va a deliberare sul caso e che, perciò, bisogna avere bene in mente, per tutto il discorso, che dopo la conclusione non si potrà più aggiungere nulla, né resteranno argomenti di riserva163. Tutta la bravura dell’oratore si gioca lì, tutta l’efficacia e la potenza del discorso si prova lì:

«Ma è qui, nella perorazione, se mai in qualche luogo, che si possono lasciar sgorgare liberamente le fonti della nostra eloquenza. Infatti, se abbiamo esposto con efficacia il resto, avremo ormai in pugno