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Passioni della fine: per una tipologia della clôture

3. A porte chiuse: la clôture come sistema

Se riduciamo al grado zero l’analisi testuale appena percorsa, potremmo schematizzare come segue l’articolazione degli elementi formali che a vari piani determinano la chiusa:

STILE Metafora che risolve quella iniziale

STRUTTURA Struttura geometrica a chiuse successive

SPAZIO Ambientazione in spazio ristretto, identità

di luogo inizio/fine

TEMA Partenza (con significato di) morte

FINALITA’ Soluzione dell’enigma, annullamento del

conflitto in atto

396 La scelta dei verbi non è casuale, per una lettura nel segno del presagio funesto: «Mme Roland tournée

Sui primi tre piani del discorso – quelli che stanno più in superficie, più immediatamente accessibili al lettore, stile, struttura e spazio – agisce un principio circolare di ripresa forte di modelli già presenti nell’incipit, i quali agiscono fortemente e coerentemente su tutto il testo (la stessa metafora torna a varie altezze; il funzionamento per sistema di chiuse; lo spazio ristretto dell’ambientazione): la clôture si afferma come espressione ultima di un principio di coerenza totale che plasma il testo. In questo caso, evidentemente, la circolarità non rimanda a una ripetizione senza fine397, bensì al compimento di quanto era stato annunciato, alla realizzazione di un progetto di scrittura fortemente governato da un assioma logico-consequenziale. Sugli altri due piani - quelli profondi nel testo, cui si accede meno coi sensi che con un’operazione ermeneutica - il nesso con l’incipit può essere meno immediato. Sul piano tematico la concatenazione inizio-fine sta piuttosto nel compimento di una parabola, narrativa o simbolica – dalla nascita alla morte; dall’arrivo alla partenza; dall’alba al tramonto; dalla giovinezza alla maturità (in tutti i suoi emblemi, matrimonio, nascita, etc,), dal delitto alla scoperta dell’assassino…

Più volte nel corso di questo lavoro si è avuto occasione di riflettere sull’efficacia solo parziale di una tipologia tematica delle chiuse romanzesche: un finale con morte non basta ad assicurare un effetto forte e stabile di saturazione del senso, per i molti attacchi che su altri piani quel senso potrebbe subire. E tuttavia, se considerato dentro il più articolato schema che si sta delineando, se valutato come uno dei possibili fattori che determinano l’effetto di coerenza del testo, come negare che un finale con morte o con partenza avvalori ed enfatizzi un sistema già fortemente chiuso? Più in generale, come negare che il compimento della parabola è per l’appunto, sul piano tematico, fattore determinante la completezza del senso? Basta ragionare ribaltando il punto di vista e considerare che tale è la capacità simbolica di quei modelli che essi possono apparire come condizioni sufficienti a una chiusa forte, oscurando perfino quegli elementi che ne mettono in discussione la coerenza. Come spiegare altrimenti l’errore di chi legge il finale dei Promessi Sposi come un finale forte precisamente perché la parabola si compie e i due giovani, ormai attraversate le prove della vita, celebrano le fatidiche nozze? E le figure della negazione che prepotentemente agiscono in quel brano finale, che fine fanno?

Una tipologia dei temi e dei motivi non può funzionare, cioè non può bastare a se stessa, innanzitutto perché costringerebbe a intendere come motivi conclusivi solo quelli

che arrestano logicamente o naturalmente uno sviluppo e pertanto si dovrebbero schierare in una classe i motivi che logicamente “chiudono” un processo (morte, testamento, partenza, matrimonio, tramonto, addio etc.) contro la classe dei motivi che “aprono” (nascita, arrivo, alba etc.). Ma è nell’esperienza di ogni lettore la sterilità di una tale partizione: la parabola può seguire la direzione inversa a quella voluta dal rigore di logica o dalle leggi di natura, ed eventi inaugurali possono avere tutto l’effetto di arrestare una serie. La nascita del piccolo Charles – il cui braccino alzato verso il futuro è metafora fin troppo eloquente - chiude con straordinaria potenza non solo un romanzo, ma niente di meno che un ciclo di venti romanzi, il ciclo del naturalismo per antonomasia. Così come il gioco di rimandi tra incipit ed explict può essere totalmente ribaltato. Il caso di Germinal (1885) è un esempio notevole di inversione simbolica tra i due momenti: l’arrivo di Etienne Lantier nel villaggio minerario di Montsou avviene nel buio di una notte fredda e ventosa, la fossa del Voreux, il cupo accesso agli inferi della miniera, si spalanca sotto i suoi occhi; nell’ultima pagina del romanzo, Etienne lascia il villaggio mentre la luce di un sole raggiante inonda le messi; pieno di speranze e ambizioni politiche, maturato dalle esperienze, Etienne parte nella certezza che «la germination allait faire bientôt eclater la terre»398.

Insomma, bisogna riconoscere che motivi naturalmente e logicamente conclusivi avranno la forza dell’evidenza, ma non chiudono una classe (e, evidentemente, questo vale in entrambe le direzioni: se è vero che morte, cimitero e tomba appartengono ai motivi conclusivi naturaliter, è degno di nota l’incipit de La fortune des Rougon, ambientato tra le lapidi del cimitero Saint-Mittre).

Il motivo acquisisce un senso conclusivo solo in rapporto al contesto di tutti quegli altri fattori determinanti che stiamo cercando di portare alla luce come sistema complesso, che inscrive nel testo l’effetto di stabilità del significato o della sua precarietà. La novità della nostra proposta sta per l’appunto nell’idea di clôture come sistema articolato di clausole a livelli molteplici.

Prima di venire all’ultimo piano di quel sistema articolato di fattori - intendo la finalità -sarà utile mettere a fuoco una importante implicazione del nostro modo di procedere.

E’ chiaro che della griglia a cinque livelli che è appena stata proposta – e che dovrebbe funzionare come un itinerario a tappe nella indagine sulla clôture narrativa – i primi quattro rispondono ad esigenze strutturali e formali mentre l’ultimo, quello più

profondo, copre l’aspetto semantico della questione. Il telos del testo coincide, dunque, con la sua finalità ovvero con l’obiettivo di sciogliere una dinamica di tensioni, di risolvere un sistema di voci e discorsi compresenti e in conflitto. E finalità è, per l’appunto, uno degli elementi di quel ‘gioco a tre punte’ che secondo Philippe Hamon devono espletarsi all’unisono affinché nel lettore si produca la stabile sensazione di completezza. Pertanto, non sembra irrilevante far rientrare i quattro piani sintattici della nostra griglia entro le categorie fin e finition intese da Hamon proprio come gli aspetti formali della chiusa di un testo, e metterli in contrapposizione con la finalité. L’esito di questa impostazione è già implicito nel discorso di Hamon399 e si farà evidente nel momento in cui lavoreremo sulle strategie volte a scardinare la stabilità della chiusa: se la cooperazione di questi tre fattori costituisce solo uno dei possibili effetti finali a disposizione, modelli alternativi sono possibili proprio laddove gli aspetti formali della

fin e della finition entreranno in conflitto con la finalità semantica propria del testo.

Nei due romanzi che abbiamo appena analizzato il testo si organizza come un processo verbale, in cui si accumulano prove su prove (e non a caso in entrambi i testi il motore narrativo è nello sguardo). Alla fine si perviene a una soluzione dell’enigma (in senso più figurato per il romanzo si Zola, più letterale per quello di Maupassant). Tale soluzione coincide con la neutralizzazione di un conflitto in atto e l’eliminazione di una delle istanze: Thérèse e Laurent, muoiono escludendo il rischio che il principio d’osservazione del reale possa non avere la meglio; Pierre parte per non poter affermare una legge etica sulla legge di natura.

In questi due testi lo scontro tra forze opposte (istanze in conflitto, punti di vista sul mondo) è fatto esplicito perché incarnato nei personaggi e tematizzato nel principio stesso che organizza la trama, quello, appunto, di inchiesta giudiziaria che vede schierati l’uno contro l’altro due fronti di verità possibile. La soluzione passa per la rinuncia a uno dei due punti di vista, per l’espulsione di uno dei due contendenti, per l’abbandono della difesa di una delle due parti in causa. Ma non è detto che questo implichi la vittoria schiacciante dell’altra parte: Madame Roland vede riconosciuto il principio dell’amore naturale contro l’etica istituzionalizzata della fedeltà coniugale, ma la partenza del figlio, l’eliminazione dello sguardo critico le lascia solo una vittoria lacerata e amarissima:

« (…) il lui semblait que la moitié de son coeur s’en allait avec lui, il lui semblait aussi que sa vie était finie (…)»400

Nel modello di chiusa forte, insomma, il testo letterario si schiera, affronta la sfida del relativismo (sugli infiniti piani in cui lo si può intendere, qui, in Maupassant, sul piano etico) e scioglie una dicotomia, prende posizione, propone un punto di vista forte sul mondo. Uno scendere in campo che può darsi, però, solo sulla base di un enorme sacrificio.

E’ chiaro, infatti, che se all’intenzione che ha torto è stato attribuito anche il minimo spazio, l’intenzione vincente lo sarà solo in un modo dimidiato, critico.

Non sarà inutile, a questo proposito, ribadire che a fondamento del nostro discorso c’è un forte presupposto teorico di partenza, ovvero l’idea di Orlando – sviluppata nella

Lettura freudiana della Phèdre - che i modelli di coerenza interna al linguaggio

letterario «hanno qualcosa da spartire con il linguaggio dell’inconscio umano»401 e che alla letteratura si possa applicare il modello di analisi che Freud applica al motto di spirito. L’idea che la letteratura sia sede di un ritorno del represso socialmente istituzionalizzato402 ha portato Orlando alla definizione di un concetto fondamentale per l’analisi critica dei testi, il riconoscimento della formazione di compromesso come vera e propria figura di significato in ambito letterario.

Proprio della grande opera d’arte – a differenza dell’opera di ideologia - è dare voce al molteplice del mondo e parlarne in termini di alternativa, di opposizione. Il grande testo letterario diventa così la scena di una lotta tra forze opposte – istanze riconducibili a un principio di realtà contrapposto a quello di piacere - veicolata da una forma che è quella della negazione freudiana:

«(…) il modello della negazione freudiana è un modello formale, che può riempirsi per conto suo di contenuti svariati; e ha le caratteristiche del linguaggio dell’inconscio in quanto è una formazione linguistica di compromesso, che permette di dire nello stesso tempo sì e no, non importa a che cosa. »403

400 G. de Maupassant, Pierre et Jean, ed. cit., p. 217 401 F. Orlando, Per una teoria…, cit., p. 8

402Orlando, com’è noto, introduce l’idea che la letteratura sia sede di un ritorno del represso socialmente

istituzionalizzato, che nel testo siano «presenti qualità formali assimilabili a quelle proprie del linguaggio dell’inconscio», contenuti censurati dalla repressione ideologico-politica, contenuti censurati dalla repressione gravante sul sesso. Cfr. ibidem, p. 27.

Il che equivale a dire che le forze in gioco rappresentate dal testo stanno tra loro in rapporto dinamico, e non sempre sarà possibile per il lettore riconoscere l’istanza che ha avuto ragione, perché il testo letterario “dice la verità nascostamente”: il meccanismo di identificazione iscrittovi conduce il lettore su “false piste”, istigandolo a simpatizzare con istanze scandalose, a riconoscere il diritto nel torto.

Un esempio rilevante in questo senso potrebbe essere la Tess dei d’Uberville di

Hardy. Ho già rimandato alla struttura forte e chiusa di questo romanzo404. Basterà qui notare il fatto che se le forze della razionalità – la legge che punisce l’omicida – hanno la meglio e schiacciano l’essere umano, già piegato dalla vita, tutta la tenerezza del lettore sta dalla parte di Tess: evidentemente la forza di questo finale prende senso se ribaltata di segno, e all’istanza che è stata soppressa si riconosce quella identificazione emotiva che dice da che parte sta il testo.

Complementari e opposte la ragioni che ci farebbero includere in questo modello anche Il Marchese di Roccaverdina di Capuana (1901): una struttura narrativa che mette in scena le inutili resistenze a una ‘legge irrazionale’ (ne è un aspetto importante il timore di volta in volta concesso e negato al soprannaturale, ma anche il matrimonio con Zosima, continuamente rimandato, come chiusa narrativa sempre programmata e resa efficace solo con estremo ritardo, rimessa continuamente in discussione). La negazione razionale avrà comunque la peggio e la passione si imporrà come una inevitabile fatalità sulla chiusa del testo. E questo a prezzo del sacrificio di sé: Antonio di Roccaverdina impazzisce, diventa un bambino ebete nelle mani della concubina, punito, più che per aver trasgredito, per essersi ribellato alla trasgressione.

Un’ulteriore riprova di come la letteratura possa essere «incorreggibilmente conservatrice e sovversiva nello stesso tempo» (Orlando).

Se così stanno le cose, interrogarsi sulla clôture di un testo, ovvero sul sistema di coerenza che esso costruisce, equivale a mettere a nudo il dinamismo delle diverse istanze che interagiscono in esso per chiedersi su che piatto della bilancia si collochi l’equilibrio finale. Ripeto: il lavoro insiste sulla totalità del testo come sistema coerente e pertanto la “scena finale” non è il solo elemento decisivo nel riconoscimento di un equilibrio raggiunto o negato.

Concentrarsi sulla clôture equivale a studiare il farsi di queste tensioni, il loro antagonismo; concentrarsi sulla fine equivale a constatarne gli equilibri ir/risolti: messi

a confronto, lasciati parlare contemporaneamente, non sempre sarà possibile alla fine riconoscere il discorso giusto.

Ma lo spettro di situazioni possibili è, manco a dirlo, policromo.

Infatti nel finale de I Viceré (1894) lo scontro tra istanze opposte, di cui fin qui si è parlato, mette esplicitamente fuor di metafora il discorso represso, quello che contiene la verità nascosta, la ‘cifra nel tappeto’, e ne fa il discorso vincente. Non a caso, dunque, la chiusa del vasto affresco (“saga tribale” secondo l’azzeccata definizione di C. A. Madrignani405) è giocata sulla contrapposizione teatralizzata tra due lunghi discorsi, due lunghe orazioni politiche, due inserti saggistici in strettissimo rapporto dialogico.

Il primo è un comizio politico con il quale il Principe Consalvo Uzeda si assicura il favore trasversale dei nobili e della plebaglia per le prossime elezioni: “democrazia” e “socialismo”, ha in pugno la folla e la poltrona assicurata tra i banchi della sinistra. Ma a smontare il meccanismo di quell’orazione è anche un fiorire di negazioni, che dall’attacco la costellano:

«Concittadini! … Se la benevolenza dei miei amici vi ha indotto a credere che io possegga le doti dell’oratore, e vi ha qui adunati con la promessa che udrete un vero e proprio discorso, io sono dolente di dovervi disingannare… »406

Il motivo del disinganno è il motivo chiave nella lettura del finale e nel processo di clôture tutto de I Viceré.

Dopo quella prima negazione iniziale segue un discorso di torrenziale retorica («Io vi dichiaro, concittadini, che non posso, che non so parlare…») che ha i suoi snodi in un fuoco di fila di negazioni: «…fino ai miei giorni più tardi non si potrà cancellare il ricordo di questo momento indescrivibile», «…non vale a sdebitarmi: tutta la mia vita dedicata al vostro servigio sarà bastevole appena…», «…nell’udir voi, liberi cittadini, coronare d’applausi non me, ma queste sacre parole…», «Concittadini, la mia fede in questi grandi ideali umani non è nuova, non data da questi giorni, in cui tutti la sfoggiano…», «…i pregiudizi di casta che io conobbi, ma che non mi duole di aver conosciuto, perché ora sono meglio in grado di combatterli…». Alla fine, dopo due estenuanti ore zeppe di parole, da quelli rimasti, ipnotizzati da citazioni e nomi e più di tutto da un sole accecante, Consalvo ha la sfacciataggine di congedarsi ancora con la

405 Cfr. Introduzione a F. De Roberto, I Viceré, Milano, Mondadori, 1984, pp. XXXV sgg. 406 P. 678.

retorica della negazione: «…non credo tuttavia di dover abusare della vostra pazienza ».

Se anche prescindiamo dalle tante dichiarazioni che puntellano il romanzo, nel senso di un opportunismo politico che dice di sì al nuovo ma solo per preservare il privilegio antico (altrettante “chiusure” interne del significato del testo che trovano una felicissima sintesi nella battuta del duca Gaspare, parodia della celebre affermazione di d’Azeglio - Ora che abbiamo fatto l’Italia dobbiamo fare gli affari nostri!), il solo comizio già dice molto di come il testo funziona: un discorso d’occasione che ne contiene un secondo, occulto, denunciato dalla raffica di negazioni che lo scandiscono. Attenzione: si tratta di negazioni che agiscono sulla superficie del testo, che vanno lette come spia di una menzogna di cui non solo Consalvo stesso è consapevole, ma lo è chiramente perfino il lettore (non il destinatario interno, invece). La grandiosa e demoralizzante forza del romanzo di De Roberto sta proprio nella coraggiosa esplicitezza della demistificazione, del disvelamento, del disinganno, appunto. Perché al discorso pubblico segue quello privato, al capezzale della zia Ferdinanda, furiosa per quella uscita pubblica del nipote (una parlata da “cavadenti”!). Di questa seconda orazione il testo dice:

«(…) egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di quello tenuto dinanzi alla

canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo (…)»407

E quel discorso demistificatorio prende le mosse dall’ammonimento paterno a seguire la corrente:

«Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio va in Parlamento.»408

e prosegue secondo il Leitmotiv: la differenza tra ‘prima’ e ‘adesso’ «è più di nome che di fatto», «il mutamento è più apparente che reale», fino alla banalizzazione del vichianesimo, «non c’è niente di nuovo sotto il sole! »:

«La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano (…) ma la differenza è tutta esteriore. »409

407 F. De Roberto, I Viceré, Torino, Einaudi, 1990, p. 696, tutte le citazioni sono da considerarsi relative a

questa edizione.

Il discorso sul trasformismo si impone alla fine del romanzo per quello che è:

consciamente ed esplicitamente il discorso più spregiudicato e riprovevole si attesta

quale discorso vincente. Al discorso di copertura ha creduto solo il destinatario interno, appunto, obnubilato, ipnotizzato dal solleone: l’istanza conflittuale è stata già assorbita – a livello conscio ed esplicito - dentro l’ideologia vincente.

Non un romanzo a tesi, tuttavia. Non nel senso che l’autore avanzi un programma alternativo, non nel senso che il testo si schieri e faccia coincidere il suo messaggio con un discorso o con l’altro. Questo è un fatto fondamentale. Semmai un romanzo di fredda denuncia. Il messaggio politico e filosofico, la propaganda di un autore militante sono scongiurati dall’incalzare dei fatti, dalla successione del narrato; è un romanzo che «non contesta esplicitamente nessun ordine di fatti e di istituzioni in nome di un programma o di una ideologia, rimane fedele a una sua ottica totalmente empirica, ad un suo orizzonte dell’hic et nunc (…)»410. Carlo Alberto Madrignani parla di uno spaccato di “vita vera” che ci mostra gli attori non ancora mascherati, prima che si alzi il sipario. Ma anche, si potrebbe dire, a farsa finita, quando la maschera cade, per cui tutto il romanzo appare un processo di “disoccultamento” della natura del potere, che la fines’impegna a far trionfare nel discorso “fuori dai denti”, in cui il privato svela la natura profonda del pubblico, il nascosto cambia di segno a ciò che era palese411. E la metafora della razza,

tema di fondo del romanzo, rivisitazione autoctona dell’implacabile condanna dell’erediatrietà, agisce da perfetto sigillo alla verità storica dell’immobilità sociale:

409 p. 696.

410 La pregevole introduzione di Carlo Alberto Madrignani continua così: «Ne I Viceré (…) la narrazione

ingloba ogni possibile tentazione al messaggio politico e filosofico; i fatti si succedono senza requie, in un fitto incalzarsi che non lascia spazio per indugi descrittivi o meditativi. Mai il narratore permette che trapeli il segno di un distacco extranarativo che ponga il lettore fuori della totalità narrativa, in un