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Ragioni della fine: per una retorica della clôture

5. Soglie: per una road map della fine

Per quanto la recente critica abbia trascurato la cosa, dunque, l’organizzazione dell’explicit era stata attentamente codificata dalla retorica antica. E, tuttavia,

200 Père René Rapin, Riproduzione dell’ed. Muguet1674, Reflexions sur la poétique d’Aristote et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes MDCLXXIV, p. 137.

nonostante gli esempi fatti sopra confermino una persistenza di quel codice ben oltre il genere dell’orazione giuridica, di fatto le situazioni che si danno nei testi letterari sono molto più eterogenee e certamente più complesse.

Il romanzo manzoniano, cui già rimandavamo sopra, mette in risalto un aspetto importante del nostro oggetto d’indagine: la diffrazione tra scioglimento della trama (al capitolo XXXVI col ricongiungimento dei due innamorati e la benedizione delle future nozze) e la vera conclusione, che arriva solo al capitolo XXXVIII. Nel discorso narrativo, in effetti, molto di più che in quello giuridico, si può porre il problema di una non coincidenza dei momenti che articolano la fase conclusiva, con una scansione dei vari passaggi più sfumata – e anche molto diluita sulla superficie del plot. Se, come sostiene Hamon, la percezione di un effetto di saturazione delle attese del lettore si dà nel momento della convergenza dei tre significati della parola fine, in quanto fin,

finition, e finalità, è però impensabile concepire tale convergenza sempre come un fatto

puntuale e non, anche, come effetto progressivo di un processo. Hamon scriveva:

«(…) il est certain que le problème de la fin du texte (sa clausule proprement dite) est lié à celui de sa finalité (de sa fonction idéologique, ainsi que du projet de l’auteur d’écrire un texte plus ou moins lisible, à l’information plus ou moins différée, et d’axer sa mise en œuvre sur tel ou tel élément de la communication – textes phatiques, conatifs, référentiels, etc ), ainsi qu’à celui de sa finition (au sens traditionel de «clôture», de coherence interne, de «fini» stylistique et structurel – comme on parle de la finition d’un objet manufacturé, d’un bricolage, ou d’un produit artisanal. » 201

Se la fin, infatti, può coincidere col passaggio ultimo del testo e la finition con l’effetto di coesione stilistico-strutturale che si costruisce lungo tutto l’asse diacronico del testo, la finalité è momento ben più difficile da isolare202. Dove inizia questo processo che realizza il telos del testo? Come descriverlo nei suoi sviluppi e dove segnare il suo arresto?

Si tratta di una domanda che ci poniamo in queste pagine anche rispetto a quei romanzi che affidano la chiusa a un discorso conclusivo serrato e ben riconoscibile nei suoi effetti, che occupa precisamente la porzione finale del testo. Ne Le Confessioni di

un italiano, ad esempio, abbiamo messo in evidenza una fine ampiamente articolata e

201 cfr. P. Hamon, Clausules, cit. p. 499.

202 Anche A. Kotin Mortimer ha affrontato in più occasioni il problema della clôture come problema della

finalità di un testo, cfr. Narrative Finality, in Studies in 20th century Literature, 1981, iss. 2, pp. 175-195. Su questi presupposti, nel suo intervento di maggior respiro, ha elaborato una tipologia fondata su modelli tematici. Cfr. La clôture narrative, cit

rispondente alle principali esigenze di una peroratio (sintesi, miseratio, sentenza finale). E tuttavia non abbiamo detto tutto, precisamente perché la chiusura di un testo è il risultato di una operazione più vasta che rimanda agli equilibri delle istanze in gioco, appunto.

E’ proprio qui, mi sembra, che la teoria della clôture, fondata sull’interazione dei tre parametri – fin, finition, finalité – può utilmente combinarsi con quell’approccio che vede nel testo letterario un campo di forze in scontro e il terreno di un possibile compromesso. La clôture così intesa è appunto un processo dinamico e continuo, che comincia dal titolo stesso dell’opera e trova, sulla soglia finale, non solo la sua definitiva sanzione ma anche la spinta a un processo di rilettura dell’organizzazione tutta del testo che ne fa emergere la rete di rapporti tematico-strutturali.

Di qui anche il grande rilievo strategico da darsi alla frase finale, fatto trasversale ai generi se la poesia vi ha dedicato grande attenzione. In epoca di forte codificazione203, Federigo Meninni nella sua teoria del sonetto (1678) 204 registra che sin dal Petrarca molti componimenti si chiudono con sentenze, perché alla sentenza appartiene la moralità e con questa il componimento può terminare gravemente, ovvero con nota sublime degna di plauso. Il Meninni redige perfino un censimento delle figure che più frequentemente compaiono nei sonetti ad enfatizzare la fine, distinguendo tra figure (argutezze) che danno una nota umile, temperata o sublime. E a Tasso, che vorrebbe rinunciare alle acutezze in chiusa per non assuefare il lettore alla sorpresa finale, risponde:

«le ferite delle acutezze sono desiderate, anzi aspettate, benché nel modo inaspettate; dunque quando il lettore le sta aspettando nel fine per l’uso che ne ha, e non le ritrova, resta per così dire ingannato e privo d’un doppio diletto, cioè dell’arguzia e del desiderio d’aspettarla.»205

E invoca l’inaspettata conclusione, la quale «oltremodo rende vaghi i sonetti»206.

203 Per un panorama esaustivo, almeno della vasta produzione cinquecentesca, si veda Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a c. di B. Weinberg, Bari, Laterza, 1970, II. Voll.

204 F. Meninni, Ritratto del sonetto e della canzone, a c. di C. Carminati, Lecce, Argo, 2002. 205 ibidem, p. 84.

206 A meno che l’artista non sia - come teme James in The Art of fiction - un medico sadico che priva il

paziente di tutto ciò che più gli piace: «The ending of a novel is, for many persons, like that of good dinner, a course of dessert and ices, and the artist in fiction is regarded as a sort of meddlesome doctor who forbids agreeable aftertastes.»

La teoria, proprio a partire dall’effetto di sorpresa ingenerato dalla sentenza finale, si è posta la questione ben più vasta del condizionamento delle aspettative di un lettore già familiare con certe strutture letterarie, aspettative condizionate non solo sul piano dello sviluppo tematico, ma proprio quanto alla prevedibilità del punto e della natura della conclusione. Ma la Herrnstein Smith, nel suo studio sulle strutture del sonetto – riconosciuto, nella poesia occidentale, come la forma poetica più codificata e, forse, la più familiare al lettore - precisa:

«Our pleasure in a poem does not consist in having all our expectations gratified but, on the contrary, that the effective power of poetry lies in what it can do with those expectations. »207

La questione – che il Meninni anticipava, ponendola però su un piano meramente estetico – è complessa perché implica la domanda se la familiarità con una conclusione convenzionale attenui, presso il lettore, l’effetto di chiusura e induce a chiedersi se il sistema d’attesa generato alla prima lettura di un testo (che sia lirico o in prosa) possa rimanere lo stesso a una seconda lettura: fino a che punto la risposta al testo è condizionata dalla nostra precedente esperienza, dal sapere che cosa sta per succedere208? La Herrnestein Smith insiste sul fatto che, nonostante questo condizionamento sia innegabile, esso è in realtà meno importante di quanto si possa di primo acchito supporre. E questo precisamente perché la conoscenza specifica di un’opera non può mai essere completa abbastanza da andare oltre il sistema di attese creato, di volta in volta, dalla struttura del testo in sé: non soltanto perché c’è la naturale tendenza a rimuovere ciò che già sappiamo per il piacere di assaporare ciò che avevamo portato meno a coscienza, ma anche perché nuove aspettative si generano nel lettore a partire da nuove esperienze extra-letterarie e queste esperienze ne influenzeranno le attese, a prescindere dalla familiarità ch’egli abbia col testo209. Il che vuol dire anche

che connessioni e somiglianze possono sempre illuminarsi all’improvviso e il lettore può riconoscere principi strutturali anche a successive letture:

207 B. Herrnestein Smith, Poetic Closure, cit., p. 110.

208 La domanda è pertinente anche al piano formale, non soltanto sul fronte dell’intreccio. 209 B.Herrnestein Smith, Poetic Closure, cit., p. 55.

«each reading is, in a sense, a new and unique experience, the quality of which continues to depend as much upon the relation of the poem’s structure to all our experience as upon our previous experience with that poem or others like it in form. »210

Queste considerazioni presuppongono, evidentemente, un approccio al problema della fine come attraversamento di una struttura complessa, come processo nella diacronia del testo e non solo come luogo ultimo. Quello che la Herrnstein Smith chiama “retrospective patterning”211 è proprio il processo di ri-adeguamento delle attese che il lettore mette in atto ad ogni nuovo frammento testuale che, parte di una catena semantico-formale, costringe non soltanto a ri-orientare le nostre aspettative relativamente ai futuri anelli della serie testuale, ma a riassettare la nostra percezione di quelli precedenti. La frase finale costituisce proprio il limite oltre il quale il pattern non è più modificabile.

Sulla questione di una riconoscibilità del luogo della fine materiale del testo, già all’Aristotele della Poetica era chiaro un discrimine tra lusis, con cui si intendeva uno sviluppo di sequenze, e telos che invece era la scena ultima della tragedia212. Da una parte, dunque, il dipanarsi del nodo della trama, che è esso stesso scioglimento; dall’altro lato, in fondo al testo, il serrarsi di un altro nodo, quello della chiusa efficace e appagante. Immagine baroccamente decostruzionista, se si vuole, per una distinzione in apparenza limpida e logica. Nei fatti, però, quando volessimo ritagliare lo spazio testuale dello scioglimento e soprattutto marcarne il margine iniziale, l’operazione potrebbe rivelarsi assai arbitraria: dove si segna il confine tra lo sviluppo della trama e il suo cominciare a sciogliersi e a risolversi? Il testo segnala esplicitamente al lettore il passaggio verso la fase conclusiva? E quali sono i mezzi per annunciare l’attraversamento di una soglia oltre la quale non ci sono più gli infiniti possibili dell’avventura ma la tranquilla navigazione verso il porto d’arrivo? Una frase, un paragrafo, un capitolo, un segmento qualsiasi del testo, o forse un punto strategico, un procedimento retorico? Come si presenta – se si presenta - e dove si colloca l’interruzione della continuità che marca il margine?

210 ibidem, p. 56.

211 ibidem, p. 13. Gli esempi adottati dalla Smith sono estrapolati dalle catene alfabetiche usate nei test per

valutare il quoziente di intelligenza, dove si distingue tra serie grafica e serie sonora (quindi tra spazio e tempo) e tra chi padroneggia la lingua e chi no.

L’auspicio formulato in Clausules, affinché la questione dello spazio della fine fosse prima o poi esplorata con attenzione, ha trovato soddisfazione vent’anni dopo quell’inaugurale articolo, quando Larroux, nel già citato Le mot de la fin, ha gettato le basi per una descrizione dell’oggetto in questione, operando tanto su un concetto di clôture come programma del testo e successione logica di operazioni da compiersi sulla sua interezza, quanto su clôture intesa come ultimo brano, riconoscibile e potenzialmente autonomo213. Lo studioso francese ha posto con rigore il problema della “materialità” della fine: fondandosi su un principio di eterogeneità (il brano della fine è riconoscibile perché introduce a un qualche livello una identità alternativa a ciò che viene prima) e in vista di descrivere un apparato di strategie di clôture, ha lavorato a delimitare la porzione finale di testo, la sua organizzazione interna e la sua correlazione con le altre parti. Più precisamente, Larroux ha riflettuto sulle modalità attivate dal romanzo per:

• delimitare (con scansioni, segnali demarcatori, soglie),

• organizzare (articolando scioglimento, epilogo e frase finale), • annunciare (con frasi esplicite, disomogeneità, ridondanze), • accentuare (investendo o no di enfasi il messaggio finale)

la sua Fine.

A partire da quel confine esterno che è il punto finale e attraverso il riconoscimento di segnali demarcatori lo studioso arriva a precisare lo spazio di testo corrispondente alla fine e a sottolinearne le partiture interne. Ma se, negli snodi fondamentali, la ripartizione di Larroux ripropone – perfino inconsapevolmente - un sistema che già abbiamo visto agire nel discorso antico destinato al tribunale, le funzioni di ciascun elemento si complicano.

Nel sistema-fine proposto da Larroux, la fin est avant la fin, ovvero, come già in Aristotele - e non invece nella retorica del discorso forense - si riconosce l’importanza sul piano narrativo di un complesso e articolato processo di avvicinamento alla conclusione, lo scioglimento. Se l’orazione antica si limitava a un sommario dei principali fatti, per arrivare concisamente alla tesi finale, il discorso narrativo ha il problema di una trama che deve essere verisimilmente ricomposta, in una operazione risolutiva su fronti molteplici: quello tematico, quello strutturale e formale, quello enunciativo. E’ pur vero che nel discorso narrativo permane – e lo abbiamo visto molto chiaramente nella chiusa del romanzo nieviano – la 'forma sommario', tuttavia, oltre

questa funzione di ricapitolazione dei fatti Larroux ne identifica una seconda che, all’interno del genere romanzesco, andrà assumendo una valenza sempre maggiore e che, in certo romanzo naturalista, finirà coll’assorbire la chiusa tout court. A livelli diversi di intensità, infatti, l’epilogo, comporterà uno squarcio di luce sul tempo successivo ai fatti narrati214:

«L’epilogue est un discours postposé, de l’information surajoutée à ce que l’on vient de dire, cela conformément à l’étymologie (du grec epilegein : dire en outre, ajouter).»215

Larroux insomma mette in evidenza il fatto che nel discorso narrativo l’epilogo non solo riassume ma può apportare qualche informazione supplementare, che comunque non rimetterà in discussione lo scioglimento già raggiunto. Come effetto dello scioglimento, l’epilogo si collocherà, allora, in una posterità rispetto a quello (di qui il frequente uso del tempo presente e il ricongiungimento dei fatti narrati col tempo della narrazione), anche per questo occupando uno spazio autonomo e riconoscibile (talvolta anche sul piano grafico) nel corpus del testo.

L’ultimissima tappa di quest’articolazione interna è quella sentenza finale di cui già parlavano gli antichi, e che abbiamo detto essere così decisiva per la riconoscibilità del modello di riferimento.

A questi snodi andrebbe, a mio parere, aggiunta la méditation finale, che Larroux ascrive invece ai procedimenti di accentuazione216. Espressione così tipica della chiusa romanzesca, almeno fino a una certa data, questo snodo del testo mi pare da qualificarsi piuttosto che come tecnica di enfasi, come passaggio autonomo, anticipazione più vasta della sentenza finale (che talvolta comprende o sostituisce).

Si tratta di uno spazio specifico che la retorica antica faceva coincidere o, se si vuole, limitava alla sentenza finale. Del resto le esigenze del discorso forense erano altre, giova sempre ricordarlo, e parte delle argomentazioni atte a questo scopo restavano comprese nella miseratio. Nel discorso narrativo, invece, la morale finale copre spesso un segmento autonomo che assolve alla puntuale funzione di assumere nel testo l’interpretazione stessa. Il peso di tale funzione interpretativa potrà essere affidato a un personaggio, ma più scopertamente può intervenire il narratore, quando l’autore

214 Già nell’esempio nieviano, in effetti, il penultimo passaggio del brano finale si risolveva in una

proiezione nel futuro.

215 G. Larroux, Le mot de la fin, cit., p. 153. 216 ibidem , pp. 92 sgg.

stesso non prenda la parola per suggerire un’interpretazione, imporre un punto di vista ideologico, iscrivere il testo entro un sistema di pensiero. Lo spazio di collocazione di tale passaggio può variare, ma ciò che rileva è che in taluni casi esso si esibisce in tutta la sua autonomia e consapevolezza, rifiuta di fondersi nello scioglimento o nel sommario, di mascherarsi dietro la frase finale, per fare invece bella mostra di sé:

« Grazie a tutte queste circostanze, il generale, poco dopo le nozze della figlia, permise al figlio di tornare a Northanger e di là lo fece messaggero del suo consenso, molto cortesemente espresso in una pagina piena di vuote manifestazioni di stima per il signor Morland. L’evento che quel consenso autorizzava non tardò: Henry e Catherine si sposarono, le campane suonarono e tutti sorrisero; e poiché questo accadde entro un anno dal loro primo incontro, si potrà vedere come i tragici ritardi dovuti alla crudeltà del generale non li ferissero a lungo. Iniziare una perfetta felicità all’età rispettiva di ventisei e

diciotto anni non è cosa da poco; e poiché sono convinta che l’ingiusta interferenza del generale, ben lungi dal minacciare davvero la loro felicità, sia stata piuttosto tale da favorirla, approfondendo la loro reciproca conoscenza e rendendo più forte il loro affetto, lascio decidere a chiunque sia interessato alla cosa se la tendenza di questo libro sia di raccomandare la tirannia paterna o di premiare la disobbedienza filiale».217 (corsivo mio)

Siamo alla chiusa de L’ abbazia di Northanger (1818): alla prima parte del brano - un tipico sommario che segue le brevi pagine dello scioglimento e riassume in qualche linea gli eventi di diverse settimane - segue la notizia, così piacevolmente concisa, dell’avvenuto matrimonio, che mette fine alla trama. Quindi, a chiudere tutto, l’appello al lettore e l’interpretazione, estroversa e marcata, suggerita dall’autrice.

Del resto, se parliamo di esplicitazione della morale finale pensiamo senz’altro a quei testi in cui più forte è la presenza del narratore onnisciente – se non dell’autore stesso - che interviene di frequente con riflessioni e commenti; pensiamo cioè, soprattutto, al romanzo settecentesco che può deliziarci proprio per la sfumatura così spesse volte ironica di questi immancabili interventi (da Fielding a Sterne, passando per il romanzo illuminista francese). Ora, la tradizione anglosassone, molto più di altre, resta sotterraneamente fedele a questo tipo di voce se Jane Austen, perfino nell’uso dell’indiretto libero218 continua a farsene interprete, e nemmeno Thomas Hardy, il più vicino al naturalismo tra i maggiori romanzieri britannici219, ha mai veramente

217 J. Austen, L’ abbazia di Northanger, trad. it. Milano, Mondadori, 2005, p.220. 218 cfr. F. Moretti, Il secolo serio, cit., p. 719.

219 A questo proposito si dovrebbe almeno citare un altro nome, ovvero quello di Henry Gissing, più

rinunciato ad una voce narrante onnisciente e ad una presentazione raccontata invece che mostrata. Di volta in volta assunta dal personaggio (si pensi alla morale elaborata da Levin a chiusa di Anna Karenina), dal narratore (semmai anche in regime d’ironica condivisione di responsabilità coi personaggi, come fa quello manzoniano) o dall’autore senza nessun complesso, l’istanza didattica ritaglia nella chiusa uno spazio testuale autonomo tanto rispetto allo scioglimento narrativo quanto al sommario e può configurare una ulteriore forte cerniera interna all’unità finale. Charles Grivel ha parlato di “chiusa parlante” ogni qual volta un finale narrativo, non limitandosi a ricondurre all’ordine le deviazioni della trama, impone alla pluralità dei lettori un significato esplicito, riaffermando una relazione di forza tra romanzo e ideologia220.

Ora, le cose sono molto diverse per il naturalismo, giacché l’estetica della tranche

de vie comporta conseguenze struttrali e semantiche fondamentali sotto questo aspetto.

Da una parte, l’assenza di un cadrage determina l’assenza di una struttura significante (qui nel senso di ideologico) di per sé; d’altra parte l’assenza di voce d’autore non permette di rendere esplicita la morale alla fine della storia.Tutto allora è rimesso all’operazione ermeneutica del destinatario. Sarà, dunque, proprio l’organizzazione (in quanto dispositio) della materia narrativa e del patrimonio di figure stilistiche che scioglierà i conflitti in gioco nel testo, portando così alla luce una morale interna alla storia.

Scioglimento, epilogo, morale e sentenza finale sarebbero allora i quattro

momenti possibili221 di una più vasta parte di testo che chiamiamo, nel suo complesso organizzarsi, Fine.

Certo: «Tous les événements sont enchainés dans le meilleur des mondes possibile», afferma sonoramente Pangloss nella chiusa del Candide volteriano, ed è perciò arduo dire quando, risalendo all’indietro, il lungo viaggio di Candide sia cominciato a finire per il meglio. E tuttavia è possibile anche per noi “cultiver notre

jardin” e riconoscere nella prassi dell’analisi testuale quelle cerniere che permettono di

isolare il discorso della fine, il punto in cui si avviano a completamento i nessi della

220 C. Grivel, Production de l’interet romanesque, La Hague-Paris, Mouton, 1973, pp. 197-205. Ma cfr

anche G. Larroux, Le mot de la fin, cit., p. 96.

221 Perciò non necessariamente tutti sempre presenti nel testo: ciò che conta è, però, distinguerli come