• Non ci sono risultati.

Ragioni della fine: per una retorica della clôture

6. Effetti finali: dinamiche dell’ultima pagina

Dopo quanto detto, resta da chiedersi, dunque, se quell’ipotesi di ritualizzazione dei processi clausulari315 che determinerebbero la leggibilità del testo in rapporto ai suoi

312 Faccio riferimento qui alla lettura che dell’indiretto libero flaubertiano ha dato Franco Moretti in Il secolo serio, cit., p. 723.

313 E’ a tutti questi processi demarcativi, la cui lista è aperta, che Hamon dà il nome di clausules. Cfr.

anche G. Larroux Mise en cadre et clausulrité, cit. p. 4.

314 Per l’influenza della chiusa flaubertiana su Verga si veda G. Ragonese, L'epilogo dei Malavoglia e l'epilogo di Madame Bovary, in AA.VV., I Malavoglia, Atti del convegno internazionale di studi, Catania

1982, vol.1, p. 269 sgg.

315 Non solo nella formulazione di Hamon ma anche pensando a H.Bonheim che parla di closing topoi in The narrative modes – techniques of the short story, Cambridge, D.S. Brewer, 1986, p. 40.

modelli, e che si risolve in una accentuazione dei processi retorici di uscita dal testo, abbia una sua plausibilità teorica e una sua reale efficacia anche entro il genere romanzesco.

Nel frattempo si sono chiarite, infatti, esigenze molteplici. La prima, di tipo teorico. Ovvero l’impossibilità di attribuire eccessiva importanza allo scioglimento narrativo nella lettura dell’opera come un tutto coerente. Merito di Francesco Orlando aver fatto emergere la questione, almeno preliminarmente, rispetto a una definizione degli “statuti del soprannaturale nella narrativa”316. A proposito del fantastico così come codificato da Todorov - ciò che alla fine né si razionalizza nello «strano» né si conferma nel «meraviglioso»317 – Orlando esprime infatti un’esigenza che direi di autenticità. Nell’ultima parte de I misteri di Udolpho (1794) il soprannaturale finisce razionalizzato eppure, fatte salve le pagine conclusive appunto, il lettore della Radcliffe è sballottato per un fiume di eventi meravigliosi e fantastici: davvero basta la chiusa a negare ciò che per tutto il romanzo si produce e si rinnova? E così, più in generale, basta il finale “rose e fiori” a neutralizzare l’impianto tutto amaro e pessimistico posto da Dickens in Il

nostro comune amico (1864-65)? Su un piano tematico si tratta della stessa obiezione

che ponevamo all’inizio di questo capitolo a proposito della scena dialogata come topos conclusivo di un romanzo naturalista: basta davvero a farne un romanzo a chiusa debole? O ancora: è davvero impossibile, nella (pseudo)-autobiografia, riconoscere un effetto di clôture, anche quando la fine del testo sia neutralizzata fino al punto di scomparire?

Lo stilema dell’unfinished impedisce forse di riconoscere nel testo una rappresentazione completa del mondo, per quanto tutta negativa?

La seconda esigenza è di ordine metodologico. Ovvero, come negare il fatto che entro certi sotto-generi romanzeschi (dalle forme premoderne del romanzo alessandrino a quello di formazione, dal feuilleton al poliziesco a certa autobiografia e pseudo- autobiografia) le chiuse si fanno più prevedibili? In che considerazione tenere queste forme e su che base ritagliare lo scarto di quella particolare incarnazione del genere (e ad esso trasversale) che è il romanzo realista-naturalista, oggetto di questo lavoro? Rimandare a una teoria dei generi, insomma, non risolve completamente il problema che è anche, appunto, quello di una morfologia del romanzesco da tener presente quando si tenti un’operazione tipologica. Non solo all’epos quindi si deve contrapporre

316 cfr. F. Orlando, Statuti del soprannaturale nella narrativa, in Il Romanzo, cit., vol. I, pp. 195-226. 317 Si allude ovviamente alla tesi sostenuta in Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil, 1970

il romanzo che qui ci interessa. E questo precisamente per il fatto che l’epos non ne costituisce solo l’antecedente storico ma, come molta critica ha notato, la vera alternativa318: alla sua struttura compiuta e immutabile sta la struttura in divenire e problematica del romanzo,319 alla certezza di un senso stabile, alla capacità di cogliere il tutto unitario della vita, la ricerca frammentaria e spesso lacerata nei suoi risultati. Illuminante mi pare in questo senso - e perciò volentieri me ne servo – la sistemazione che Thomas Pavel ha suggerito per il genere romanzesco, distinguendo sulla base di un principio “ideografico”:

«Per quanto diversi, i romanzi idealistici seguono tutti uno stesso metodo di cui occorre distinguere i tratti essenziali. La loro credibilità non deriva dalla familiarità del lettore col mondo narrato: il lettore è invitato piuttosto a cogliere l’idea unificante che sorregge l’universo immaginario (in questo caso la separazione radicale fra il mondo sublunare e l’eroe che comprende la trascendenza della norma) e poi a chiedersi se quest’idea non illumini a modo suo l’universo ritenuto reale. I romanzi idealistici costruiscono laboriosamente un vasto universo fittizio molto diverso dal mondo della vita quotidiana, e lo presentano come una totalità coerente. Secondo questo metodo, che potremmo chiamare ideografico, l’universo immaginario è modellato da un’idea unificante che la moltitudine degli episodi evoca di continuo.»320

Criterio rispetto al quale nella storia del genere ai modelli puri, in cui i molteplici episodi convergono verso un solo fine (così nel romanzo ellenistico e in quello cavalleresco), si sono andati sostituendo modelli misti (da quello pastorale a quello picaresco, epistolare, sentimentale e storico) e nella contrapposizione tra romanzo idealistico o realistico è maturata la sintesi, per cui Pavel può parlare di un idealismo moderno come tentativo di conciliare la ricerca della virtù da parte dell’individuo (“l’anima bella”) con la prosaica verisimiglianza del mondo. Eppure una volta messa in campo l’imperfezione umana, una volta che essa sia stata sottratta al comico e osservata

318 Claudio Magris insiste nel parlare di un’epica presente anche nella modernità, cfr. in E’ pensabile il romanzo senza il mondo moderno?, in Il Romanzo, cit., vol.I, p.877.

319Nella vulgata bachtiniana alle origini del romanzo sta la tradizione comico-popolare che ha inaugurato

«la logica artistica dell'analisi», la concezione realistica del mondo, l'accettazione della “vita senza inizio e senza fine” come oggetto dell'arte. Il romanzoavrebbe così invaso il sistema dei generi, imponendosi come forma dominante e modificandoli. E’ a questo proposito che compare il termine di

“romanzizzazione” come di un processo che ha reso “problematici” tutti i generi letterari contagiati dal romanzo. M. Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it., Torino, Einaudi, 1979, p. 448 e pp. 462-465.

320 T. Pavel, Il romanzo alla ricerca di se stesso. Saggio di morfologia storica, in Il romanzo, cit., vol. II,

con serietà, una volta che l’individuo sia stato rappresentato in frattura col mondo che lo circonda, si fa dilagante la molteplicità normativa, il relativismo morale che trasforma il romanzo in una quête senza esito certo. Allora, solo al di qua di questo discrimine, entro cioè il terreno di un romanzo che rinuncia all’ipotesi astratta sulla sua essenza morale e che mette, invece, al centro l’imperfezione dell’uomo è possibile che il lettore si chieda, genuinamente:- Come andrà a finire? Cosa avverrà in seguito?321. Sempre, se all’istanza conoscitiva propria del romanzo anti-idealistico si antepone quella “ideografica” (così nel feuilleton, nel giallo, nel romanzo a tesi), la chiusa romanzesca diventa forte, ma soprattutto fortemente prevedibile. Viceversa, quando non rinuncia a muoversi in un mondo in cui il senso non è più immanente ma solo ipotetico, progressivamente irraggiungibile, quando, l’istanza mimetica prevale e il romanzo resta fedele all’idea di peripezia come ricerca, allora in fondo al testo nessuna chiusa può davvero essere scontata, la delusione o la conquista a sorpresa di un senso pieno322.

Il secondo Ottocento vede il trionfo di questo spirito critico e scettico e non a caso in proposito Pavel parla di anti-idealismo maturo323. E’ a questo romanzo, alle sue

contraddizioni e alle sue multiformi soluzioni che guardiamo in questa ricerca. Perché se è vero che il romanzo, più di qualsiasi altro genere letterario, si fa portavoce di istanze molteplici, il romanzo del Secondo Ottocento, come espressione di una modernità ideologicamente “debole”, “sporca”, adattabile e precaria, è espressione della contraddizione e del compromesso piuttosto che delle certezze. La negazione di un senso trascendentale è corollario imprescindibile del determinismo, anche in letteratura; pure, lo slancio irrazionale che spinge alla ricerca di una autenticità di sé, di una armonia tra individuo e mondo travolge Emma, ‘Ntoni, Effi, paralizza Fréderic e acceca Thérèse, confonde per un attimo Désirée, serpeggia nel cuore di Gesualdo e schiaccia quello di Pierre…La rassegnazione alla razionalità superiore, la legge di natura, non avviene senza lotta, l’accettazione dell’imperfezione come verità ultima della condizione umana può essere - ed è - messa in discussione, il riconoscimento

321 In questo parzialmente correggendo Bachtin che attribuiva già queste domande al lettore di romanzo tout court.

322 cfr. C. Magris, E’ pensabile il romanzo senza il mondo moderno?, cit., p. 876.

323 Anche se in questo caso non viene dato il giusto peso al fatto che proprio nel seno del Naturalismo

vale una e una sola legge fuori dall’uomo, quella del milieu – anche più di quella dell’ereditarietà. Pavel si limita a parlare di pessimismo rimuovendo un aspetto importante della questione, perché tutto si è ribaltato: la legge che è fuori dell’individuo impedisce ogni ricerca di un nuovo sé. E sarebbe da chiedersi se nell’orizzonte più vasto del ciclo – da Zola a Verga - sia invece riconoscibile una fuga al determinismo.

dell’infingardaggine morale è l’ultimo ad arrivare, il conflitto tra intima aspirazione e legge sociale si consuma fino alle soglie del testo. Come luogo geometrico di questo scontro, il finale assume allora un significato pregnante solo se siamo disposti a riconoscerlo come spazio dinamico, entro il quale possono trovare un equilibrio le molteplici istanze, vengono rappresentate tutte e tutte insieme le varie anime del testo, convivono i suoi opposti significati, perdurano (o si sacrificano) i conflitti. Solo a patto di lavorare sul finale come spazio ultimo di una formazione di compromesso avrà senso provare a far affiorare una tipologia delle strutture profonde.

Non gli scioglimenti allora, non i temi (morti e matrimoni, premi e felicità) né le forme (scena dialogata, presente verbale versus voce del narratore, morale della favola). Almeno, non solo. Questi elementi presi singolarmente non dicono niente, soprattutto perché a volerne tirare fuori una tipologia non si va lontano, ché il genere male si presta. Questi ed altri elementi ci interessano solo quando li facciamo interagire, quando li consideriamo parti di un puzzle, ricomposto il quale ci avvicineremo a una espressione del conflitto che abita il testo. Se abbiamo chiaro il senso che col naturalismo si apre una crisi dell’idea forte di fine romanzesca legata a eventi topici come matrimonio e morte, la strada da battere non è, credo, la ricerca di temi, immagini, eventi sostitutivi, e neppure quella di limitarsi a una cartografia delle forme – chiusa al presente, scena dialogata, battuta interlocutoria, cambio di fuoco, di voce narrante etc. - ma di analizzare i modi in cui quegli eventi vengono privati del loro senso pregnante. E questi modi investono ogni aspetto del passaggio finale – retorico, tematico, simbolico – e soprattutto la sua organizzazione. Se certi eventi non bastano più a stabilire un senso forte alla fine di una trama, dobbiamo partire alla ricerca di tutti gli elementi che ne determinano la corrosione: ecco allora l’importanza di un cambio di fuoco, di voce, di una figura della negazione.

Si tratta, insomma, di fare un passo oltre la giustissima constatazione di Hamon circa la compresenza dei “tre fattori” come condizione necessaria e sufficiente all’effetto finito. Non sempre queste tre linee convergono nel luogo della fine materiale e talvolta si muovono perfino l’una contro l’altra, con la conseguenza di lasciare aperte le dinamiche del testo e privare il lettore dell’effetto finito. Fare un passo oltre l’impostazione di Clausules significa partire dal presupposto che una tipologia della clôture deve interessarsi anche a tutte le situazioni in cui l’effetto finito non è garantito e

cercare una relazione tra questa inadempienza e il mancato incontro di fin, finition et

finalité.

Ci soccorrerà quella retorica delle passioni di cui parlavamo sopra, perché è proprio il concetto di appagamento del desiderio ermeneutico che farà da bussola in questo viaggio sugli equilibri del testo. Perché il primo, il più immediato, il più genuino “effetto finito” coincide con l’appagamento del desiderio conoscitivo. La stasi di una saturazione immediata del senso, il godimento di una aspettativa subito soddisfatta, la rassicurazione, la fiducia sulla possibilità di una coerenza immediatamente visibile non sono soltanto percezioni soggettive del destinatario empirico, ma effetti inscritti nel testo che risolve d’un coup, nella scena finale il suo dinamismo, le sue tensioni. Viceversa, frustrazione, curiosità, rinuncia sono l’esito di una opacità di quegli equilibri, dell’impossibilità di risolverli pienamente e sono all’origine di uno slancio retrospettivo che porta il lettore a cercare ancora e ancora un senso, ora solo con le sue forze, pieno di un desiderio ancora vibrante.

Se provassimo a schematizzare questa dinamica delle passioni mobilitata dal finale narrativo, dovremmo forse mettere le cose in termini di azione/reazione. La soluzione delle tensioni del testo e l’affetto messo in moto presso il destinatario non costituiscono solo l’espressione soggettiva dell’emotività del singolo lettore, ma corrispondono ad effetti, a reazioni che sono inscritte precisamente nel testo, mobilitate da una specifica organizzazione della materia. Se intendiamo il testo narrativo come un codice da attualizzare, infatti, la capacità massima del lettore empirico di comprenderlo, di scioglierne le figure, di trarne piacere porta per ipotesi ad una sua identificazione col lettore implicito, quello per il quale tutte le figure sono comprensibili. Per questo destinatario ipotetico (e solo potenzialmente perfetto) Orlando ha parlato di funzione- destinatario324 ed è a questo interprete che noi consideriamo rivolte tutte le istruzioni di lettura, perfino quelle che sollecitano una reazione emotiva (si pensi all’analisi che sopra si faceva de Le confessioni di un italiano), che ne fanno dunque un effetto del testo.

Nel discutere questa dinamica seguo, apparentemente, un percorso a ritroso per cui sospendo e rinvio al prossimo capitolo l’analisi sul fronte attivo da parte del testo nel determinare e risolvere certe dinamiche, e parto invece dalle “reazioni a caldo”, dagli effetti che la chiusa orienta.