Capitolo 2. La definizione dei Bisogni Educativi Special
2.2. Dal Problematicismo Pedagogico all’Index for Inclusion
Il contesto socio-economico, linguistico e culturale in cui il bambino nasce e cresce è davvero un elemento tanto limitante e vincolante per lo sviluppo della persona? O, per usare le parole di Heidegger (1976) c’è modo di andare oltre questa gettatezza? L’uomo si ritrova, infatti, “gettato nel mondo” alla nascita, senza la possibilità di scegliere molteplici elementi che sono e diventano parte della sua vita: le caratteristiche fisiche, la famiglia, il luogo di origine, il tempo/l’epoca in cui abita sono solo alcuni dei fattori
casuali che segnano l’avvio della sua esistenza. Molto è, dunque,
determinato, quindi è necessario potenziare l’apertura alle possibilità di costruirsi (in) una progettualità esistenziale personale e collettiva. È responsabilità dell’educazione aprire a tali possibilità, valorizzando e accogliendo la complessità e la problematicità intrinseche nell’individualità di ciascuno e nell’esperienza educativa in genere.
In termini pedagogici, che noi accogliamo come scelta lessicale in questa tesi, Bertin (1975; Bertin, Contini, 1983; 2004) connette il concetto di
gettatezza, di condizione data (fattori genetici, biologici, familiari, sociali,
culturali, politici ecc.), con quello di diversità. La diversità va riconosciuta e accettata come situazione di partenza da cui evolvere, crescere e costruirsi un’identità individuale e sociale; non deve essere il pretesto per avviare processi di classificazione, esclusione o discriminazione, specialmente nel caso in cui tale diversità si scontri con logiche di “normalizzazione”.
Si discosta da questa definizione pedagogica, invece, il concetto di
differenza: la differenza si riferisce al patrimonio delle possibilità che
permettono di superare la condizione data alla nascita e i condizionamenti che si incontrano durante il corso della vita. L’obiettivo è, infatti, quello di non identificarsi con essi, non rimanere celati da caratteristiche che non è dato scegliere, ma di aprirsi al campo del possibile, su cui basare la propria
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Specialmente in educazione, la differenza ricopre un ruolo estremamente significativo perché è proprio nello scarto tra la gettatezza e il possibile che si costruisce una progettualità (educativa) basata sull’originalità e sulla peculiarità della persona nella sua complessità in divenire, allontanandosi dall’idea di diversità che rischia di ridursi a “distanza dalla norma”.
Pensare alla complessità può sembrare paradossale e rischia di provocare in noi un senso di vertigine e spavento. Imparare a fare i conti con questa complessità è dunque la sfida che ci attende, una sfida che richiede coraggio ma soprattutto impegno per non ricadere nel trabocchetto dell’adesione a verità incondizionate destinate a rivelarsi di lì a poco inevitabilmente relative (Sannipoli, 2015, p. 9).
La sfida educativa è infatti quella di credere nell’educabilità di tutti (Caldin, 2013), anche di coloro che, soggetto e oggetto della nostra indagine, vivono situazioni di particolare svantaggio o condizione di bisogni educativi speciali. E la responsabilità educativa assume, quindi, nella relazione educatore-educando, uno sguardo che va oltre la difficoltà e prende in considerazione la globalità dell’allievo in un’ottica di progetto di vita. Uno sguardo, però, che rischia di essere ostacolato da un’idea di “normalità” nel confronto con la quale si interpreta la realtà: alle norme ci si rapporta quotidianamente, individualmente e socialmente.
Viviamo in un mondo di norme. Ciascuno di noi cerca di essere normale – oppure di evitare in modo deliberato tale stato di normalità. Decidiamo che cosa la persona “normale” deve fare, pensare, guadagnare o consumare e classifichiamo la nostra intelligenza, il nostro livello di colesterolo, il peso l’altezza, la tendenza sessuale e le dimensioni del corpo lungo una sorta di linea concettuale che va dal subnormale al superiore alla media (Davis, 2015, p. 41).
Da chi persegue la normalità ossessivamente, a chi la contrasta, da chi la lavora e ne è vittima, da chi la celebra a chi la critica o la nega
(Medeghini, 2015), il rapporto con la norma non è valutabile secondo fattori quantificabili, ma attraverso percezioni comuni e rappresentazioni sociali (Moscovici, 1984) costruite culturalmente. Anche con l’obiettivo di andare
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oltre l’idea che il concetto di norma e normalità determini il concetto di diversità, bisogni educativi speciali o disabilità, non si può non considerare che la “normalità” è elemento centrale della società attuale, profondamente funzionalista e omologante. Ciò che vi si discosta, ciò che viene considerato “anormale”, è dunque prodotto dal dispositivo moderno della normalità, sostiene Medeghini (2015) riprendendo Armer (2004): questo ha facilitato
l’insorgenza dell’“eterofobia” (Bauman, 1898) come avversione per i “diversi”; in questo senso, l’esclusione dipende dal confronto con le culture
e con le idee di normalità socialmente condivise che avviano un processo di distinzione e differenziazione fra gruppi.
Le categorie interpretative che possediamo sono in grado di comprendere le differenze fra le quali viviamo e delle quali facciamo parte?”, “E se la nostra fatica a comprendere fosse legata a una teoria della mente fondata essenzialmente sul dispositivo di norma e, quindi, incapace di comprendere altre vite se non quelle che confermano il dispositivo normativo e, soprattutto, il nostro essere normali? (Medeghini, 2015, p. 26).
Questi interrogativi provocatori, proposti dall’esponente già citato dei Disability Studies27, Roberto Medeghini, aprono questioni importanti sul tema della indagine che affrontiamo: è davvero il confronto/scontro con la “normalità” che orienta la scelta di definire i BES?
Certamente la scelta lessicale gioca un importante ruolo: definire i bisogni come “speciali” evoca l’idea di esigenze non ordinarie.
Senza voler fare collegamenti causali troppo affrettati, possiamo dire che “speciale” è perlomeno un termine ambiguo: a seconda del contesto, può significare “singolare”, “insolito”, oppure “di speciale importanza”. Speciale indica caratteristiche o capacità individuali al di fuori della norma:
27 I Disability Studies (DS), come area di studio e di ricerca sociologica ed educativa, traggono origine dall’attivismo delle persone con disabilità alla fine del secolo scorso, inizialmente in Paesi di lingua e cultura anglosassoni (in particolare nel Regno Unito e negli Stati Uniti) e poi diffusi principalmente in Europa settentrionale e occidentale.
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potrebbe riferirsi ad un talento eccezionale, oppure alla assoluta mancanza di talento.
La distinzione tra bisogni ordinari e speciali non è un fatto empirico. Piuttosto è una questione di giudizi e di valore di tipo normativo, su che cosa sia buono e valido per gli alunni (Vehmas, 2015, p. 212)
In questo senso, i processi di classificazione e categorizzazione trovano nella norma il loro presupposto e nel linguaggio normativo e specialistico il loro esito, rischiando di dare il via a quella che Vehmas (2015, pp. 212-213) definisce la retorica del “bisogno speciale”: quando una persona ha un bisogno, questa resta all’interno dei confini della normalità (statisticamente e da un punto di vista normativo), perché l’avere un bisogno non indica se questa persona sia capace o meno di raggiungere il fine che definisce il bisogno in questione. Quando, invece, una persona ha un “bisogno speciale” la sua condizione è in qualche modo deviante e non auspicabile.
Consapevoli che la scelta di utilizzare la dicitura BES nasce da un cambiamento terminologico che, dagli anni Ottanta, punta ad allontanarsi dall’uso di un linguaggio discriminatorio, della devianza e dell’esclusione, abbiamo ritenuto essenziale, ai fini educativi e pedagogici della nostra indagine, indagare le pericolose criticità insite nel chiudere le differenze in codici linguistici e sigle – processo che alimenta la tendenza a spiegare tutti i problemi presenti a scuola in termini di difficoltà/deficit/fragilità individuali dell’alunno.
Il rispetto alla diversità e il diritto alla differenza si concretizzano in una scuola che si fa carico delle specificità e delle peculiarità di tutti:
Quella che desideriamo è una scuola che non chieda di essere “forti”, ma in cui sia possibile non essere né forti né deboli, e accettare insieme la fragilità della vita [...] attraverso il riconoscimento della molteplicità della persona. Riconoscimento che non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di “normale”, per
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poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (Benasayag, Schmit, 2017, p. 84).
In questa prospettiva, riteniamo che i parametri “operativi” dell’Index for Inclusion (Booth, Ainscow, 2001; 2008) ci possano permettere di affinare lo sguardo sui principi e i valori di culture, pratiche e politiche scolastiche, le quali orientano l’agire educativo quotidiano. La posizione dell’Index è piuttosto radicale per quel che riguarda il concetto BES perché lo considera – critica che abbiamo analizzato anche in precedenza – espressione di una concezione per cui disabilità/deficit/difficoltà sono problema esclusivo del singolo: la proposta è infatti quella di sostituire la dicitura BES con quella di “ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione”.
Dobbiamo allora abbandonare definitivamente i Bisogni Educativi Speciali come strumento di lettura e intervento nella scuola? La posizione degli autori in questo senso è, crediamo opportunamente, più cauta. Anche se la nozione di Bisogni Educativi Speciali – e analogamente quella di integrazione – appaiono per molti versi superate come strumento concettuale, occorre tenere presente che esse hanno costituito per molto tempo lo strumento operativo (e il fondamento normativo) degli interventi educativi nella scuola, e rimangono dunque come il quadro di riferimento portante da cui occorre prendere le mosse per sviluppare compiutamente il passaggio verso l’orizzonte più ampio dell’inclusione. Certamente ciò comporta una grossa difficoltà, anche dal punto di vista terminologico, nel momento in cui vogliamo andare a definire nuove modalità di intervento trovandoci però a utilizzare strumenti linguistici che fanno riferimento ai quadri concettuali tradizionali, a «vecchie» cornici di pensiero (Dovigo, 2008, p. 21).
L’attenzione si sposta sui BES come “strumento operativo”: nella concretezza di questo approccio, si premettono le basi per un possibile cambiamento verso l’inclusione. L’Index è, infatti, uno strumento di (auto)valutazione e (auto)miglioramento finalizzato al superamento di una logica per cui le difficoltà sono un problema individuale, spostare l’attenzione su contesti e situazioni che, spesso, sono adeguati ed efficaci
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solo per qualcuno e non per altri: la sfida educativa non propone
semplicemente «fare posto» alle differenze – in nome di un astratto principio di tolleranza della diversità— ma piuttosto affermarle, metterle al centro dell’azione educativa in quanto nucleo generativo dei processi vitali
(ivi, p. 17).
L’Index si sviluppa su tre dimensioni, indissolubilmente connesse:
- creare culture inclusive (costruire comunità, affermare valori inclusivi); - produrre politiche inclusive (sviluppare la scuola per tutti, organizzare
il sostegno alla diversità);
- sviluppare pratiche inclusive (coordinare l’apprendimento, mobilitare risorse).
Le culture rappresentano il cuore del processo, i principi e i valori che orientano le decisioni sulle politiche educativo-gestionali e sulle pratiche quotidiane nella classe; a loro volta, le politiche assicurano che i valori inclusivi permeino tutta la progettazione scolastica, rispecchiandone e influenzandone le culture e plasmando le pratiche; e a loro volta le pratiche riflettono le culture e le politiche inclusive della scuola concretizzandole in attività formativo-didattiche.
Questo approccio all’inclusione, così ampiamente articolato, definisce formalmente molteplici aspetti e parametri che possono aiutarci ad esplorare il concetto di BES, cercando di mantenerne il più possibile intatta la
complessità (Morin, 1993; 1995) che lo connota:
[La complessità] è un tessuto di costituenti eterogenei inseparabilmente associati: pone il paradosso dell’uno e del molteplice. […] Ma allora la complessità si presenta con i lineamenti inquietanti dell’accozzaglia, dell’inestricabile, del disordine, dell’ambiguità, dell’incertezza… Di qui la necessità, per la conoscenza, di mettere ordine nei fenomeni respingendo il disordine, di allontanare l’incerto, vale a dire di selezionare gli elementi di ordine e di certezza, di depurare dall’ambiguità, di chiarire, distinguere, gerarchizzare… Ma simili operazioni, necessarie ai fini
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dell’intellegibilità, rischiano di rendere ciechi se si eliminano gli altri caratteri del complexus» (Morin, 1993, p. 10).
Il “complexus”, il tessuto, la trama della complessità deriva da fili differenti
e diventa uno (Morin, 1995, p. 56): non si può scinderne l’unità, intreccio di varietà e diversità, ma bisogna educare il pensiero e lo sguardo a non
“chiudere” i concetti, per sforzarci di comprendere la multi-dimensionalità,
di pensare con la singolarità, con la località, la temporalità, di non dimenticare mai le totalità integratrici» (Morin, 1995, p. 35).
L’incertezza e la pluralità dell’esperienza richiedono quindi un approccio indagatore multidimensionale e multidirezionale, problematico e creativo, in continua evoluzione e capace di tenere in considerazioni gli aspetti storici, culturali e sociali che qualificano determinate situazioni o dinamiche educative.
Nel caso della nostra tematica di indagine, i BES – in particolare per svantaggio socio-economico, linguistico e culturale – è particolarmente necessario non perdere la visione globale delle dinamiche socio-relazionali, culturali e didattico-educative in atto: non è possibile accedere alla realtà procedendo per “compartimenti stagni”, “etichette prestampate”; è indispensabile organizzare percorsi di conoscenza reticolare, che partono sì da immagini mentali, categorie semantiche e sistemi di significato, ma non si limitano ad essi. Il rischio di rimanere ancorati ad una visione, ad una
mappa del reale settoriale, parziale e riduttiva è sempre presente e mai del
tutto eliminabile:
Due importanti caratteristiche delle mappe devono essere prese in considerazione. Una mappa non è il territorio che rappresenta ma, se corretta, essa ha una struttura similare al territorio, che dà conto della sua utilità. [...] Se riflettiamo sui nostri linguaggi, troviamo che al massimo essi possono essere considerati solo come mappe. Una parola non è l’oggetto che rappresenta; e i linguaggi esibiscono anche questa peculiare auto-riflessività, che rende possibile analizzare i linguaggi mediante mezzi linguistici. Questa auto-riflessività dei linguaggi
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introduce rilevanti complessità, che possono essere risolte soltanto con una teoria della multiordinalità [...]. Trascurare queste complessità è tragicamente disastroso nella vita quotidiana e nella scienza (Korzybski, 1973, p. 58).
“La mappa non è il territorio” – considerazione ripresa anche da Bateson: dare contorni a ciò che si osserva è parte inevitabile del processo di conoscenza che, però, deve prendere forma solo nella consapevolezza che la realtà è una danza continua di parti interagenti ed interrelate, in cui ciascun individuo partecipa entro molteplici contesti di significato e agisce in perpetue connessioni e scambi con ciò e chi lo circonda. In questo senso, vigilare sull’uso del linguaggio diventa strumento fondamentale per evitare di ridurre l’individualità a “mappa”, senza mai riuscire a scrutarne il “territorio”.
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PARTE SECONDA:
LA RICERCA
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