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Capitolo 2. La definizione dei Bisogni Educativi Special

2.1. La teoria dell’etichettamento

2.1.1. La doppia natura dell’etichetta

Non si può non considerare che sintetizzare, classificare e categorizzare sono strategie cognitive indispensabili per elaborare pensieri e costruire saperi: la realtà assume significato attraverso l’utilizzo di strutture e schemi mentali (Vygotskij, [1934] 2001) che permettono di raggiungere la conoscenza tramite processi di distinzione e gerarchizzazione ordinata di elementi. Questo implica che, in risposta alla necessità di rapportarsi al

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contesto di vita, l’individuo utilizzi semplificazioni e inferenze capaci di creare “immagini della mente” atte a decodificare tutto ciò che lo circonda. Nelle relazioni intersoggettive, come tra insegnanti e alunni nel caso della nostra ricerca, le rappresentazioni sociali permettono di attribuire le

caratteristiche di una categoria al singolo che ne fa parte rendendo, così, familiare lo strano e percettibile l’invisibile (Moscovici, 1989, p. 365).

Quando si applica questo meccanismo, però, è necessario avere piena consapevolezza, come avviene per l’etichettamento, della possibile nascita dello stereotipo (Lippmann, [1922] 2004), visione distorta, generalizzata e semplificata della realtà e nucleo cognitivo del pregiudizio (Allport, [1954] 1973): il rischio insito in questo processo di categorizzazione, infatti, sta proprio nel presupporre la creazione di un modello di partenza generale, dettato spesso da implicite, imprecise e superficiali percezioni e inclinazioni di senso comune, a cui riferire gli elementi contestuali o gli individui – nel caso dei BES – che ne possono soddisfare o meno le caratteristiche.

Curioso, a questo proposito, sottolineare l’origine etimologica del termine “stereotipo”. Esso deriva dal lessico tipografico, in cui rappresenta la “controimpronta” delle forme di composizione, ossia la matrice: utilizzata per la stampa produce, ripetendo meccanicamente lo stesso movimento, pagine perfettamente identiche tra loro (Caldin, Righini, 2017). Se le categorie che denotano lo stereotipo riescono a imporsi sulla percezione della realtà offuscando la capacità critica del pensiero, si creano i presupposti per la strutturazione del pregiudizio: così, un’immagine dell’altro fissa ed immutabile oscura l’individualità personale, complessa e peculiare della persona in sé. Questo è il pericoloso rischio che vivono gli alunni con bisogni educativi speciali: quello di rimanere imprigionati in una

gabbia classificatoria di etichette (Benasayag e Schmit, 2004). Una volta

definite e collettivamente riconosciute possono sostituire la ricca poliedricità della realtà imponendo rigidi modelli con cui entrare in

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relazione: ciò che non rientra in questa tassonomia, ogni stravaganza o indeterminatezza, viene percepito come elemento “di disturbo” del reale, del contesto culturale e sociale (Becker, 2003).

Per inquadrare questo doppio aspetto del processo di etichettamento e categorizzazione in ambito educativo, facciamo riferimento ad alcune ricerche internazionali (Farrell, Dyson, Polat, Hutcheson, Gallannaugh, 2007; Taylor, Hume, Welsh, 2010; Gibbs, Elliot, 2015; Riddick, 1995) che l’hanno saputo contestualizzare in ambito scolastico indagando diverse dimensioni tra loro ampiamente interrelate: la definizione di etichette, l’autostima degli alunni, le percezioni degli insegnanti sugli alunni etichettati come in condizione di difficoltà, la capacità di costruire strategie didattiche efficaci per rispondere alle esigenze educative di questi alunni. Uno degli elementi principali che emerge da questi studi è la differenza tra la definizione, l’approccio educativo-didattico e gli effetti relazionale- psicologici dello specific label e del generic label.

Lo specific label, ossia l’etichetta26 di una difficoltà specifica, definita secondo più variabili e sfaccettature chiaramente espresse e collettivamente condivise, risulta operare a beneficio sia degli insegnanti sia degli alunni per varie ragioni: considerando che l’obiettivo educativo primario è sempre quello di riuscire a facilitare i processi che supportano l’alunno nell’apprendimento e nella crescita personale, le indagini svolte prendono in considerazione una delle etichette più specifiche, la dislessia, in relazione all’autostima degli alunni e alle percezioni di insegnanti e genitori. Ne è risultato che sia alunni (e genitori) sia insegnanti considerano il label di dislessia come un aiuto piuttosto che un ostacolo allo sviluppo: allievi e famiglie dichiarano che non solo l’etichetta li ha supportati nel comprendere le difficoltà scolastiche e nel mettere in atto strategie efficaci per superarle,

26 In questo contesto, l’etichetta (label) non ha connotazione espressamente negativa, ma si riferisce alla definizione che si dà della difficoltà.

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ma ha anche reso i ragazzi e i bambini consapevoli di non essere irrecuperabilmente incapaci (children no longer believed that they were

stupid, Riddick, 1995) e di non essere gli unici a vivere questa condizione;

questo ha permesso alla loro autostima e autoefficacia di crescere, motivandoli all’apprendimento e promuovendo il loro sviluppo cognitivo- educativo e psicologico-sociale. Anche gli insegnanti si esprimono a favore dello specific label: grazie ad esso, riescono ad interpretare e conoscere le peculiarità dell’alunno e questo li rende più capaci ed efficaci nelle loro scelte didattiche.

Al contrario, di fronte ad un generic label, un BES generico, sia alunni sia insegnanti si sentono confusi, disorientati e meno adeguati nell’approcciarsi alle sfide del processo di insegnamento-apprendimento: il fatto di riconoscere una difficoltà, ma di non poterne dare una definizione chiara e univoca rende particolarmente complessa la relazione educativa e didattica. Determinare e identificare una tassonomia delle difficoltà, dunque, può essere un approccio efficace se permette di condividere una conoscenza comune sui molteplici fattori che le compongono; sembra invece necessario evitare le classificazioni che evolvono da un sapere non approfondito. Le considerazioni emerse sul generic label sono facilmente riportabili al BES per svantaggio socio-economico, linguistico e culturale ed evidenziano quindi il rischio di associare una persona ad una sigla, un epiteto, che riduce la percezione che l’individuo – e gli altri – ha di sé ad un unico attributo, un’unica caratteristica, che provoca condizioni di disagio e malessere.

È il “miracolo” dell’etichetta: produce l’impressione che l’essenza dell’altro sia visibile (Benasayag, Schmit, 2004). Ciò che è visibile, però,

non corrisponde all’essenza dell’individuo e questa distanza condiziona in modo deterministico le percezioni, le aspettative e le prospettive degli altri e di chi “porta” l’etichetta.

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In ambito scolastico, la “profezia che si autorealizza” teorizzata da Rosenthal e Jacobson (1963; 1992) dimostra, infatti, che l’idea degli insegnanti sull’alunno influenza, in modo spesso inconscio ma decisivo, il loro tono della voce, il loro linguaggio non verbale, verbale e corporeo, il loro approccio didattico-educativo nei suoi confronti: questo porta l’allievo a percepirne e interiorizzarne il giudizio implicito e costruire la propria identità in funzione di quell’iniziale idea. Un’idea che è pre-concetto e che, come elaborato da Rosenthal e ripreso da Riessman (1962), sottovaluta i “bambini svantaggiati” (disadvantaged children) attraverso un’aspettativa di basso profilo che indurrà loro ad avere a prestazioni inferiori al potenziale possibile (Vygotskij, 2001).

Con disadvantaged children si intendono i bambini in “situazione di svantaggio” perché provenienti da contesti socio-economici, e quindi culturali, poveri e sfavorevoli: famiglia, quartiere, reddito, preparazione scolastica e culturale dei genitori, linguaggio utilizzato in ambiente domestico sono alcuni dei principali fattori che possono notevolmente influire sul successo o sull’insuccesso scolastico degli alunni. Questo è dovuto alla tendenza dei docenti, rilevata dagli studiosi, di avere aspettative più basse nei confronti di studenti di classi sociali (social classes) più basse: nel corso del tempo, con il procedere degli anni scolastici, il gap tra i compagni di ceto diverso diviene, quindi, sempre maggiore, in risposta ad

atteggiamenti differenti tenuti dagli insegnanti (Rosenberg, 1956;

Rosenberg, Hovland, 1960). Nonostante le numerose critiche che queste riflessioni e ricerche, iniziate con lo studio di Rosenthal e Jacobson, hanno suscitato, ne consideriamo il contributo scientifico (Jussim, Harber, 2005) di aver focalizzato l’attenzione e lo sguardo sulle dinamiche che connotano il legame tra aspettativa degli insegnanti e “profezie che si autorealizzano”.

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