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4. Chi sono i giovani? Un’analisi dei confini e dei contenuti della

4.1. Dare forma: i confini esterni della giovinezza 36

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4. Chi sono i giovani? Un’analisi dei confini e dei contenuti della giovinezza

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Nonostante l’analisi storica della giovinezza appena proposta possa aiutare a cogliere gli aspetti evolutivi di questa età, essa non consente ancora di dare completamente conto di ‘chi’ e ‘cosa’ viene considerato ‘giovane’ nell’ambito della società contemporanea.

Come specificato in precedenza (Par. 1), ogni sistema sociale elabora differenti definizioni della giovinezza, che la circoscrivono all’interno di determinati confini anagrafici e che le attribuiscono differenti e specifici significati, aspettative e ruoli sociali.

Dopo aver presentato gli eventi storici che, nel contesto occidentale, hanno favorito l’emergere della giovinezza e la sua affermazione come età distinta nel corso di vita appare quindi necessario un tentativo di definizione analitica dei confini e dei contenuti collegati a questo concetto nella società contemporanea.

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4.1. Dare forma: i confini esterni della giovinezza

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I confini della giovinezza sono i limiti di età che dovrebbero distinguere questa fase della vita dall’adolescenza da un lato, e dall’età adulta dall’altro.

Una prima possibile definizione di questi confini potrebbe essere di tipo puramente bio-medico. In questa prospettiva la gioventù si sostanzia in una “fase di sviluppo fisiologico che comincia con la pubertà e finisce quando il corpo ha più o meno cessato di crescere” (Fornäs e Bolin 1995, 3).

Sebbene, sulla base di questa definizione, la determinazione del confine inferiore della giovinezza possa apparire ancora piuttosto agevole - in quanto individuato

con il termine della pubertà e, quindi, con il completamento dello sviluppo sessuale del fanciullo - proprio la mancanza di cambiamenti fisici aventi forza discriminante a cui ancorare nettamente il confine superiore, hanno favorito lo sviluppo di una serie di letture socio-culturali dei limiti della giovinezza nelle diverse società ed epoche storiche (Ibidem).

Ogni età è infatti una costruzione sociale e questa ‘regola’ sembra valere per la giovinezza più che per qualsiasi altro segmento della vita poiché “essa si colloca all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la mancanza e l’acquisizione di autorità e potere” (Levi e Schmitt 1994, VI) e, per queste sue caratteristiche, “nessun limite fisiologico” appare “sufficiente a identificare analiticamente una fase della vita riconducibile piuttosto alla determinazione culturale delle società umane, al modo in cui esse cercano di identificare, di dare ordine e senso a qualcosa che appare tipicamente transitorio, vale a dire caotico e disordinato” (Ibidem).

Già sulla base dell’excursus storico precedentemente tracciato, risulta infatti intuibile la grande variabilità che caratterizza i confini della giovinezza, i quali non solo possono variare tra società differenti, ma anche all’interno della stessa società, in base all’appartenenza sociale, al genere e al tipo di istituzione chiamata alla loro definizione.

Restando su un piano storico, l’influenza delle particolari norme e strutture della società sulla determinazione dei confini della giovinezza appare ancor più chiara guardando ad alcuni tentativi di periodizzazione del corso di vita elaborati epoca premoderna e medioevale.

Nella celebre distinzione delle età della vita di Marco Terenzio Varrone, ad esempio, l’uomo restava puer fino ai quindici anni, diventava poi adulescens dai quindici ai trenta, iuvenis fino ai quarantacinque e successivamente senior. Una giovinezza collocata tra i trenta e i quarantacinque anni sembra contraddire ogni realtà biologica ed è spiegabile solo facendo riferimento all’ordine sociale romano

in cui la gioventù veniva socialmente protratta per proteggere un sistema sociale fondato sulla subalternità dei figli rispetto ai padri (Fraschetti 1994).

Particolarmente esemplificative delle diverse accezioni di giovinezza diffuse tra le classi sociali superiori e inferiori sono invece le periodizzazioni di epoca medievale 28. Se tra le classi sociali più agiate si parlava di juventus come di quell’età compresa tra i ventuno o i ventotto e i trentacinque anni 29, tra i contadini la suddivisione delle età era strettamente legata alle funzioni sociali: giovane era la persona atta al lavoro non ancora sposata o genitore, indipendentemente dall’età anagrafica 30 (Pastoreau 1994). Una suddivisione comune a tutte le classi sociali era invece adottata per definire le giovani donne per le quali il confine tra infanzia e giovinezza era praticamente inesistente e quello superiore era disegnato dal matrimonio.

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In epoca contemporanea continuano a permanere difficoltà nella definizione dei confini del periodo giovanile della vita.

Per quanto concerne il confine inferiore le problematicità coincidono essenzialmente con la questione dell’ampiezza dell’adolescenza. Sebbene ormai sia universalmente data per scontata l’esistenza di una fase intermedia tra l’infanzia e la giovinezza (cfr. Par 2.2), ancora aperto è il dibattito sui suoi limiti: è sufficiente una rapida ricerca per trovarsi di fronte a miriadi di definizioni diverse secondo le quali l’adolescenza inizierebbe tra i dieci e i tredici anni e terminerebbe tra i quattordici e i venticinque. A seconda delle diverse connotazioni l’adolescenza può essere infatti limitata ai soli anni di insorgenza della pubertà che, in ambito psico-medico, vengono definiti con il termine di

! Le fonti citate si riferiscono al XII e al XIII secolo. 28

! In epoca medievale la suddivisione delle classi di età si componeva di quattro o sette stadi. La prima 29

suddivisione collegava le fasi della vita ai quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) o alle quattro stagioni, la seconda divideva l’esistenza umana in infantia (dalla nascita ai 7 anni), pueritia (dai 7 ai 14),

adulescentia (da 14 a 21 o 28), juventus (dai 21/28 anni ai 35), virilitas (dai 35 ai 45), senectus (dai 45 ai 60) e

senies (oltre 60 anni) (Pastoreau 1994).

! La distinzione in uso tra le classi inferiori differenziava le persone in lattanti, bambini, giovani, sposi 30

novelli, padri e madri di famiglia, vedovi e vedove e defunti attribuendo a ciascuna categoria una specifica funzione sociale. In questa stessa epoca i confini dell’età giovanile erano infine determinati in modo assai diverso dalle varie discipline scientifiche e umanistiche. Gli astrologi, ad esempio, adottavano una suddivisione in sette classi di età rinvenibile già nell’opera di Ippocrate, sostenendo l’esistenza di un collegamento tra queste e i pianeti: la giovinezza, intesa come l’età perfetta, era sottoposta all’influsso del Sole (Pastoreau 1994).

“prima pubertà” e vanno dagli undici ai quattordici anni o comprendere il complessivo percorso di formazione dell’identità adulta andando quindi a inglobare l’intera giovinezza 31 (Blos 1989).

In ambito sociologico il confine inferiore della giovinezza viene solitamente collocato in corrispondenza dei quattordici/quindici o dei diciotto anni. Tra i quattordici e i quindici anni si ritengono pressoché completate le principali evoluzioni sociali legate all’adolescenza (Galland 2001): il giovane diviene più autonomo rispetto alla famiglia di origine, si integra sempre più nel gruppo dei pari e nella intera società di riferimento, è chiamato ad assumersi le prime responsabilità rispetto alle proprie azioni e a compiere alcune decisioni determinanti per il suo futuro (si pensi, ad esempio, alla scelta della scuola superiore o alla decisione di iniziare a lavorare per quanto concerne il contesto italiano). I diciotto anni sono parimenti identificati come un’età cruciale in cui il ragazzo solitamente termina il ciclo di studi obbligatorio e diviene, su un piano giuridico-formale, individuo e cittadino con i conseguenti diritti e doveri.

Entrambe le età sono quindi identificate come marcatori dell’acquisizione di un certo grado di indipendenza dalle relazioni familiari e della graduale integrazione del fanciullo all’interno della società di riferimento. La scelta tra i due marcatori varia principalmente in relazione ai fenomeni sociali che si intende studiare: per quanto riguarda, ad esempio, le ricerche sull’occupazione giovanile l’Istat tiene in considerazione tutti coloro che possono accedere regolarmente al mercato del lavoro (e quindi i ragazzi con più di quindici anni di età), mentre per ricerche riguardanti la partecipazione politica si concentra solitamente su coloro che hanno almeno diciotto anni e, sulla base dell’ordinamento giuridico italiano, possono quindi votare.

Relativamente a questa prima frontiera si assiste pertanto ad una continua e reciproca ridefinizione dei limiti tra l’adolescenza e la giovinezza, resa più

! In alcuni materiali di ispirazione psicologica la giovinezza viene infatti inserita tra le fasi 31

dell’adolescenza che al suo interno si distinguerebbe in prima, media e piena adolescenza, coprendo un lasso temporale compreso tra i 10 e i 25 anni (Blos 1989). In altri casi la giovinezza viene invece inglobata in parte dall’adolescenza e il parte dall’adultità: nel pensiero di Erikson (1968) non esiste infatti una fase di transizione tra adolescenza ed età adulta che prenda il nome di giovinezza. Egli distingue una prima fase adolescenziale che va dai 12 ai 17 anni e una seconda fase di prima adultità che prende avvio al compimento dei 18 anni e si conclude intorno ai 35.

complessa dalla frequente condivisione tra queste due fasi del corso di vita di comportamenti e stili di vita simili che fanno sorgere domande su quale delle due età stia ampliando il suo spazio vitale a danno dell’altra (Galland 2011).

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Per certi aspetti simile e per altri diversa è invece la questione relativa al confine superiore della giovinezza, quello che dovrebbe distinguerla dalla vita adulta. Manca, in questo caso, un appiglio biologico - anche instabile come la pubertà - a cui fare riferimento e tutti gli espedienti utilizzati nelle società premoderne e moderne per delimitare il confine tra la giovinezza e l’età adulta hanno conosciuto un’inesorabile perdita di forza (Cavalli 1980; Blatterer 2005).

Proprio l’assenza di cambiamenti fisici in grado marcare in modo sufficientemente evidente il passaggio dalla condizione di giovane a quello di adulto, ha infatti spinto ogni società a tentare di circoscrizione attraverso la creazione di una serie di riti di passaggio. Secondo la classica teoria di Van Gennep (1909), un rito di passaggio consiste in un processo che prende avvio dall’uscita del soggetto da una data condizione e che si conclude con la sua incorporazione in una nuova condizione 32. In questo processo possono essere distinte tre fasi: una fase della separazione - che consiste nell’abbandono dello status corrente -, una fase di transizione - caratterizzata da ambiguità e indeterminatezza, in cui l’individuo si prepara alla nuova condizione - e una fase di riaggregazione in cui il soggetto entra a far parte completamente della nuova condizione, venendo riconosciuto come possessore di un nuovo status e una nuova identità.

Nelle società premoderne, questi riti di passaggio erano spesso associati a veri e propri rituali in cui i giovani erano chiamati a superare prove fisiche volte a dimostrare la loro forza e virilità. Il passaggio era inoltre frequentemente sancito attraverso modificazioni corporali permanenti - tatuaggi, marchiature, ma anche

! Secondo Van Gennep la vita è “una successione di tappe nelle quali il termine finale e l’inizio 32

costituiscono degli insiemi dello stesso ordine: nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, progressione di classe, specializzazione di occupazione, morte. A ciascuno di questi insiemi corrispondono cerimonie il cui fine è identico: far passare l’individuo da una situazione determinata a un’altra anch’essa determinata” (Van Gennep 1909,5).

circoncisioni - tese a segnalare alla comunità il cambiamento di status compiuto dal giovane.

Anche la modernità ha tuttavia elaborato i suoi propri riti di passaggio: la fine degli studi, l’ingresso nel mondo del lavoro, l’uscita dalla casa dei genitori, la creazione di una nuova famiglia attraverso la formazione di un’unione stabile e la nascita dei figli (Cavalli 1980). Questi eventi sono in parte tutt’ora utilizzati per sancire il definitivo superamento della soglia che distingue le due età della vita ma, come affermato in precedenza, hanno indubbiamente conosciuto una perdita della loro forza di demarcazione (cfr. par. 3).

Secondo numerosi autori (Cavalli 1997; Settersten e Ray 2010), questa riduzione di potere è legata a tre principali fenomeni.

Il primo consiste nella desincronizzazione del superamento delle soglie di passaggio. In epoca moderna “il giovane percorreva il suo cammino su un sentiero chiaramente segnato. La prima fermata era il college, seguito da un tirocinio o dal servizio militare. Dopo veniva il lavoro, seguito dal matrimonio e, infine, dai figli. Tra il matrimonio e la nascita dei figli, la nuova famiglia comprava una casa e tutto ciò veniva compiuto entro i 25 anni, seguendo quasi sempre questo preciso ordine” (Settersten e Ray 2010, IX). Nel contesto contemporaneo è invece sempre più frequente assistere a percorsi di transizione meno lineari. Prendendo ad esempio in considerazione l’ingresso nel mondo del lavoro è facile notare come questo non si realizzi più immediatamente dopo la fine del ciclo formativo e immediatamente prima dell’uscita dalla casa dei genitori: cresce il numero dei giovani che hanno esperienze lavorative durante i propri studi, aumenta il lasso di tempo che intercorre tra il completamento degli studi 33 e la prima occupazione stabile, cresce il numero di coloro che tornano a studiare dopo essere entrati nel mondo del lavoro, molti più giovani escono dalla casa dei genitori già durante gli studi, aumenta la convivenza tra genitori e figli (anche stabilmente) occupati. In secondo luogo, la desincronizzazione fa coppia con il venire meno del carattere

irreversibile di questi passaggi: anche quando una soglia è stata superata, non è certo

! Secondo gli ultimi dati di Almalaurea (2014) il 72% dei giovani laureati non hanno un’occupazione 33

che questa transizione possa dirsi definitiva (Walther 2006). L’uscita dalla casa dei genitori che si realizza per molti giovani con l’inizio degli studi universitari, non esclude il ritorno presso il nucleo familiare di origine al termine di questa esperienza. Allo stesso modo l’ingresso nel mondo del lavoro non dà più la certezza di restare permanentemente nella condizione di lavoratore.

Desincronizzazione e reversibilità delle soglie producono infine una diminuzione del

valore emblematico di questi riti di passaggio: se la demarcazione tra il prima e il dopo

può venire meno in qualsiasi momento, il potere simbolico di questi eventi non può che essere profondamente scalfito 34.

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Con qualche sfumatura, in tutto il contesto occidentale si è infatti potuto osservare una posticipazione degli eventi marcatori della transizione alla vita adulta 35, una progressiva destandardizzazione della loro sequenza (Corijn e Klijzing 2010; Cavalli e Galland 1996) e una diminuzione della loro reversibilità (Walther 2006), con importanti conseguenze sul piano della definizione dei confini tra la giovinezza e l’età adulta.

Prendendo a riferimento la transizione scuola-lavoro, ad esempio, è possibile notare come la progressiva diffusione dell’istruzione di massa a partire dal secondo dopoguerra 36 sia andata di pari passo anche con un aumento della durata degli studi. Se l’età media al termine degli studi in Italia si attestava intorno ai 16 anni per le coorti nate tra il 1948 e il 1957, per i nati tra il 1968 e il

! A ciò si aggiungono gli effetti delle evoluzioni valoriali: si pensi, ad esempio, agli effetti che la 34

secolarizzazione ha avuto sul valore attribuito al rito del matrimonio.

! Con tendenze oltretutto piuttosto simili tra uomini e donne,fatta eccezione per la più tardiva uscita 35

dalla famiglia di origine e formazione di una nuova famiglia per gli uomini,

! L’imponente espansione della partecipazione scolastica “è stata sostenuta, oltre che da miglioramenti 36

nelle condizioni materiali e immateriali di vita della generalità degli individui, da due idee. Per la prima di esse, sviluppata dalla teoria del capitale umano, l’investimento in istruzione deve essere considerato come un investimento produttivo. Portare più persone a scuola significa disporre di una forza di lavoro più motivata e competente […]. La seconda idea, sviluppata dalla sociologia della modernizzazione, afferma che la crescita della partecipazione scolastica comporta una riduzione delle disuguaglianze sociali” (Ballarino e Schizzerotto 2011, 73).

1978 essa era già salita a 20 (Schizzerotto e Lucchini 2004) 37 e, secondo alcuni studiosi, proprio questa estensione della formazione costituisce una delle principali cause della posticipazione del superamento della prima soglia dell’età adulta - la fine degli studi - e del “ritardo nel raggiungimento della seconda tappa […], ossia l’ingresso in un’occupazione stabile” (Ferrari 2011, 12) esperito da gran parte dei giovani contemporanei. Quest’ultimo, oltretutto, appare fortemente determinato anche dalla crescente complicazione dei percorsi di transizione giovanile verso l’occupazione stabile 38, resasi particolarmente evidente negli ultimi decenni del secolo scorso anche nel sostanziale allontanamento tra l’età media in cui i giovani occidentali terminano gli studi e l’età media in cui riescono ad accedere ad un posto di lavoro stabile 39.

Per quanto, ad esempio, concerne l’Italia, sebbene la disoccupazione giovanile fosse già molto elevata negli anni ’70 e ’80 è soprattutto a partire dagli anni ’90 che la crisi occupazionale si è acuita e ha coinvolto in maniera sempre più preponderante le fasce più giovani della popolazione (Schizzerotto et al. 2011). In questo contesto, i giovani hanno visto aumentare le loro difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro, nonché la precarietà e l’instabilità delle loro condizioni lavorative 40. Il passaggio tra il mondo della formazione e quello del lavoro si è quindi fatto meno automatico (Galland 1997) e la crescente richiesta di

! Inoltre, “nell’arco di quaranta anni, tra il 1971 e il 2009, la quota di adulti con almeno un diploma di 37

scuola superiore tra la popolazione in età da lavoro è più che triplicata, passando dal 16,3% al 51,7%” mentre “l’incidenza delle persone in possesso di un diploma universitario o di una laurea è salito dal 2,3% al 12,8%” (Giorgi et al. 2011, 119). Secondo i dati OECD (2011), in Europa si assiste ad una costante diminuzione della percentuale di persone che terminano gli studi con un un titolo inferiore a quello secondario (-3,7% tra il 1997 e il 2009) ed ad un progressivo aumento di coloro che ottengono un diploma o una laurea (rispettivamente +1 e +3,9%).

! Come sottolineato da Blossfeld (Blossfeld et al. 2006) la scelta di restare più a lungo nel mondo scolastico 38

sarebbe infatti direttamente collegata all’aumentato rischio di disoccupazione, che spingerebbe i giovani a decidere di dedicarsi allo studio in attesa di un periodo migliore. Ciò sarebbe valido soprattutto per i giovani residenti in Paesi il cui sistema di welfare non offre alte protezioni contro il rischio di disoccupazione, per i quali il già elevato livello di rischio e incertezza appare ancora più imponente.

! Significative differenze persistono tra i diversi Paesi del mondo occidentale e anche all’interno della 39

stessa Unione Europea, con i paesi meridionali, la Francia e il Belgio stabilmente più lenti in questo passaggio rispetto alla Gran Bretagna e alla Germania (Schizzerotto e Lucchini 2004).

! Numerose ricerche nazionali e internazionali hanno evidenziato la maggiore incidenza delle 40

conseguenze negative della flessibilizzazione del lavoro sulla carriera professionale dei lavoratori più giovani, meno protetti rispetto ai più anziani sul piano contrattuale e sindacale. Una attenta analisi di questi aspetti nel contesto italiano è stata condotta da Schizzerotto, Trivellato e Sartor nel volume

Generazioni diseguali. Le condizioni di vita dei giovani di ieri e di oggi: un confronto (2011) e, in particolare, nel saggio Mutamenti tra generazioni nelle condizioni lavorative giovanili di Giorgi, Rosolia, Torrini e Trivellato ad esso

specializzazione e aggiornamento ha inoltre reso sempre meno definitivo l’abbandono dei ‘banchi di scuola’ (Ibidem).

Specialmente in quei Paesi, come l’Italia, in cui le scelte affettivo-genitoriali sono più strettamente legate alla stabilizzazione economica, la posizione del giovane sul piano scolastico-lavorativo spiega molto del dilazionamento delle decisioni relative all’uscita dal nucleo familiare di origine, alla costituzione di una nuova famiglia e alla genitorialità (Cavalli 1980), che dipendono tuttavia anche da cambiamenti registrabili sul piano dei valori e della cultura. Il rallentamento della transizione alla condizione adulta sul versante lavorativo, sommandosi a evoluzioni di tipo culturale e valoriale, avrebbe infatti prodotto, con una sorta di effetto a catena, conseguenze anche sul piano personale-relazionale (Côté 2000). Sempre più comune tra i giovani appare la scelta, più o meno imposta da condizioni esterne, di restare più a lungo nella casa dei genitori da cui spesso continuano a dipendere economicamente fino ad età avanzate (Barbagli 1984): se si comparano le età mediane dei giovani nati negli anni ’60 e negli anni ’70 al momento di questa transizione si nota infatti come i tempi di uscita si siano allungati in tutti i paesi europei (Billari e Liefboer 2010) 41.

Se ciò è almeno in parte dovuto alle maggiori difficoltà esperite nella ricerca della piena indipendenza e stabilità economico-lavorativa, è altrettanto vero che l’aumentata permanenza dei giovani all’interno del nucleo familiare di origine si collega anche profonde evoluzioni dei rapporti tra figli e genitori che, proprio a partire dagli anni ’70, avrebbero conosciuto un progressivo avvicinamento al

! Ciò avviene nuovamente con entità differenti nei diversi paesi europei. I paesi dell’Europa Meridionale 41

registrano i maggiori ritardi, seguiti da quelli dell’Est Europa e, con distacco crescente, da quelli del Nord Europa e dell’Europa continentale: in particolare sono i giovani italiani a condividere “con i coetanei spagnoli, greci e portoghesi la lunga permanenza nella famiglia dei genitori, spesso ben oltre il termine degli studi” (Dalla Zauna e Weber 2011, 17). Secondo gli ultimi dati Istat (2014) il 61% degli italiani fra i 18 e i 35 anni vive ancora con i propri genitori. L’uscita di casa dei giovani italiani sarebbe stata