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La ricerca secolare sul poema gira tuttora intorno ad un nodo inestricabile, ovvero l’individuazione della datazione e del luogo di provenienza dell’opera. Il tentativo è infatti ostacolato, oltre che dalle varie indicazioni contenute nella narrazione, da due filtri piuttosto consistenti: i limiti linguistici del nostro poeta ed il suo stile spiccatamente arcaizzante. Come per tutte le opere di incerta collocazione, anche nel caso delle AO lo spettro delle presunte datazioni è stato dilatato fino a comprendere i due estremi dell’età arcaica e della tarda antichità; dopo secoli di studi, è ovviamente opportuno discutere l’ipotesi più credibile, che riconduce al IV-V secolo. I punti di riferimento principali di cui i vari studiosi hanno tenuto e tengono tuttora conto sono, si è visto, la lingua dell’anonimo ed i presunti rapporti con Nonno di Panopoli. La maggioranza si allinea all’ipotesi di Hermann (vd. § 4), il quale, ricordiamo, colloca le AO nella seconda metà del IV sec., partendo dalle analogie con la lingua del III-IV sec. e dalla totale ignoranza delle norme della poesia nonniana209. Posizione intermedia è assunta da West (1983, 37), secondo il quale l’opera «can hardly be earlier and may well be later than the fourth century AD». Sostenitori di una posticipazione al V sec. sono Keydell (1942, 1333) e Vian (45-7). Stabilire se le AO siano anteriori o posteriori a Nonno è obiettivamente difficile: da una parte, come sostiene anche Keydell, il fatto che la metrica ignori le leggi nonniane può dipendere dal progetto arcaizzante del poeta, che deve necessariamente rifiutare ogni traccia di ‘novità’ (vd. § 1.3); dall’altra, le corrispondenze con Nonno sono davvero soprendenti, ma, come abbiamo precisato, potrebbero dipendere da una tradizione comune vicina ad entrambi i poeti; l’esempio di Trifiodoro ci insegna del resto a adottare una prudenza ancora maggiore. L’ultimo ad esprimersi sulla questione è stato Livrea (2014), che ha dedicato un contributo proprio al rapporto tra Nonno e le AO. Lo studioso sposa la tesi di Hermann e si spinge a datare l’opera «somewhere in the decade 360-70», elencando una serie di motivazioni: 1) l’assenza di allusioni ai Lithica (vd. però § 5); 2) il motivo dell’aiuto salvifico offerto all’anima smarrita (riconosciuto nell’intervento di Calliope a favore di Orfeo) è ascrivibile alla prima fase del Neoplatonismo; 3) la scena dell’animazione della statua di Artemide ricorda il celebre passo di Eun. VS 7.2.7-10; 4) la caverna ha ruolo centrale nell’età di Giuliano; 5) la scena della partenza rievoca la vicenda dell’arrivo della statua di Cibele a Roma narrato, tra gli altri, da Giuliano (vd. § 1.2); 6) alcuni

208 Come si è visto al § 2.5, il ruolo di Ecate come ‘intermediaria’ in luoghi liminari è presente sin dall’età

arcaica e sarà accolto dalla speculazione caldaica e neoplatonica (per una panoramica completa vd. lo studio di Johnston 1990). Nell’Inno orfico citato, Artemide è definita anche kleidou'co" (v. 5), molto probabilmente per il suo ruolo di protettrice dell’ambiente domestico; non si dimentichi tuttavia che la dea era spesso raffigurata come custode delle chiavi (soprattutto dell’Ade, vd. Johnston cit. 40-8) e che in AO 985-7, dopo l’intervento di Orfeo, le sbarre delle serrature si rompono e le porte del giardino si aprono.

209 Seguono la conclusione di Hermann, Abel (1), Boulanger (1929, 31, che colloca tuttavia Nonno nel IV

indizi geografici (tuttavia ancora da vagliare) ricondurrebbero alla fine del IV secolo. La riflessione di Livrea tocca punti essenziali per lo studio di un testo complesso come le AO; molti degli aspetti citati contribuiscono tuttavia a caratterizzare l’intero complesso sistema della cultura greca tardoantica: anche un autore del V secolo, a prescindere dalla sua conoscenza o meno del poeta panopolitano, avrebbe potuto accogliere tale eredità per costruire la sua opera, soprattutto se i suoi intenti trovano conferma nel programma di recupero della tradizione pagana e di rilettura allegorica dei miti così diffuso in quei secoli. Livrea conclude affermando che nessuno dei punti esaminati dimostra con certezza la conoscenza delle AO da parte di Nonno, anche se quest’ultimo risulta più volte utile nel sanare luoghi corrotti del testo anonimo; ritiene più probabile dunque che «the two poets have drawn either from the common stock of epic diction, or, a more interesting possibility, on the same texts from the Orphic tradition that were in circulation in the Imperial period» (ibid. 76). Allo stato attuale della ricerca, quest’ultima conclusione di Livrea appare forse come la più prudente e convincente, anche se, lo ripetiamo, circoscrivere l’opera ad un forbice cronologica ben determinata risulta probabilmente impossibile.

Altro elemento di conflitto è costituito dal contesto geografico in cui l’opera ha visto la luce. Una delle ipotesi più gradite agli studiosi collega le AO all’ambiente egiziano. Il primo sostenitore di questa teoria fu Boulanger (1929, 46 n. 1), secondo il quale «l’usage que fait l’auteur d’une littérature répandue sortout en Egypte, et la mention insistante des cultes égyptiens dan son poème invitent à croire que... il était originarie d’Égypte». Per Vian (12) la ripetuta allusione all’Egitto nella parte iniziale (vv. 32, 43-5) «pourrait même suggérer que l’auteur du poème est d’origine égyptienne», salvo poi ammettere (ibid. 46) che tali indizi non autorizzano che «une faible présomption»: in effetti, le allusioni all’Egitto richiamano in un caso un mito che si allinea perfettamente agli altri menzionati nel catalogo, nell’altro uno dei viaggi effettuati da Orfeo prima della spedizione in Colchide, ma non sembrano autorizzare un legame dell’autore con la terra di Osiride. Un aspetto su cui si può discutere riguarda la conoscenza degli Inni omerici da parte dell’anonimo: abbiamo anticipato (§ 5) che testimone tardo della conoscenza, quanto meno, dei componimenti maggiori, è l’autore della cosiddetta

Cosmogonia di Strasburgo (PStrassb. inv. Gr. 481 = MP3 1848), poemetto egiziano datato al V secolo. Sia Gigli Piccardi (1990), nella sua edizione commentata del papiro, che Agosti (1993, 31-3), illustrano una serie di passi che sembrano rimandare al contenuto degli Inni, in particolare, di quello a Hermes. Abbiamo precisato che con probabilità l’anonimo aveva a disposizione un abbozzo della silloge innodica che si sarebbe poi arricchita nei secoli successivi; a tal proposito, Agosti (cit. 33) osserva: «se è vero che l’autore di CosmStrasb leggeva l’HHerm, si può forse pensare che proprio in Egitto, che è la patria di molta della poesia tardoantica, sia da situare la prima forma embrionale del corpus. Se poi veramente l’autore di

Arg. Orph. è egiziano, l’inserimento del poema nei manoscritti degli Inni si spiega ancor

meglio, senza per il momento voler addentrarsi in ipotesi più audaci». Contrariamente alla

communis opinio che ha dominato per decenni lo studio degli Inni omerici, tracce più o meno

significative della conoscenza del corpus appaiono proprio in ambiente egiziano a partire dal IV-V secolo210. A tutto ciò si aggiunga un dato relativo alla tradizione: apportando una serie di esempi, Piñero (1990, 30-1) dimostra che, nell’imitazione del modello, l’anonimo delle AO avrebbe usufruito di un esemplare della famiglia w di Apollonio Rodio, i cui manoscritti mostrano spesso residui di tradizione periferica, in particolare, del fondo poetico dell’Egitto ellenizzato.

210 Agosti 2015 menziona ad esempio, oltre alla Cosmogonia di Strasburgo, i casi di Nonno, Colluto e

Agosti (2008a, 31) prese successivamente in considerazione un’altra possibilità nel suo studio dell’episodio ciziceno: «l’accurata trattazione dell’episodio di Cizico nel poema mi sembra che vada letta... come il tentativo di intervenire nella lotta per i simboli e di contrapporsi alla cristianizzazione delle reliquie del culto Rea, ben conoscendo il ruolo centrale che esse avevano nella riappropriazione mitica del passato di Bisanzio. È anche possibile che il poema fosse stato pensato proprio per un’audience costantinopolitana». Le osservazioni dello studioso relative all’episodio ciziceno sono di indubbio peso, ma le mie preferenze piegano al momento verso l’ambiente egiziano. Un ulteriore problema con cui fare i conti è rappresentato dalle tracce che sembrano denunciare una conoscenza di testi latini: ci riferiamo soprattutto a Valerio Flacco e, per l’epidodio della nave preso in esame in § 1.2, al racconto dei Fasti ovidiani. Rovira (1978, 205-6) sostiene che le affinità con la narrazione di Valerio Flacco indurrebbero a ritenere che l’anonimo delle AO leggesse il poeta latino211

; considerando dunque l’apparente scarsa familiarità con la lingua greca e la presenza di tratti magico-religiosi, ritiene verosimile collocare il poema nel contesto geografico della Magna Grecia, «lugar de cultivo predilecto para todas las sectas filosóficas y religiosas, que desde allí realizaban sus incursiones en la urbe más importante del momento». Data la difficoltà del problema, è scorretto escludere aprioristicamente una soluzione di questo tipo; tuttavia, la questione relativa al retroterra della tradizione argonautica è tra le più complesse e insondabili della letteratura antica212 ed è possibile che, cercando di distinguersi dal modello principe, ovvero Apollonio, l’anonimo abbia sfruttato una o più tradizioni differenti del mito che mostravano coincidenze con la narrazione sviluppata da Valerio Flacco. Quanto a Ovidio, alcune analogie espressive con il testo dell’anonimo sono a prima vista singolari; è altresì vero che l’episodio della statua di Cibele, reso noto anche da Giuliano, rappresenta un episodio importante della tradizione di mirabilia pagani e non è pertanto possibile accertare se l’anonimo avesse davvero letto il poeta latino. Un aspetto risulta quanto meno curioso: se l’autore è da collocare in Egitto, ipotesi che mi sembra al momento più credibile, ci troveremmo dinanzi ad un altro caso in cui siano da discutere e chiarire gli apparenti legami con uno o più scrittori latini, come già accaduto per altri Egiziani, si ricordino, ad esempio, Nonno e Trifiodoro. Non pretendiamo di intervenire in questa sede nella vexatissima quaestio dei rapporti tra letteratura greca tardoantica e letteratura latina, che necessiterebbe l’apertura di un nuovo capitolo; ci si limiti a constatare la presenza di questo ulteriore problema nella determinazione dell’identità dell’autore.

Tornando quindi alla prima ipotesi presa in esame, oltre alla probabile collocazione di una forma ‘primordiale’ del corpus innodico in Egitto, le analogie tra il testo anonimo e l’opera nonniana, molto probabilmente riconducibili, si è visto, ad una tradizione molto vicina ai due poeti, potrebbero denunciare l’appartenenza ad un medesimo retroterra culturale. Sicuramente, un profilo come quello che abbiamo tracciato per l’autore può collocarsi benissimo a cavallo di IV e V secolo: egli mostra buona conoscenza della tradizione letteraria, si fa portavoce della cultura greca realizzando un’opera che ne sintetizza alcuni degli aspetti più importanti e,

211 Si osservi in particolare la parte dedicata ai primordi dell’impresa (AO 56-69).

212 Portiamo un esempio molto semplice di questa complessità: per molti dei passi in cui Valerio si

discosta dal modello apolloniano sono state individuate sin dall’Ottocento coincidenze con la narrazione argonautica offerta da Diodoro Siculo (4.50-56); tra le fonti sicure di quest’ultimo vi è Dionisio Scitobrachione, autore, secondo la Suda (d 1175 Adler s.v. Dionuvsio" Mitulhnai'o") di un compendio in prosa in 6 libri sulla saga argonautica. Anche gli scolî ad Apollonio Rodio attingono talvolta alla medesima fonte, pur menzionando solo due libri. È del tutto probabile che Valerio, come pure qualsiasi altro autore che abbia scelto di dedicare uno scritto alla saga più antica della cultura greca, abbia avuto a disposizione un repertorio di notizie e varianti molto più ampio di quello a noi pervenuto (per lo più per testimonianza indiretta); inoltre, il tentativo di differenziarsi rispetto al dominante racconto di Apollonio avrà giustificato la ricerca di particolari meno noti o comunque risalenti a fasi ancor più remote della leggenda.

soprattutto, sembra riconducibile a quel filone della speculazione mistica dell’età tardoantica che rilegge secolari racconti mitici in chiave simbolica. Il diffuso programma di rivalutazione del mito tramite l’esegesi allegorica, sfruttata peraltro come strumento alternativo alle tradizionali celebrazioni pagane, poteva apparire occasione allettante per un autore della tarda antichità che intendeva ribadire la vitalità della tradizione senza rinunciare ad una riflessione che affondava le sue radici nella contemporaneità. Se interventi di questo tipo sono riconducibili in primo luogo alla scuola di Atene (vd. § 2.10-11), lo scenario egiziano non risulta comunque del tutto improbabile: continui e intensi sono i contatti e gli scambi tra l’emisfero culturale ateniese e quello alessandrino ed il rilievo attribuito al mito e alla simbologia ad esso connessa può trovare spazio anche in tale ambiente. La connessione delle AO all’Egitto è destinata tuttavia a restare una semplice ipotesi.