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Lo stile di un’opera costruita su imitazione del registro espressivo dell’epica omerica e apolloniana e, soprattutto, prodotto di un poeta cui si sono riconosciuti notevoli limiti, non è dei più brillanti. Ad una prima lettura, si è ad esempio colpiti dal frequente impiego di espressioni pleonastiche, risultanti dall’abuso di preposizioni e preverbi o di periodi complessi e ridondanti. Le figure retoriche, in numero decisamente inferiore rispetto alla media dell’epica tradizionale, sono per la maggioranza riconducibili al codice a disposizione del poeta. Nonostante gli innegabili limiti, il testo presenta comunque una serie di aspetti che occorre esaminare per completare il profilo ‘operativo’ del nostro autore. Si è visto anzitutto come un controllo più approfondito del lessico sveli particolarità da non trascurare; alle osservazioni appena condotte specialmente sui neologismi del poeta, si noti come spesso compaiano aggettivi che non hanno semplice valore esornativo, bensì epesegetico, dunque portatori di un significato che il lettore deve sondare, cfr. ad es. vv. 138 boufavgo", 424 poluvmhti", 426 aijnolevth"*, 488 ajrgurevh",

200 Per Trifiodoro vd. Gerlaud 1982, 52 e Weinberger «WS» 18, 1896, 156-7. Nella Parafrasi nonniana

(vd. Accorinti 1996, 52), come pure nella Visio di Doroteo, i casi di risemantizzazione sono dovuti principalmente allo slittamento del valore di molti termini nella cristianità. Per Dioscoro si vedano i casi raccolti da Fournet 1999, 364-5.

201 Vd. in particolare Livrea 1992; 1996, 75 e n. 19 e Fournet 1999, § 114. 202

Solo uno studio più approfondito di queste sezioni potrà forse aiutare a comprendere il motivo per cui l’anonimo ha effettuato la scelta di ricorrere a una lista di termini così specifici e, aspetto da non trascurare, in un punto di primissimo piano della narrazione.

644 skoliov". Talvolta il ricorso a determinati aggettivi o sostantivi sembra guidato da intenti paretimologici (vd. ad esempio il commento ad vv. 17 eujduvnato"; 129 jArhgoniv~; 167 eujglaghv~) o comunque dalla volontà di richiamare aspetti della leggenda della figura di cui si sta parlando (vd. comm. ad vv. 6 puknov~; 25 Korubavntwn t∆ a[plhton ijscuvn; 172 ejlavtai). Come accade spesso nella poesia esametrica, si registrano ripetizioni di un termine nello stesso verso o in versi contigui (cfr. vv. 121-2 dolichv; 654-5 qow'~, etc.) oppure di termini con stessa radice o forma, ma significato diverso (vd. v. 650 ejx ou[reo~... ou\ro~); talora, tuttavia, la ripetizione o l’uso adiacente di sinonimi non dipende forse esclusivamente dal caso: ai vv. 17- 20, la successione delle forme gonav~, gonh'~, gevno~ e ejxegevnonto sembra voler sottolineare il susseguirsi delle creazioni che caratterizza la cosmogonia; al v. 182 la collocazione dei sinonimi bevnqea e bevreqra alle due estremità dell’esametro sottolinea forse l’incredibile capacità di Linceo; ai vv. 245-6, la replica poti; yamavqw/... poti; cevrsw/ contribuisce a mio parere a marcare l’idea dell’immobilità della nave sulla riva di Pagase; ai vv. 481-2 la ripetizione della radice in qelxivfroni e qelcqevnte~ sottolinea espressivamente il potere persuasivo del canto di Orfeo. Infine, se alcune espressioni appaiono decisamente ridondanti, non è escluso che il poeta avesse cercato costruzioni complesse per determinati scopi: ad esempio, l’espressione che ricorre ai vv. 530-2 (contraddistinta peraltro da tetracolo al v. 531) sembra voler raffigurare agli occhi del lettore l’intrico di nodi delle gomene indotto da Rea che impedisce agli Argonauti di proseguire il viaggio.

Lo stile narrativo è contraddistinto da una cifra peculiare, ossia la tendenza all’estrema sintesi del racconto di Apollonio. A scapito dell’impressione che potrebbe sorgere da una prima lettura, l’opera non costituisce tuttavia un semplice esercizio di riassunto del modello, ma mostra un sostrato ben più complesso. Tralasciando momentaneamente il ruolo di protagonista di Orfeo, che di per sè annuncia intenti di un certo peso, i contesti narrativi e le situazioni sono sostanzialmente gli stessi, ma l’anonimo tende spesso a modificare alcuni particolari, differenziandosi o in taluni casi correggendo il proprio modello. La mia convinzione è che egli non operi una pura e semplice oppositio in imitando, ma che manifesti la volontà di sfruttare gli elementi che risultano essenziali per il suo racconto, provvedendo ad aggiunte o omissioni a seconda della necessità203. L’episodio di Ila è un esempio chiaro di questo modus operandi: come si è ampiamente osservato, il nucleo è notevolmente condensato rispetto al racconto di Apollonio e l’anonimo tralascia del tutto i particolari relativi al ratto del giovane (presenti invece in tutti gli altri testi) per concentrarsi, non senza una certa insistenza, sul frammento della vicenda che meglio si ‘incastra’ nello scheletro su cui ha voluto costruire l’opera, i.e. lo smarrimento nella selva. Nel complesso, il poeta arricchisce spesso la narrazione con ulteriori particolari (si ricordino l’incontro tra Giasone e Orfeo, i blocchi della nave Argo e la menzione dell’altare di Rea a Cizico), e non esita a correggere il/i modello/i: su tutti, evidente la ‘manipolazione’ del bios di Orfeo, per cui si inverte l’ordine cronologico della catabasi e della spedizione argonautica con implicazioni non indifferenti per la nuova narrazione (vd. § 2.3) e si modificano gli esiti di un episodio importante come il viaggio in Egitto. Atteggiamento molto simile è individuabile, ad esempio, nel sesto canto delle Dionisiache nonniane: in primo luogo, Nonno sovrappone la narrazione della vicenda di Persefone violata da Zeus a quella del ratto da parte di Ade allo scopo di recuperare una serie di elementi utili al racconto (vd. Chuvin 1992, 12, 22; Gigli Piccardi 2003, 456-8); l’innovazione più evidente risiede però nella collocazione del kataklusmov~ dopo l’uccisione di Zagreo, scelta che, secondo Gigli Piccardi (cit. 460-1),

203 Sebbene i due emisferi siano molto lontani tra loro, l’atteggiamento ricorda vagamente la

dichiarazione di Pindaro proprio all’interno della IV Pitica: nella cornice del racconto delle prove affrontate da Giasone in Colchide, il poeta afferma oi\mon i[sami bracuvn (v. 248); egli intende esporre in modo conciso una narrazione solitamente ampia e distesa, toccandone dunque solo i punti essenziali.

vuol contrassegnare la fine di un’epoca e l’inizio di una fase molto più importante per l’umanità.

Un’analisi di questo tipo consente di fornire risposte più precise in merito ai modelli impiegati dall’anonimo. Oltre alle preponderanti influenze dei poemi omerici e Apollonio Rodio, l’autore ha senz’altro una certa conoscenza della letteratura arcaica e classica; il testo mostra infatti tracce della poesia esiodea, oltre che della tragedia e della commedia (aristofanea). È facilmente spiegabile l’interesse per Pindaro, nonostante il divario cronologico e soprattutto stilistico che lo separa dal nostro autore: la IVa Pitica costituiva uno dei modelli più remoti della saga argonautica, che l’autore mostra di preferire spesso al racconto apolloniano; non si dimentichino inoltre i frammenti, il cui contenuto mostra suggestive affinità con il testo anonimo204. Evidenti in tutto il poema sono le tracce delle altre opere del corpus orfico, ennesima dimostrazione della funzione di suggello della tradizione legata al nome di Orfeo assunta dalle AO. Manca tuttavia qualsiasi accenno ai Lithica, che ci saremmo forse dovuti aspettare, almeno nel catalogo iniziale. L’assenza ha dato motivo di pensare che il poeta non conoscesse l’opera e che le AO debbano esser antedatate al periodo di composizione del poemetto, collocabile presumibilmente dopo il 371-2, secondo l’ipotesi di Livrea (2014, 55). Tali conclusioni non sono certo incongrue, ma è altresì possibile che i Lithica, contraddistinti peraltro da notevole raffinatezza e ricchezza espressiva, non abbiano attirato l’attenzione del poeta per il loro contenuto, obiettivamente estraneo rispetto alla trama costitutiva che abbiamo riconosciuto al catalogo, così come al resto della narrazione. In molteplici occasioni, il testo palesa invece contatti con il contenuto dei frammenti e, soprattutto, degli Inni orfici. Cogliamo dunque l’occasione per affrontare una delle particolarità più significative di quest’analisi: oltre alle preghiere del corpus orfico, il poeta dà prova infatti di conoscere gli Inni omerici, dato non trascurabile, viste le apparenti scarse testimonianze della conoscenza di questi ultimi, in particolare, nella letteratura tardoantica205. La maggioranza delle affinità individuate è riconducibile agli inni maggiori, ma non mancano raffronti con le composizioni secondarie (cfr. ad es. vv. 684, 937 ojizuroi'o povnoio, che ricorre in clausola in hom.H. 33.17; 796 parqevnon aijdoivhn che compare identico in hom.H. 27.2 e 28.3; 944 i{lamai, forma epica del più comune iJlavskomai, ricorre solo in hom.H. 19.48). Una prova della conoscenza degli Inni da parte dell’anonimo è peraltro offerta dal PGen. 3.118 = MP3

1231.11 (èdito da Hurst 1994), contenente una copia dell’Inno a Dioniso databile al II-I sec. a.C. ; il testo presenta 4 versi in più (10-3), espunti da tutte le recenti edizioni, ma ripresi, come notato da West (2001, 2), in AO 1199-1202. Ogni considerazione relativa agli Inni omerici e, in particolare, alla silloge che li accolse assieme alle AO, necessita comunque di molta prudenza. L’ipotesi più verosimile, cui giunse anche Vian (46), è che l’anonimo avesse a disposizione una forma embrionale del più esteso corpus innodico che conosciamo; non si esclude inoltre che la presenza del poema in tale

204 Per una nuova analisi sulla lettura di Pindaro nell’età tardoantica è di prossima uscita un contributo di

D. Gigli Piccardi, Nonnus and Pindar, in K. Spanoudakis (ed.), Nonnus of Panopolis in Context II, Poetry, Religion and Society, Acts of the International Conference, Wien 26-28 September 2013. Partendo, in particolare, dallo studio dei proemi al I e al XXV canto delle Dionisiache, la studiosa indaga il ruolo fondamentale della poesia pindarica nel rapporto tra Nonno e la tradizione omerica, gettando nuova luce sulla questione della lettura del poeta lirico in età tardoantica.

205 Le citazioni dirette sono, in generale, scarsissime, cfr. Th. 3.103 (h.Ap. 146-50, 165-72) e D.S. 3.66.3

(h.Bacch. 1-9); tra i papiri si ricordino soprattutto le testimonianze di PBerol 12044, che riporta numerosi versi dell’inno a Demetra e POxy. 2379 (h.Cer. 402-7). L’influenza degli Inni rispetto ai poemi omerici è ovviamente minima, ma uno studio mirato all’individuazione di tracce della loro conoscenza nelle varie fasi della letteratura greca troverebbe forse riscontri più numerosi del previsto, come già notò Richardson 1974, 73. Muove per la prima volta in questa direzione Agosti 2015, che mi ha gentilmente concesso di visualizzare l’anteprima del suo contributo dedicato alla diffusione degli Inni omerici in età tardoantica: lo studioso dimostra, servendosi di efficaci esempi, come tali componimenti fossero conosciuti e in varia misura citati dagli autori tardi, tanto pagani che cristiani. Per il caso specifico delle AO vd. infra §§ 6 e 7.

raccolta potesse dipendere dal carattere simbolico che abbiamo riconosciuto al testo (vd. § 2.11 e infra § 7).

Una questione piuttosto spinosa, cui non sempre gli studiosi hanno dato il peso che merita, è rappresentata dal rapporto del poeta con la letteratura contemporanea. La prima caratteristica da osservare è che nell’attuazione del suo progetto arcaizzante, l’anonimo sfrutta appieno espressioni e immagini molto note dei poemi omerici che, ad esempio, sono del tutto trascurate da Nonno (vd. ad es. e[pea pteroventa). In secondo luogo, in base al contesto, egli sceglie o meno di conferire a espressioni del tradizionale registro epico la sfumatura derivata da rielaborazioni recenti. Per portare qualche esempio, l’aggettivo skoliov", che qualifica i sentieri su cui Ila si perde, prende quella connotazione negativa diffusa soprattutto nei frammenti caldaici e negli scritti neoplatonici (vd. § 2.8). Avviene invece il contrario con poluvfloisbo" (v. 331 ceu'ma p. qalavssh"): se l’attributo appare spesso nella letteratura tardoantica ad indicare entità dannose, come i gorghi della u{lh negli scritti neoplatonici (cfr. Porph. Plot. 22.25, Procl.

H. 7.30) o gli affanni della vita in Nonn. D. 7.64 (vd. Gigli Piccardi 1985, 85-6), il poeta vi

ricorre nella tradizionale connotazione ‘neutra’ che ha sin dai poemi omerici (cfr. A 34, n 85 al.). A seconda delle necessità, egli piega dunque lo strumento espressivo alla comunicazione di determinati contenuti. In relazione al resto della poesia epica, merita una breve considerazione anche il trattamento del repertorio formulare. Nei secoli si assiste infatti, come ormai ben messo in luce da molti studiosi, ad un’evoluzione dalla formularità strutturale dei poemi omerici ad una di tipo convenzionale, puro procedimento stilistico non più dettato, quindi, dalla necessità. Sin dall’età ellenistica si afferma perciò un tentativo sempre più accentuato di evitare la semplice ripetizione di formule omeriche per crearne di nuove, sino a toccare livelli di studiata elaborazione nella poetica nonniana. L’anonimo non sembra aderire a questo programma: la massima condensazione del racconto del modello coincide con uno stile estremamente ‘asciutto’, che si limita alla narrazione degli eventi salienti per lo sviluppo dell’opera senza lasciare spazio alla creazione di pause descrittive. Possiamo fare qualche rapida osservazione sui due campi formulari maggiormente interessati dalla rielaborazione ellenistica e tarda, esaminati, tra gli altri, da D’Ippolito (2003), ossia quello prodrammatico e quello temporale. Per quanto riguarda il primo, da Apollonio Rodio in poi si afferma la tendenza a sostituire i verbi semplici del ‘parlare’ o del ‘dire’ (aujdavw, ei\pon, fhmiv) ad altri che esprimono le modalità di emissione vocale. Nell’anonimo prevale l’omerico fhmiv, salvo alcune eccezioni, cfr. ajneneivkato fwnhvn (vv. 76, 769, 818, 843) e ajnevpempon ajoidhvn (v. 420). Si noti peraltro che, se il sintagma perifrastico omerico sfrutta i verbi del ‘dire’ con l’accusativo e[po~/e[pea e mu'qon/muvqou~, l’epica tardogreca sostituisce a questo, costantemente al VI piede, l’accusativo fwnhvn. L’anonimo aderisce al cambiamento collocando fwnhv sempre nell’ultimo metron (6x); in un solo caso ricorre invece all’unicismo omerico e[nnepe mu'qon (vd. comm. ad v. 541). Il campo formulare delle indicazioni temporali, che investe soprattutto i due momenti di alba e tramonto, costituisce il banco di prova privilegiato dei poeti ellenistici e tardoantichi che si sforzano di variare il repertorio espressivo dell’epica omerica (vd. comm. ad vv. 366-8). In Apollonio e, in modo ancor più accentuato, in Nonno, esse conoscono una cura e uno sviluppo tali da costituire veri e propri frammenti ecfrastici. Il poeta delle AO sembra al contrario seguire le tracce di Quinto Smirneo, che ricorre alle indicazioni temporali con la funzione di introdurre i vari nuclei narrativi: nella prima parte dell’opera se ne contano 4 esempi (alba vv. 366-8, 563-4; tramonto vv. 303-4, 512-3), cui si aggiungono due indicazioni relative alla mezzanotte (vv. 536- 7) e al mezzogiorno (vv. 649-50). In tutti i casi, come osservato in sede di commento, non si avverte alcun impegno di rielaborazione da parte dell’anonimo. Altro nucleo formulare che ricalca sostanzialmente il poema omerico è infine quello del sogno, per cui si veda il comm. ad vv. 538-57.

Per ciò che riguarda le letture, si ha l’impressione che il poeta conoscesse innanzitutto Quinto Smirneo, capofila della tendenza arcaizzante di età tardoantica. Più volte, incipit e clausole esametriche ricorrono identiche solo nei Posthomerica, come pure altre espressioni in stessa sede metrica, cfr. ad es. vv. 431 h[luqen aujdhv, 512 jWkeanoi'o rJovon. I due testi condividono numerose iuncturae, come polusperevessi brotoi'" (v. 5), laiyhrouv" t∆ ajnevmou" (v. 340), daivmona" eijnalivou" (v. 343), baquskovpeloiv te kolw'nai (v. 638), etc. Esistono ulteriori possibili corrispondenze sul piano delle scelte lessicali: ad esempio, uJperkperavw (v. 69) è attestato solo in Q.S. 5.246; lo hapax megalovbromo" (v. 463) è forse plasmato a partire da Quinto (vd. comm. ad l.). Alcuni particolari della narrazione di quest’ultimo sembrano infine trovare riflesso nelle AO, si veda comm. ad vv. 520, 583, 589. Per altri aspetti, lo stile del poema anonimo è diverso da quello dell’epico Quinto: oltre alla trascuratezza delle AO, si noti, ad esempio, come il discorso diretto occupi il 12.4% del testo, percentuale vicina a quella della

Blemyomachia (meno del 10%, seppur condizionato dalla frammentarietà dei resti) e lontano dal

24% di Quinto Smirneo e soprattutto dal 36% di Nonno.

Decisamente più complesso definire i rapporti che intercorrono tra il nostro testo e l’epica nonniana. La palese, estrema lontananza dei due stili – ‘barocco’ quello di Nonno, scarno e ruvido quello delle AO – ha portato alcuni studiosi a trascurare completamente il problema; chi si è pronunciato ha per lo più interpretato le differenze e, in particolare, la totale ignoranza delle leggi metriche imposte dall’autorità di Nonno, come indizio di un’anteriorità cronologica dell’anonimo poeta206

. Secondo Vian (46), le AO potrebbero esser databili alla metà del V sec. d.C., a meno che, ovviamente, i paralleli con Nonno non debbano dipendere da un fondo comune a noi sconosciuto. Pretendere di mettere un punto alla questione è chiaramente impossibile, ma da una lettura approfondita e da un ennesimo confronto tra le Dionisiache nonniane e il testo anonimo, emerge una serie di aspetti su cui occorre riflettere. Mi limiterò qui a far notare le particolarità più degne di nota, discusse anche in sede di commento. Compaiono espressioni identiche, cfr. ad es. vv. 2 Parnassivda pevtrhn (~ D. 40.83), 467 o[rgia friktav (~

D. 3.262-3) o comunque simili (cfr. v. 90 bavrbara fu'la ~ D. 13.248 e[qnea bavrbara Kovlcwn)

e immagini care a Nonno, come oJlkov" (v. 13, vd. Gigli Piccardi 1985, 175-7) e strofavligx (v. 531, ibid. 83-4). Alcune forme sono attestate solo in Nonno, cfr. vv. 114 steivnw (con diatesi attiva ~ D. 23.5), 136 pareunavomai (~ D. 2.355 al.), 269 ojlisqaivnw (c. dativo ~ D. 4.161, 448), 540 panethvtumo" (~ P. 8.36). Alcuni usi sono forse giustificabili partendo proprio da Nonno, cfr. ad es. i casi di fevrw (v. 414), krivsi" (v. 428), tumbivdio" (v. 577), come pure alcuni hapax, cfr. ojressivdromo" (v. 21), jAdwnai'o" (v. 30), aJlikrovkalo" (v. 335). Infine, alcuni nuclei narrativi mostrano analogie sorprendenti, basti citare l’incontro tra Dioniso ed Eracle-Melqart del quarantesimo libro delle Dionisiache (vd. comm. ad AO 24, 513, 584) e la gara canora tra Eagro e Eretteo in occasione dei giochi funebri di Stafilo in D. 19.69-117 (vd. comm. ad AO 440-1). Questi contatti sembrano mostrare che, se l’anonimo non ha conosciuto Nonno, quanto meno doveva esistere un fondo comune che ha influito in modo massiccio sul modus operandi di entrambi i poeti207. Torneremo successivamente sul ruolo da attribuire a Nonno.

Concludiamo discutendo brevemente le relazioni tra AO e Inni di Proclo segnalate da Schelske (102-4), che sostiene, come si è osservato ampiamente in precedenza, una coincidenza tra la narrazione anonima e l’imagerie e gli intenti degli Inni. Lo studioso segnala alcuni ‘interessante Parallelen’ nell’impiego degli epiteti divini. Il primo caso è quello di ejmpulivh (v. 902), coniato dall’anonimo per la statua di Artemide-Ecate che presiede l’entrata al giardino di Eeta. L’ipotesi di Schelske è che lo hapax possa esser nato dalla rara forma proquvraio", epiteto

206 Vd. Hermann e, per ultimo, Livrea 2014, 55. Per questioni relative alla datazione vd. § 6. 207

Vorrei segnalare in margine il caso della Blemyomachia: il testo, fortemente intriso di omerismi, mostra talvolta iuncturae nonniane; forse, come osserva Livrea (1976, 110), il conservatorismo dell’autore non riesce ad evitare completamente la spinta del nuovo.

di Ecate in Procl. H. 6.2, 14; quest’ultimo epiteto ricorre tuttavia anche in [Orph.] H. 2.4, 12 (che reca peraltro la dicitura Proquraiva" qumivama), dedicato ad una figura identificabile con Artemide. È dunque possibile che Proclo, come l’autore delle AO, fosse partito dall’Inno orfico per attribuire a Artemide-Ecate un ruolo che da millenni le era riconosciuto nella cultura greca208. Il secondo caso è quello di ejrwtotrovfo", hapax riferito ad Afrodite (vv. 478, 868), di cui Schelske individua un riflesso nel simile ejrwtotovko" in Procl. H. 2.13; anche stavolta l’osservazione è pertinente, ma si sarebbe dovuto notare che l’aggettivo è diffuso più volte nell’età tardoantica, in particolare in Nonno (11x, di cui cfr. D. 34.117 Kuvprido"... ejrwtotovkoio) e nei papiri magici, analogamente riferito a Afrodite (vd. comm. ad v. 478). È pertanto altrettanto plausibile che l’anonimo abbia tratto questi aggettivi dagli Inni orfici e dalla tradizione condivisa con Nonno.