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De aucup‹i›o seu vennatione ad aves Capitulum XX m

[1] ‹Q›uando autem Magnus Kaam moratus est in ista civitate Cambalu, quam dixi vobis,

tribus mensibus, recedit inde in mense martio et vadit versus meridiem usque ad mare

Occianum, quod distat duabus dietis. [2] Et ducit secum decem milia falconerios, et portat

bene quinque milia girfalcos et falcones peregrinos satis; et portant multos astores. [3] Et non

credatis quod omnes teneat in uno loco, sed ibi tenet ducentos, ibi trecentos et sic de aliis; et

istas aves quas capiunt pro maiori parte dant domino. [4] Et quando dominus vadit ad

ucellandum cum suis girfalchis, astoribus et falconibus, ipse habet decem milia hominum, qui

sunt ordinati bini – et vocant eos roschaor, idest “homines qui stant ad custodiam” –, et hoc

facit ut teneant multum de terra; et quilibet habet lungam et trappellum ad vocandum aves. [5]

Et quando Mangnus Kaam facit prohici aliquam avem, non opportet quod ille qui prohicit

vadat post eam, quia illi homines qui sunt ordinati bini custodiunt eas bene, quod non possunt

alio ire, ita quod non sit capta; et si avis indiget succursu, statim dant sibi. [6] Et omnes aves

Mangni Kaam et aliorum baronum habent unam parvam tabulam argenti ad pedem, ubi est

scriptum nomen illius cuius est; et si ista avis capitur, statim cognoscitur et reditur illi cuius est;

et si nescitur cuius sit, portatur uni baroni, qui vocatur balangugi, idest “custodi rerum que

perduntur”. [7] Et ille qui invenit tenetur statim portare illi cuius est, quod |43a| si non facit

reputatur latro; et sic fit de omnibus equis et canibus et rebus que inveniuntur – et facit eas

custodiri; et ille qui perdidit vadit ad illum baronem, et ille stat semper in altiori loco exercitus

cum suo vexillo: et sic quasi nichil perditur ibi. [8] Et per istam viam Mangnus Kaam vadit

semper super quatuor elefantes, et ibi habet unam pulcram cameram, que est cooperta pannis

batutis ad aurum et de foris est cooperta coriis leonum; et Magnus Kaam tenet semper ibi

duodecim girfalcos de melioribus quos ipse habet; et ibi morantur duodecim barones secum ad

suum solacium. [9] Et quando milites transeunt iuxta eum, dicunt: «Domine, grues transeunt!»,

et tunc ipse facit discoperiri cameram, et accipit de istis girfalchis et dimittit eos ire ad illas

grues, et pauce evadunt que non capiantur; et ipse stat in leto suo. [10] Et numquam fuit

dominus nec erit qui tantum solatium habeat, nec qui possit habere, quantum iste habet.

6. baroni] boroni

F XCIII «Ci devise comant le Grant Kan vait en chace por prandre bestes et oisiaus» [2-20]; TA 93

«Come ’l Grande Sire va a caccia» [1-18]; P II 19 «De aucupio eius seu de venacione ipsius ad aves. Capitulum XIXm».

1. Si preannuncia un cambio di scenario: TA 93, 1 «E quando il Grande Sire à dimorato .iij. mesi

nella città che v’ò contato di sopra, cioè dicembre, gennaio, febraio, dunque si parte di quivi del mese di marzo e va verso mezzodie infino al mare Aziano, che v’à .ij. giornate» (si osservi come il redattore da un lato insista sulla nominatio geografica – compare una volta di più il nome della città –, dall’altro espunga la ripetizione del dettaglio temporale – «cioè dicembre, gennaio, febraio»). ― 2. La pericope, al netto di qualche puntuale omissione , coincide con TA 93, 2 «E mena co lui almeno .xm. falconieri, e

porta bene .vc. gerfalchi» (LT ripete la cifra: «decem milia girfalcos»), TA «e falconi pellegrini e falconi

sagri in grande abondanza; ancora porta grande quantità d’astori per uccellare i·riviere». ― 3. Se la prima parte della pericope è indubbio calco di TA 93, 3 «E non crediate che tutti li tenga insieme, ma·ll’uno istà quae e l’altro làe, a .c. e a .cc. e a più e a meno» (LT «Et non credatis quod omnes teneat

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in uno loco, sed ibi tenet ducentos, ibi trecentos et sic de aliis»: i numeri sono sbagliati, il senso del secondo arco sintattico – sembra – non è stato colto appieno), la seconda parte risente della lettura di P II 19, «Aves autem que capiunt [P Conv., f. 33d capiuntur] pro maiori parte deferuntur ad regem» (LT «et istas aves quas capiunt pro maiori parte dant domino», il cui contenuto informativo corrisponde a quanto riferito dal resto di TA 93, 3 «e questi uccellano, e la magiore parte ‹ch’egli prendono› danno al signore»). ― 4. La porzione testuale di riferimento è TA 93, 4-5 «E sì vi dico, quando lo Grande Sire vae a uccellare con i suoi falconi e gli altri ucegli» (LT elenca «cum suis girfalchis, astoribus et falconibus»: i girfalchi – non i falconi – sono i primi (e gli unici) a apparire in F XCIII, 5 «cum sez jerfaus et con autre osiaus»), TA «egli à bene .xm. uomini, che sono ordinati a .ij. a .ij. e si chiamano

tostaor, che viene a dire in nostra lingua ‘uomo che dimora a guardia’. E questo si fa a ij. a .ij., acciò che tengano molta terra; e ciascuno àe lunga e [c]appello e stormento da chiamare gli uccelli e tenergli»: quest’ultimo segmento – e la sua resa latina – va chiosato. Intanto, la lectio «[c]appello» è restituita da BP, p. 431 sulla base di A1 A4 A5 (A2 legge «rappello», A3 tace), in linea con F XCIII, 5 «et chascun a un

reclan et un capiaus por ce qe il peussent clamer les osiaus et tenir»; BP, p. 144 informa poi che lunga e

cappello sono rispettivamente «la striscia di cuoio che li tiene legati e il cappuccio che impedisce loro di

vedere fino al momento in cui sono liberati per la caccia»: nella versione TA, dunque, il reclan di F, destinato a clamer i rapaci, equivarrebbe allo «stormento da chiamare gli uccelli», mentre il capiaus francese è assorbito nell’endiadi «lunga e cappello», utili invece a «tenergli» (la sintassi della stringa toscana, in ogni caso, non è delle più nette). Esaminando LT «et quilibet habet lungam et trappellum ad vocandum aves» notiamo che la lunga è rimasta, e che cappello (magari scritto – o letto [c e r potevano essere confuse] – «rappello» come in A2 [non si spiegherebbe altrimenti l’alterazione del comprensibile

cappello]) ha dato vita a trappellum, lemma che potrebbe identificare (1) il drappello, la cui accezione

primaria è «manufatto di stoffa di piccole dimensioni (per indicare il velo con cui le donne si coprono la testa)» (cfr. OVI, TLIO s.v – è attestata pure la forma trapello; lat. drap(p)ellus: cfr. Du Cange, s.v.), (2) il

trappello (o leva a t.), cioè, propriamente, «quella [la leva] dei colombi, il cui posatoio è fatto a ti

maiuscolo» (cfr. Glossario della lingua italiana di caccia, s.v., dove per leva s’intende «uccello da gioco che, legato in cima a un’asticciuola a gruccia, da alzarsi e abbassarsi per mezzo di un filone, ha imparato a volare composto e a brillare riposandosi sii [sic] la gruccia stessa»; in altri termini, il trappello designerebbe «un piccione imbracato e ammaestrato a star sempre sopra un posatoio a gruccia»): insomma, che si tratti di un minuscolo copricapo (opzione più probabile) o di un’esca vivente oppure (per metonimia) di un posatoio per volatili addestrati – e sempre che non si ammetta il mero svarione paleografico, per cui potremmo correggere in {t}[c]appellum –, il trappellum di LT, in coppia con la lungam, servirebbe esclusivamente «ad vocandum aves» (mancano, come si vede, lo «stormento» appropriato e il momento del «tenergli», gli uccelli da caccia...) – si confronti, in cauda, P II 19, 5 «vocantur autem lingua tartarica “roscaor” [P Conv., f. 34a toscaor], id est “custodes”, habet vero quilibet eorum pro avibus reclamatorium et capellum ut aves vocare et tenere valeant». ― 5-6. Il traduttore non si discosta dal dettato di TA 6-9 «E quando ’l Grande Kane fa gittare alcuno uccello, e’ no bisogna che quel che ’l getta li vada dirieto, perciò che quegli uomini ch’io v’ò contato di sopra, che stanno a .ij. a .ij., gli guarda bene, che non puote andare i·niuna parte che no sia preso. E se a l’uccello fae bisogno socorso, egli gliel danno incontanente. E tutti gli uccegli del Grande Sire e degli altri baroni ànno uno piccola tavola d’ariento al piede, ov’è scritto lo nome di colui de cui egli è l’uccello. E per questo è conosciuto di cui egli è, com’è preso, e è renduto a cui egli è» (LT traduce «et si ista avis capitur, statim cognoscitur et reditur illi cuius est»), TA «e s’egli non sa di cui e’ si sia, sì ’l porta ad un barone ch’à nome bulargugi, ciò è a dire ‘guardiano delle cose che si truovano’ (può darsi che dietro a LT «idest “custodi rerum que perduntur”» ci sia P II 19, 5 «id est “custodum rerum perditarum”»). ― 7. Si riproduce, in maniera un po’ accidentata, TA 93, 10-12 «E quegli che ’l piglia, se tosto nol porta a questo barone, è tenuto ladrone» (LT «Et ille qui invenit tenetur statim portare illi cuius est, quod si non facit reputatur latro»: il barone preposto alla custodia delle cose smarrite è sostituito – a scapito della chiarezza semantica del segmento

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successivo – da «illi cuius est», per cui cfr. LT II 20, 6), TA «e così si fa d’i cavagli o d’ogne cosa che·ssi truova. E quello barone sì·lle fa guardare tanto che·ssi truova di cui egli èe» (LT «et sic fit de omnibus equis et canibus et rebus que inveniuntur – et facit eas custodiri»: la versione latina, oltre a risultare un po’ contorta, aggiunge canibus; si confronti F XCIII, 8 «char je voç di qe se l’en trouve un chevaus o une espee ou un osiaus ou autre couse, et il ne treuve de cui il soit, ...†... a ceste baronç, et cil la fait prendre et garder. Et celui qu’il la trove, se il ne la porte tant tost, il est tenu por lairon» [canibus potrebbe essere un abbaglio per avibus – in ogni caso si parla di cani nel capitolo precedente]), TA «e ogni uomo ch’à perduto alcuna cosa, incontanente ricorre a questo barone. E questo barone stae tuttavia nel più alto luogo de l’oste con suo gonfolone perché ogni uomo lo veggia, sì che chi à perduto, si se ne ramenta allotta quando ’l vede; e così no vi si perde quasi nulla» (brutalmente brevior LT «et ille qui perdidit vadit ad illum baronem, et ille stat semper in altiori loco exercitus cum suo vexillo: et sic quasi nichil perditur ibi»). ― 8. Si prosegue con TA 93, 13-15 «E quando ’l Grande Sire vae per questa via verso il mare Aziano, che io v’ò contato, egli puote vedere molte belle viste di vedere prendere bestie e uccegli; e non à solazzo al mondo che questo vaglia. E ’l Grande Sire va tuttavia su .iiij. leofanti, ov’egli àe una molta bella camera di legno, la quale è dentro coverta di cuoia di leoni» (LT riduce: «Et per istam viam Mangnus Kaam vadit semper super quatuor elefantes, et ibi habet unam pulcram cameram, que est cooperta pannis batutis ad aurum et de foris est cooperta coriis leonum»), TA «Lo Grande Sire tiene quiv’entro tuttavia .xij. gerfalchi de’ migliori ch’egli abbia; e quivi dimora più baroni a suo solazzo e compagnia» (più fedele qui LT «et Magnus Kaam tenet semper ibi duodecim girfalcos de melioribus quos ipse habet; et ibi morantur duodecim barones secum ad suum solacium», a parte quel duodecim riferito ai barones: cfr. almeno LT II 16, 1). ― 9-10. Al netto di alcuni tagli piuttosto inoffensivi, le pericopi rispecchiano i contenuti di TA 93, 16-18 «E quando ’l Grande Sire vae in questa gabbia, e gli cavalieri che cavalcano presso a questa camera dicono al signore: “Sire, grue passano”, e egli fa scoprire la camera, e prende di quegli gerfalchi e lasciagli andare a quelle grue; e poche gliene campa che non siano prese. E tuttavia dimorando ’l Grande Sire in sul letto, e ciò gli è bene grande sollazzo e diletto; e tutti gli altri cavalieri cavalcano intorno al signore. E sappiate che nonn-è niuno signore nel mondo che tanto solazzo potesse avere in questo mondo, né che avesse il podere d’averlo, né fue né mai sarà, per quel ch’i’ credo».

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