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Per lui il decennio si apre con l’impegno per la riforma urbanistica, prima nella Commissione dell’Inu, successivamente in quella del Ministero dei Lavori pubblici, prosegue nel 1963 con

Nel documento Le eredità di Giovanni Astengo (pagine 53-59)

l’incarico per la redazione del Piano regolatore di Genova, nel ’65 per quello di Bergamo e

culmina nel 1966 con la nomina ad assessore all’urbanistica al Comune di Torino e con la par-

tecipazione alla commissione d’indagine sulla frana di Agrigento

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. Gli anni sessanta per

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Astengo si esauriscono, assieme alle speranze di cam- biamento, nel ‘68 con la pessimistica e autocritica re- lazione preparata per il XII Congresso dell’Inu, sciolto come è noto in seguito alle contestazioni studentesche. In quel testo – pubblicato poi col significativo titolo di “Le nostre tigri di carta” – Astengo denuncia lo stato delle città italiane, divenute a suo avviso «fra le più brutte, congestionate e inabitabili d’Europa», a causa di «una spessa e pesante cappa di edifici e di impianti [che] si è brutalmente sovrapposta alle strut- ture urbane (...) incapsulando e deformando definiti- vamente e senza rimedio l’antico, nobile e civile volto urbano del nostro paese». Di fronte a questo nuovo paesaggio che documenta il “fallimento urbanistico” della sua generazione, egli richiama gli urbanisti ad un senso di responsabilità, li sollecita ad analizzare le cause di un simile disastro e li invita ad una fredda autocritica per l’inefficacia dei loro piani che si sono rivelati fragili “tigri di carta”58.

Utilizzare la luce dell’utopia per orientare gli sguardi sulla sua figura può essere utile per affrontare quelle tensioni tra illuminismo e riformismo che ne hanno in parte caratterizzato l’attività di urbanista.

In che senso Astengo sarebbe stato un utopista e quale utopia ha inseguito? Un’utopia la sua che non può certo essere costretta entro la fredda immagine di una città-società futura cristallizzata dalla sua perfezione, lontana nel tempo e nello spazio dal- la città-società esistente: «non mi sento di parlare di una astratta idea, atemporale ed aspaziale, di città ideale in cui non ho mai creduto – affermava nella lezione “Qualche “mia” idea di città” svolta a

Venezia nel 1984 – ma solo di idee concrete, legate ad esperienze concrete, in concreti contesti di tempo e di luogo»59. E infatti le “sue” città poste al centro di

quella lezione sono Torino, Assisi, Genova e Bergamo, luoghi nei quali egli ha inseguito concretissime utopie e dove forse ne troviamo i frantumi.

Né dell’utopista Astengo ripropone l’intuizione solita- ria, l’astrazione di uno «splendido isolamento della ricerca individuale»60. Nel 1945, in occasione della

fondazione del Gruppo di architetti moderni torinesi, intitolato a Giuseppe Pagano, egli scrive: «È nostra fede che una collettiva azione di gruppo, non potrà che aiutare a fissare sempre più chiaramente la no- stra linea di azione individuale, a confortarci vicende- volmente con la forza della cooperazione, a penetra- re in profondità col peso di argomentazioni collettive, ad allargare l’azione di persuasione nel pubblico, a convincere, a trascinare». E i risultati, anche se inizial- mente modesti, «non potranno alfine fallire allo scopo se le idee che sostengono l’azione collettiva posseg- gono l’irrefrenabile forza di un convincimento mora- le, che supera l’individuo (...) per investire il destino stesso della società»61. Col tempo egli continuerà a

credere nella dimensione collettiva del fare urbani- stica: una professione da svolgere prevalentemente nelle istituzioni pubbliche, per la collettività.

Astengo non è stato un utopista nemmeno in quel significato riduttivo del termine che un suo certo uso comune gli ha attribuito, quello di un sognatore, di una persona priva di senso pratico che, illudendosi, insegue l’impossibile. L’urbanista torinese ha espresso una vocazione all’utopia contemporaneamente alla professione del realismo e ha sperimentato su di sé la

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contraddizione tra la nobiltà degli ideali perseguiti e la durezza della realtà che li infrange. Nel suo lavoro ha mostrato determinazione, forse anche una certa ostinazione, nell’inseguire le proprie idee e nel tentare di metterle in pratica; non era uso arrendersi, darsi per vinto, ma piuttosto abituato a “restare sul luogo”, controbattere meticolosamente, fino all’ultimo, ai suoi oppositori e financo accusatori. I modi nei quali egli ha affrontato le “sfortunate” esperienze di Assisi, Gubbio62 e Genova63 lo hanno dimostrato.

Lo studio del suo lavoro mi pare rinviare al significato di utopia come un sinonimo di piano/progetto: utopia come modo di porre in stretta relazione presente e futuro. Come l’utopia, il piano non è sola pre-figura- zione, ma immagine-guida64 per l’urbanista, per la

società per la quale è chiamato a progettare i futuri spazi di vita e per gli amministratori che la governa- no.

Il piano diviene strumento che scava verso il futuro, processo conoscitivo e proiettivo che unisce un «punto di partenza che è noto» e un «punto di arrivo che è incognito». Astengo è consapevole che questo ruolo del piano pone un «problema metodologicamente (...) tutt’altro che semplice da risolvere»65. Problema che si

era posto già ad Assisi; qui il compito di individuare il “divenire” della struttura urbana-sociale-economica e, conseguentemente, la precisazione degli obiettivi futuri era stato affidato all’apparato analitico-de- scrittivo. In quel periodo Astengo vede il piano come uno stadio nello sviluppo dell’organismo urbano che l’urbanista, con il supporto di analisi, può dis-velare, coerentemente a un’immagine del futuro ancora imbrigliata nel presente. Successivamente, a Genova

e a Bergamo, la preliminare individuazione degli obiettivi significherà per Astengo poter pre-vedere, fin dall’avvio del percorso progettuale, un’immagine futura di forte rinnovamento per la struttura urbana e territoriale. Proprio il riverberarsi di questa immagine sullo stato presente, anche agendo sull’immaginario sociale, è in grado di promuovere processi di cam- biamento. Il piano così non è più semplice «proiezione delle tendenze in atto», ma pre-visione di profonde modificazioni, un’immagine del futuro che, orientando gli sguardi, le speranze e le attese, è in grado di imporsi nel presente e trasformarlo66. Come un’utopia,

il piano mostra la creativa potenzialità di rivitalizzare il processo della progettazione urbana67.

Nell’urbanistica, come nella politica, nell’economia e nelle scienze giuridiche, per Astengo, va fatta una distinzione tra razionalizzazione e trasformazione dello stato presente. La prima mira a correggere la struttura insediativa ed ha per scopo la sua massima efficienza, proponendo un’idea di futuro come pro- iezione e prolungamento del presente nel futuro. La pianificazione trasformatrice, al contrario, si prefigge cambiamenti strutturali; la definizione di nuovi obiet- tivi modella un futuro desiderabile e possibile. Per Astengo «vi è quindi rottura fra presente e futuro. Il futuro, oggetto della pianificazione, si presenta, così, come la realizzazione integrale degli obiettivi o come il più vicino degli stadi per il loro approccio»68.

Soprattutto con i piani di Genova e di Bergamo, Astengo ha cercato di mettere in pratica questi princi- pi, prefigurando diverse ipotesi di sviluppo, articolate all’interno dello spazio racchiuso dalla dicotomia razionalizzazione/trasformazione.

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Ad esempio a Genova, come noto, erano state deli- neate quattro distinte ipotesi: due riguardavano un tipo di sviluppo definito “marginale”, adattato sulle tendenze e le iniziative in atto, più o meno raziona- lizzate, e due altre ipotesi per uno sviluppo definito “strutturale”, basato cioè su scelte di forte rinnova- mento. Non si tratta, spiega Astengo, di «quattro soluzioni tecniche dello stesso tipo di città, ma di quattro tipi diversi di città e quattro sinergismi di atti- vità economiche: con questo metodo l’Amministrazione non verrebbe quindi posta di fronte ad un piano da accettare o respingere in blocco, ma chiamata a sce- gliere responsabilmente, prima della stesura definitiva del piano, fra questi diversi schemi, che corrispondono non solo a diverse ipotesi di sviluppo socio-economico ed urbanistico, ma sono anche correlativi a due di- versi atteggiamenti di politica urbanistica, dipendenti quindi strettamente dalla scelta politica dell’ammini- strazione, uno più remissivo di fronte alle tendenze in atto, l’altro più incisivo nelle decisioni e nelle attua- zioni»69. La definizione degli obiettivi è dunque «atto

politico per eccellenza».

Un altro aspetto che consente di associare il lavoro di Astengo all’utopia è la trasparenza. Come nelle città di utopia, dove tutto è rivelato, dove l’opacità è negata e la trasparenza dello spazio orienta, Asten- go insegue l’utopia della totale razionalità – quindi limpidezza e comunicabilità – del processo di piano in ognuna delle sue fasi, mostrando di aspirare a rendere trasparente la costruzione delle decisioni e coinvolgendo tutti gli attori per favorire il confronto democratico.

Proprio a Bergamo, come precedentemente a Geno- va, il piano ambisce a divenire limpido atto comuni- cativo poiché i vari attori e gruppi sociali coinvolti nel processo decisionale sono messi nelle condizioni prima di poter conoscere e comprendere le motivazioni, poi di valutare preliminarmente gli effetti delle scelte. Come in un laboratorio scientifico e come nell’utopia, il piano-scenario diviene una sorta di esperimento col quale mostrare le possibili/probabili trasformazioni della struttura urbana e gli effetti che esse potrebbe- ro produrre nella complessa realtà locale70.

A Bergamo, spiega Astengo, «durante l’intero iter (...) costante è stato l’intendimento di basare studi ed opzioni su di un metodo scientifico, che permettesse non solo ai progettisti, ma anche agli amministratori, designati a decidere, ed agli utenti, interessati ai problemi della vita comunitaria, di evitare, da un lato, atteggiamenti di miope razionalizzazione, identifica- bile al limite con l’acquiescente registrazione e con la legalizzazione di tendenze in atto e, dall’altro, errori ed arbitri propri dei procedimenti intuitivi e delle scelte discrezionali, fondati su ipotesi ed affermazioni essenzialmente apodittiche, o su impegni finanziari non verificati»71.

La razionalità del processo è aiutata dalla chiara scansione delle fasi, dalla pre-figurazione delle alternative di sviluppo e dalla loro verifica attraverso il calcolo economico. Poiché «non possiamo né dob- biamo decidere solo per intuizione, o a sentimento, o con il semplice computo dei costi di investimento [ma] dobbiamo riuscire a stabilire il rendimento economi- co di ciascuna [alternativa di sviluppo], in modo da potere, dal confronto, avere elementi determinanti

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ed obiettivi di giudizio»72, la valutazione di ciascuna

alternativa e il passaggio da una fase alla successi- va avviene in modo «scientificamente verificabile ex ante con un accertabile bilancio complessivo di costi e benefici»73. L’uso del calcolo economico consente qui

la “razionalità decisionale”.

L’applicazione di metodi matematici all’economia politica e alle discipline sociali è un’eredità dell’illumi- nismo settecentesco che ha incontrato poi il favore dei positivisti nell’ottocento. Già Ildefonso Cerdà, nella sua «Teoria generale dell’urbanizzazione», aveva affermato il valore della statistica per l’urbanistica, «fonte inesauribile di prove schiaccianti e irrefutabili, da cui tutte le scienze sociali finalizzate all’applica- zione pratica hanno tratto grande profitto. Attraverso la statistica, tutti i problemi verranno posti in termini matematici e non sarà quindi più possibile accusarci di affidarci al capriccio dell’immaginazione. Sarà inevitabile a quel punto ammettere che tutte le stime sono fondate sulla logica indiscutibile delle cifre»74.

Il pensiero di Cerdà mostra la totale fiducia in un metodo che costantemente si appoggia sull’analisi quantitativa che egli vede come mezzo per fondare e giustificare le scelte progettuali. Le parole dell’urba- nista spagnolo ci conducono sorprendentemente verso quelle di Astengo, il quale, esattamente un secolo più tardi, sostiene l’importanza del calcolo economico quasi allo scopo di ridurre il peso del punto di vista del singolo progettista, rendendo il piano un percor- so razionale e dimostrabile. «Decidere è sempre (...) atto di un individuo o di più individui, che prendono la decisione o come gruppo o in nome e per conto del gruppo»75, in una simile responsabilità sta, per Asten-

go, la problematicità del mestiere dell’urbanista. Questa preoccupazione è costantemente presente nella sua attività ed è per farvi fronte che egli ritiene equa la scelta che può delinearsi nell’ambito di un si- stema di valori e vincoli. Il metodo scientifico, il calcolo economico consentono, da una parte di semplificare la complessità dei fenomeni urbani, trasformandoli in quantità numeriche, dall’altra di limitare il “libero arbitrio” di coloro ai quali spetta prendere e gestire le decisioni per l’intera collettività: tecnici e politici76.

«L’utopia realizzata» è un secondo titolo appuntato

da Astengo sul dattiloscritto del suo libro inedito, in alternativa a «L’utopia inseguita».

Nella ricerca di un metodo scientifico orientato a cor- reggere efficacemente le distorsioni nell’uso del suolo, ma anche a rafforzare la democrazia nel nostro paese, sfociano le concretissime utopie astenghiane e i loro più realistici intrecci col riformismo. Un riformi- smo il suo rivolto in primo luogo alla disciplina e al territorio, conseguentemente alla società e alla politi- ca. Con un lavoro dall’interno verso l’esterno Astengo ha espresso fiducia nelle possibilità dell’urbanistica di contribuire a rendere il nostro un paese moderno e democratico.

Il riformismo dell’urbanista torinese si è certo espresso anche attraverso la militanza politica, con l’impegno nelle schiere della sinistra, ma, anche quando ha indossato l’abito del politico, egli non ha mai smesso quello del tecnico. Per l’urbanista torinese non esiste alcuna opposizione, e teoricamente neppure alcun problema di comunicazione, tra tecnici e politici. Quando questi problemi sono sorti, come talvolta è

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capitato nella sua attività urbanistica e come spesso avviene nel nostro paese, è perché il politico non ha compreso il valore della tecnica e viceversa. Anche da questo punto di vista occorre riconoscere il valore della “lezione” di Astengo e la necessità di sue ulte- riori esplorazioni.

Il vero impegno politico di Astengo si è espresso pie- namente nella fede nelle potenzialità riformiste del piano urbanistico. Per questo il piano è per lui luogo e momento di una iniziale e fondamentale opzione che ha valore democratico: la scelta del metodo per la costruzione del processo di piano. Già nel 1953 scri- veva: «La pianificazione democratica, che persegue fini di benessere economico e sociale, sia individuale che collettivo, usa, necessariamente, strumenti il meno possibile casuali, ripudia il dilettantismo e reclama una impostazione scientifica e razionalmente dimo- strabile [al contrario della] pianificazione dittatoriale che necessariamente persegue fini extra-economici ed è spesso indifferente al benessere e alla felicità degli uomini [e si avvale di] mezzi di pianificazione dilettantesca»77.

L’associazione tra razionalità, bene comune e de- mocrazia mette in luce una fondamentale sinonimia astenghiana che contribuisce a collocarlo lungo la mi- gliore tradizione illuministica prima e positivistica poi: scienza ed etica si sovrappongono fino a coincidere, l’una diviene condizione dell’altra.

Ma ritornando all’Astengo utopista, possiamo ricorda- re quanto affermava in conclusione della lezione sulle “sue” idee di città del 1984: «Da recidivo utopista quale mi onoro di essere auguro a me e a voi tutti, che (...) la vis creandi non abbia a venir meno nella

progettazione urbanistica e che le idee per la città tornino ad essere, come ai tempi delle libertà comu- nali, al centro degli interessi comunitari. Altrimenti, chi ci, vi, salverà dalla noia infinita delle città senz’anima e senza idee per il futuro?»78.

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