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direttore Bernardo Secch

Nel documento Le eredità di Giovanni Astengo (pagine 111-113)

Il programma di Urbanistica (82 1986)

Il punto principale è forse quello che riguarda l’illustra- zione di piani o di politiche urbanistiche e territoriali. Esso solleva questioni che non ci sembra possano oggi essere eluse; ad esempio: a) la natura del piano, cosa cioè ne metta correttamente in luce caratteri, connotati e ruolo o, più radicalmente, cosa debba essere inte- so come costitutivo, al di là delle personali aggiunte interpretative, del singolo piano o della singola politica urbanistica e territoriale; b) la centralità del piano entro le politiche urbanistiche e di queste entro la nostra stessa area disciplinare; se tutto, entro la nostra area di studio e riflessione, debba cioè e possa essere riferito al pro- blema della formulazione e gestione dei piani e delle politiche o se, invece, il centro della nostra disciplina non si sia e non debba essere spostato altrove; c) come, infine, i piani e le politiche possano essere illustrati, come debbano eventualmente essere selezionati gli elementi da proporre al lettore-interprete-commentatore, quali in forma di documento originario e quali tramite un “riassunto selettivo”.

Naturalmente ciò vuol dire affermare nuovamente la centralità del piano e della politica territoriale, affer- mare il carattere eminentemente “pratico” del sapere urbanistico, la natura “congetturale” di molti dei suoi “argomenti”, la possibile valutazione di ogni suo asserto in termini di “fertilità” piuttosto che di verità, il riconosci- mento delle sue radici “etiche” anziché “epistemiche”. Questo atteggiamento non deve essere frainteso: affermare la centralità del piano non vuol dire ritener-

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ne immutabili le “forme”; né tantomeno disconoscere l’importante, fertile, ruolo svolto negli anni più recenti da ricercatori che dalla costruzione e gestione di piani si sono tenuti distanti. La ricerca territoriale nel nostro paese ha semmai tradizionalmente sofferto di un’ecces- siva anche se giustificabile fretta nel tradurre in norma ogni proprio risultato e con ciò ha pagato un duro scotto in termini di credibilità.

Affermare la centralità del piano o della politica ur- banistica, il carattere pratico del sapere dell’urbanista, vuol dire piuttosto invitare a ripensare nuovamente il posto dell’urbanistica entro la società.

L’urbanistica italiana ha sviluppato una propria tradizio- ne, simile a quella di alcuni paesi europei, ma differente da quella di altri. Entro questa tradizione il progresso è stato molto schematicamente valutato per quanto del sapere dell’urbanista si istituzionalizzava come accumulo di leggi, norme, regolamenti. Vi sono ragioni profonde, non contingenti, che hanno spinto l’urbanistica ad assu- mere un atteggiamento di questo genere in ogni paese occidentale, anche se certamente in modi più accentuati in quelli a “sviluppo tardivo”. Esse hanno a che fare con l’origine del suo programma di ricerca e, soprattutto, con la grande sistemazione “razionalista”; con l’attenzione ad un sistema di bisogni umani naturalisticamente inter- pretati e con l’obiettivo di soddisfare prioritariamente quelli espressi, in forma minimale, dai gruppi meno favoriti dalla storia e dalle istituzioni. Queste stesse ragioni hanno collegato l’urbanistica a pervasive istanze di riscatto sociale ed a ciò che, in questi stessi paesi, ha storicamente connotato l’area della “sinistra” con ciò assegnandole un posto assai, anche troppo, preciso en- tro la società. È probabilmente difficile immaginare ora

un diverso sistema di giustificazione, ma è invece facile osservare che molti degli argomenti più frequentemente utilizzati dagli urbanisti si sono progressivamente dimo- strati meno rilevanti e pertinenti nelle società contempo- ranee. Queste ci appaiono oggi percorse da problemi, da questioni, differenti da quelle a ridosso delle quali l’urbanistica è nata e si è discorsivamente costituita. È forse a tutto ciò che deve essere collegata la sempre minore importanza assunta dalle tradizionali “analisi” nei piani più recenti. Il grande apparato analitico che ha connotato, sino al limite dell’esornativo, i piani degli ultimi anni ’60 e dei primi anni ’70 sembra oggi dimenti- cato; le ricerche mostrano un certo “distacco” dal piano e ciò si riflette spesso nell’atteggiamento personale di alcuni tra migliori ricercatori. Ma sullo sfondo le ricerche, le poche analisi ben condotte, continuano a svolgere un importante ruolo di produttrici di “immagini”; ad esse il piano è riferito piuttosto che esserne dedotto.

Queste considerazioni misurano forse la distanza del programma della rivista odierna dal suo grande pro- getto degli anni ’50 e ’60. Astengo assegnò giustamente allora un ruolo assai importante all’”esempio”, alla costruzione tramite suo di una forma omogenea e codi- ficata del piano e del suo; linguaggio. La sua attenzione e cura non furono solo portate alla selezione di piani che potessero mostrare l’uso “riuscito”, “paradigmatico” dei metodi di un’area di studio oramai innaturale ed orgogliosa dei propri risultati, ma anche fu portata, come noto, alla cocliticazione dello specifico linguaggio tecnico, soprattutto di quello visivo e delle principali categorie analitiche, soprattutto di quelle pertinenti l’intersezione tra analisi dei caratteri fisici del territorio e suo uso sociale. L’aver affrontato simultaneamente ed in

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modo coerente questi tre problemi tra loro ovviamente collegati è quanto consente di parlare di un “progetto” della rivista diretta da Giovanni Astengo, progetto il cui senso e valore può ora essere valutato alla luce della successiva critica epistemologica.

Oggi, in una diversa situazione culturale, sociale e politica la nostra attenzione e curiosità è attratta da problemi differenti che siamo indotti ad affrontare con la consapevolezza di disporre di un retroterra molto più ricco, articolato e problematico di un tempo. Ad esempio, due decenni almeno di importanti studi nel campo della storia della città e del territorio non ci consentono più di coltivare l’illusione di una fondamenta- le unità tra natura, storia e ragione. Il piano non è atto di rappacificazione della società con la propria storia e con la natura dopo la rottura, la deviazione borghese del XIX secolo. Storia della città e del territorio, natura dei luoghi, domanda sociale e indirizzi del piano non si dispongono in una sequenza allusiva di improbabili nessi deduttivi. La presentazione di un piano non può essere organizzata lungo questo asse espositivo. Ancora, un decennio almeno di importanti studi sui processi di rappresentazione e trattamento della domanda sociale ci costringe a pensare quest’ultima come un prodotto della costruzione e gestione delle politiche, tra cui quelle urbanistiche, piuttosto che come un “dato” che l’indagine svela e cui il piano risponde.

Gli esempi possono essere moltiplicati: nella nuova situa- zione culturale, sociale e politica, consapevoli di saperne molto di più di un tempo, grazie al lavoro di chi ci ha preceduto, abbiamo il dovere di essere curiosi e rigorosi. Per una rivista è un impegno non da poco.

Bernardo Secchi

1994 – 1998

Nel documento Le eredità di Giovanni Astengo (pagine 111-113)

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