• Non ci sono risultati.

La moglie di Trimalchione – il suo aspetto fisico, la sua storia, il suo carattere – assumono un grande rilievo nella narrazione della cena: infatti Petronio fa sì che ella venga descritta a Eumolpo da uno degli invitati (cap. 37), seduto accanto a lui durante l’interminabile banchetto a casa di Trimalchione. Ne scaturisce un qua- dro icastico e vivo, in cui la donna e la sua storia ven-

gono giudicati dall’interno del mondo stesso che l’ha ge- nerata. L’ospite si dilunga poi a parlare degli altri liberti arricchiti

che si trovano alla cena (cap. 38), completando il quadro umano di cui Trimalchione e sua moglie sono le figure in primo piano. Pre- sentiamo i due capitoli, seguiti da una scheda di approfondimento tratta da un famoso saggio di Erich Auerbach, dedicata proprio a que- ste descrizioni e alla tecnica narrativa messa in atto da Petronio.

(37) Non potui amplius quicquam gustare, sed conversus ad

eum, ut quam plurima exciperem, longe accersere fabulas coepi

sciscitarique, quae esset mulier illa, quae huc atque illuc discur-

reret. «Uxor» inquit «Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae

nummos modio metitur. Et modo, modo quid fuit? Ignoscet

mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere.

Nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad sum-

mam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet. Ipse nescit quit habeat, adeo

saplutus est; sed haec lupatria providet omnia, et ubi non putes. Est sicca, sobria,

bonorum consiliorum: tantum auri vides. Est tamen malae linguae, pica pulvinaris.

Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse Trimalchio fundos habet,

quantum milvi volant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus

iacet, quam quisquam in fortunis habet. Familia vero – babae babae! Non meher-

cules puto decumam partem esse quae dominum suum noverit. Ad summam,

quemvis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.

(38) Nec est quod putes illum quicquam emere. Omnia domi nascuntur: lana, cre-

drae, piper; lacte gallinaceum si quaesieris, invenies. Ad summam, parum illi bona

lana nascebatur: arietes a Tarento emit et eos culavit in gregem. Mel Atticum ut

domi nasceretur, apes ab Athenis iussit afferri; obiter et vernaculae quae sunt, me-

liusculae a Graeculis fient. Ecce intra hos dies scripsit, ut illi ex India semen boleto-

rum mitteretur. Nam mulam quidem nullam habet, quae non ex onagro nata sit.

Vides tot culcitras: nulla non aut conchyliatum aut coccineum tomentum habet.

Tanta est animi beatitudo! Reliquos autem collibertos eius cave contemnas. Valde

sucossi sunt. Vides illum qui in imo imus recumbit: hodie sua octingenta possidet.

De nihilo crevit. Modo solebat collo suo ligna portare. Sed quomodo dicunt – ego

nihil scio, sed audivi –, quom Incuboni pilleum rapuisset, et thesaurum invenit.

Ego nemini invideo, si quid deus dedit. Est tamen sub alapa et non vult sibi male.

Itaque proxime cum hoc titulo proscripsit: “C. Pompeius Diogenes ex kalendis Iu-

liis cenaculum locat; ipse enim domum emit”. Quid ille qui libertini loco iacet?

Quam bene se habuit! Non impropero illi. Sestertium suum vidit decies, sed male

vacillavit. Non puto illum capillos liberos habere. Nec mehercules sua culpa; ipso

enim homo melior non est; sed liberti scelerati, qui omnia ad se fecerunt. Scito

autem: sociorum olla male fervet, et ubi semel res inclinata est, amici de medio. Et

Satyricon, 37-38

192 La prima età imperiale

Tazza in argento sbalzato con le nozze di Venere e Marte, da Pompei.

quam honestam negotiationem exercuit, quod illum sic vides! Libitinarius fuit. So-

lebat sic cenare quomodo rex: apros gausapatos, opera pistoria, avis, cocos, pistores.

Plus vini sub mensa effundebatur, quam aliquis in cella habet. Phantasia, non

homo. Inclinatis quoque rebus suis, cum timeret ne creditores illum conturbare

existimarent, hoc titulo auctionem proscripsit: “C. Iulius Proculus faciet rerum su-

pervacuarum”».

(37) Non ce la facevo più a gustarmi niente, e allora a collo torto verso di lui, per saperne quante più potevo, comincio a prenderle alla lontana quelle storielle, e a chiedergli chi fosse la donna che era sempre di corsa in un ubiquo andirivieni. «È la moglie di Trimalchione,» ri- sponde «si chiama Fortunata, misura il denaro a moggi. E prima, chi era prima? Una, il tuo an- gelo custode mi perdoni, che neanche un tozzo di pane avresti accettato dalle sue mani. Adesso, né perché né percome, è salita in cielo, è il tuttofare di Trimalchione. Insomma, se a mezzo il mezzogiorno gli dicesse che è buio pesto, lui ci crederebbe. Lui stesso quanto pos- siede mica lo sa, ricco sfondato com’è. Ma quella troiaccia vede tutto prima di tutti, quando a te neanche ti passa per la mente. Non beve, non sperpera, testa sulle spalle, guardala: un mucchio d’oro. Ma ha una lingua che taglia e cuce, a letto una gazza, chi ama, ama; chi non ama, non ama. Lui, Trimalchione, ha terre quanto ci volano i nibbi, e soldi che partoriscono soldi. Nel casotto del suo portiere c’è più argento di quanto un altro ce n’ha in tutto il patri- monio. E la servitù poi, ollallà, quella, ci sarà uno su dieci, miseriaccia boia, che conosce il suo padrone. Insomma, uno qualunque di questi babbei lui te lo annienta da farlo entrare in una foglia di ruta.

(38) E non devi mica credere che compri qualcosa. Gli nasce tutto in casa: lana, limoni, pepe; gli chiedi latte di gallina e lui te lo trova. Per fartela breve, la lana gli riusciva scadente: com- prò montoni a Taranto e li mise in culo al gregge. Per produrre in casa miele attico, si fece por- tare le api da Atene, così intanto quelle casarecce miglioreranno un po’ stando con le grècule. Sta’ a sentire, in questi giorni ha scritto in India che gli recapitino il seme dei funghi. Per le mule poi non ce n’è una che non gli sia nata da un onagro. Vedi quanti cuscini: beh, tutti con l’imbottitura di porpora o scarlatto. Il massimo dell’estasi spirituale. E bada di non sottovalu- tare gli altri suoi compari ex-schiavi. Tutta gente superdanarosa. Vedi quello che sta ultimo nell’ultima fila? Oggi ci ha i suoi ottocentomila.1E viene dal niente. Poco fa lavorava por-

tando legna sul collo. Ma come dicono – io non so niente, solo per sentito dire – rubò il ber- retto a Incubo,2

e trovò un tesoro. Io non invidio nessuno, se dio gli ha fatto un regalo. Ma quello non gli hanno ancora levato la catena, e già si dà arie di padreterno. E così mica tanto tempo fa ha messo fuori questo avviso: “C. Pompeo Diogene dal dì 1 luglio affitta la man- sarda perché lui infatti si compra una casa”. E quello sdraiato nel posto dei liberti? Lui sì che se la passava bene. Mica ci ho niente da sparlarne. Però vide il suo milione, poi il patatrac. Ne- anche i capelli, credo, ci ha liberi da ipoteca. E mica per colpa sua, vacca miseria, che non c’è nessuno meglio di lui, ma di quei liberti farabutti che gli si mangiarono tutto. Ricòrdatelo bene, la pignatta in società bolle male, e quando butta male gli amici chi s’è visto s’è visto. E che bel mestiere faceva, quello che adesso vedi ridotto così. Impresario delle pompe funebri, era. Avvezzo a pranzare come un re: cinghiali impanati, torte al forno, uccelli, cuochi, pastic- ceri. A tavola da lui si versava più vino di quanto un altro ce n’ha in cantina. Un sogno, non un uomo. Ma quando andò a picco, per paura che i creditori lo credessero in fallimento, in- disse un’asta così: “C. Giulio Proculo mette all’asta i suoi beni superflui”».

(trad. di L. Canali)

1. Si intende: ottocentomila sesterzi. Il sesterzio era una moneta d’argento (equivalente a un quarto di de- naro) molto usata nel commercio; qui l’espressione in- dica una fortuna considerevole (da milionario... in

euro!), se si pensa che 20 000 sesterzi erano la rendita annua minima di un borghese romano.

2. Con questo nome veniva indicato uno spirito fol- letto, guardiano di tesori e dispensatore di ricchezze.

194 La prima età imperiale

Documenti correlati