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Determinanti sociali e culturali di psicopatologia e disagio

III. IL DISAGIO

III.2 Determinanti sociali e culturali di psicopatologia e disagio

Nel contesto occidentale, Miguel Benasayag e Gérard Smith, osservando adolescenti in difficoltà nel corso dell’attività clinica, si sono accorti di trovarsi di fronte ad una sofferenza che non aveva una vera e propria origine psicologica individuale, ma che piuttosto rifletteva una tristezza più diffusa, un sentimento di insicurezza e precarietà generale che caratterizza nel suo complesso la società contemporanea. Secondo gli autori la crisi del soggetto non rappresenta, quindi, altro che il riflesso nel singolo di una crisi sociale più ampia.

"Il futuro cambia segno […] Assistiamo, nella civiltà contemporanea, al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro, da futuro visto come promessa a minaccia. […] L’Occidente ha fondato i suoi sogni di avvenire sulla convinzione che la storia dell’umanità sia inevitabilmente una storia di progresso […] Oggi c’è un clima di pessimismo che evoca un domani molto meno luminoso, per non dire oscuro. […] Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie: la lunga litania delle minacce ha fatto precipitare il futuro da un’estrema positività a una cupa e altrettanto estrema negatività. La sconfitta dell’ottimismo ci lascia non solo senza promesse future ma, peggio ancora, con il sentimento che perfino ‘evitare l’infelicità’ sia un compito troppo arduo per i nostri contemporanei. Il futuro, l’idea stessa di futuro, reca ormai il segno opposto, la positività pura si trasforma in negatività, la promessa diventa minaccia. Certo, le conoscenze si sono sviluppate in modo incredibile ma, incapaci di sopprimere la sofferenza umana, alimentano la tristezza e il pessimismo dilaganti. È un paradosso infernale. Le tecnoscienze progrediscono nella conoscenza del reale, gettandoci in una forma di ignoranza molto diversa, ma più temibile, che ci rende incapaci di far fronte alle nostre infelicità e ai problemi che ci minacciano."

Benasayag e Schmit, 2005, pp. 20-36

In questo scenario la deriva del sistema sociale e l’ingovernabilità delle vite individuali divengono dei dati ineluttabili, ai quali non si può fare altro che adattarsi: "in altre parole la cultura occidentale è divenuta depressa, nel senso della percezione sperimentata dai depressi, di impossibilità di dare una direzione desiderabile alla propria vita" (Bartolini, 2010, p. 140). Questa analisi non risulta molto dissimile da quanto descrive Alcinda Honwana nel contesto africano (ma non solo), dove molti giovani vivono in uno stato di "waithood", sospesi in un limbo tra l'infanzia e l'età adulta, in uno stato di precarietà ed insicurezza permanente, senza poter diventare autonomi ed entrare a far parte pienamente della società (Honwana, 2012).

34 Umberto Galimberti (2007) ed Eugenio Borgna (2014) ampliano l’analisi di Benasayag sottolineando la stretta correlazione fra il disagio ed il nichilismo presente nella società contemporanea, in particolare nel mondo giovanile.

"I giovani, anche se non ne sono sempre consci stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra i loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che non riesce più a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso. […] Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l’individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, se non addirittura di senso e di legami affettivi, come accade nella nostra cultura, è ovvio che risultano inefficaci le cure farmacologiche cui oggi si ricorre fin dalla prima infanzia o quelle psicoterapiche che curano le sofferenze che originano dal singolo individuo. E questo perché se l’uomo, come dice Goethe, "è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. […] Per dirla con Spinoza, viviamo in un’epoca dominata da quelle che il filosofo chiama le "passioni tristi", dove il riferimento non è al dolore o al pianto, ma all’impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà."

Galimberti, 2007, pp. 25-30

Si tratta dunque secondo l’autore di un disagio che non è più psicologico, ma culturale. Il vuoto di senso, aggiunge Borgna, comporta per gli adolescenti un "inaridirsi delle emozioni e dei sentimenti in un orizzonte di individualismo esasperato", una noia legata al "vivere in un presente che non ha passato e non ha futuro" da cui nasce "l’impulso per un divertimento sfrenato" e una rabbia che si rivolge verso l’esterno, verso persone e oggetti (Borgna, 2014). Privi di senso e di riferimenti valoriali e normativi prefissati (De Piccoli et al., 2001), senza guide, "senza la capacità di proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa" (Galimberti, 2007, p. 11),i giovani non possono che vivere in un eterno presente da cui diventa impossibile entrare nel mondo degli adulti, compiendo il compito principale dell’adolescenza: la definizione della propria identità. Si cerca allora di seppellire l’angoscia nel divertimento e nel consumo, ed è proprio quest’ultimo, guidato dalla mano invisibile del mercato, a colmare il vuoto esistenziale, valoriale ed identitario (Pasolini, 1975) che i giovani sentono dentro, fornendo loro identità e valori prefabbricati (Galimberti, 2007; Aillon, 2013). Identità e valori rispondono, però, ai bisogni dell’economia e non a quelli dei soggetti in questione, e attraverso l’omologazione agli stereotipi dominanti della società dei consumi, sbarrano la strada, anziché dischiuderla, al processo di "individuazione" e alle sue potenzialità creative (Zoja, 2013). D’altronde, quand’anche riesce ad avvenire una "dis-identificazione dai generici ideali consumistici e il loro rifiuto" (Zoja, 2013, p. 211), l’estrema libertà e possibilità

35 che ci si trova di fronte rischia di essere troppo ardua da perseguire e la depressione diventa spesso un facile rifugio, "l’ombra anche troppo familiare dell’uomo senza guida, intimamente spossato dal compito di diventare semplicemente sé stesso" (Ehrenberg, 2013, p. 12). Il potenziale critico nei confronti della società, che traspare dal disagio, rimane così latente nell’inconscio, oppure si manifesta in "spazi liminali" in maniera confusa e contradditoria (Zoja, 2013). L’autore a riguardo porta l’esempio dei cosiddetti "neet", acronimo inglese che significa "not in employment, education or training", ovvero ragazzi che non lavorano, studiano o stanno facendo una qualche forma di tirocinio. Fra questi si distinguono i "neet esogeni" (che non lavorano a causa dell’impossibilità di trovare un impiego) ed i cosiddetti "neet endogeni", i quali "non sono rifiutati dal mercato, ma lo rifiutano", mettendo in atto una sorta di critica, perlopiù inconsapevole, del sistema, senza riuscire però ad arrivare ad una piena consapevolezza e quindi a mettere in atto delle contromisure: "le giovani generazioni critiche rifiutano, invece, più o meno consciamente, di competere e cercano uno spazio di introversione, che il mondo basato sul moltiplicarsi di oggetti esteriori e dei consumi rende sempre meno disponibile. […] Vorrebbero sviluppare l’individuazione, ma si fermano al primo stadio di questa: la dis-identificazione dai generici ideali consumistici e il loro rifiuto. Sono una massa innovativa potenziale, ma mancano di aggregazione. Costituiscono una società atomizzata, ribelle, ma in buona parte inconscia di esserlo": una generazione critica ma inconscia (Zoja, 2013, pp. 208-211).

In una società dove è saltato il concetto di limite, gli adolescenti, "stressati da una psicologia positiva" che propugna una sorta di "dovere di benessere" (Zamperini, 2010),fragilizzati dai desideri e dalle troppo elevate aspettative degli adulti (Moro, 2013), soli ed in competizione per essere sempre i migliori, rincorrono in maniera sfrenata una felicità che continuamente sfugge e si ritrovano ad essere facili prede di vissuti di inadeguatezza. Si tratta, infatti, di un’"adolescenza narcisistica", dove risulta molto difficile il passaggio, propedeutico all’età matura, dalla libido narcisistica a quella oggettuale (Galimberti, 2007) e dove, una volta usciti dal nido familiare, quando sopraggiungono i primi fallimenti e frustrazioni, questi risultano difficilmente tollerabili, portando spesso al cosiddetto "lutto narcisistico" (Charmet, 2000). Ciò è riconducibile secondo Charmet ad un mutamento sociale nell’ambito dell’educazione dei figli che ha visto il passaggio dalla cosiddetta "famiglia etica" alla "famiglia affettiva": "ciò significa che i genitori intendono trasmettere amore più che regole e principi astratti, che aspirano a farsi obbedire per amore e non per paura delle sanzioni e che si piegano nei confronti del figlio nella prospettiva di intercettare quale sia la sua vera natura o indole, cioè la sua vocazione ed il suo

36 talento, appalesando quindi come sia prevalente per la coppia genitoriale l’intenzione di svolgere una ‘funzione ostetrica’ rispetto alla vera natura del figlio, piuttosto che quella di cercare di ‘mettere dentro’ la mente del figlio rappresentazioni precostituite di ciò che deve essere o apprestarsi a diventare". Il compito di tale famiglia è quello di costruire dei figli felici e viene perseguito cercando di diminuire al minimo la dose di dolore mentale somministrato nel processo educativo e al contempo promuovendo l’immagine di un bambino "messia" a cui spetta nel mondo "una missione speciale". "I figli della famiglia affettiva giungono perciò ad affrontare le burrasche del processo adolescenziale con una modesta esperienza di dolore e frustrazione alle spalle e ciò contribuisce non poco ad innescare quei fenomeni di intolleranza nei confronti del dolore mentale che caratterizza l’adolescenza attuale e promuove quei comportamenti anestetici che la caratterizzano", comportando il cosiddetto "lutto narcisistico". Si tratta di "adolescenze narcisistiche o di adolescenze depressive. Noia e tristezza hanno sostituito rabbia e sentimento di colpa" (Charmet, 2000, pp. 44-45, 89). Tramontano le nevrosi dei primi del Novecento dove l’elemento principe era il conflitto fra permesso e proibito e sopraggiungono forme depressive in cui il conflitto è fra il possibile e l’impossibile; in questo caso l’impossibilità di portare avanti la missione messianica più o meno esplicitamente auspicata dalla famiglia.

"In questo modo, dagli anni settanta in poi, la depressione ha cambiato radicalmente forma: non più il conflitto nevrotico tra norma e trasgressione, con conseguente senso di colpa, ma in uno scenario sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, il nucleo depressivo origina da un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le aspettative altrui, a partire delle quali ciascuno misura il valore di se stesso [...] un fallimento nella capacità di spingere a tutto gas il possibile fino al limite dell’impossibile [...] perché quel che è saltato nella nostra attuale società è il concetto di limite. E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione." Galimberti, 2007, pp. 80-83

Simili dinamiche vengono segnalate anche in vari paesi non occidentali, dal Giappone (White, 1995) al Nepal (Liechty, 1995), dove il potente bombardamento mediatico induce una serie di cambiamenti culturali legati alla dimensione del consumo "imponendo" degli standard economici ed un immaginario legato al successo che difficilmente risultano perseguibili date le scarse opportunità economiche e le difficoltà di coniugare questi mutamenti con la cultura tradizionale, portando così facilmente alla frustrazione le giovani generazioni ed all’aumento dei conflitti intergenerazionali (Bucholtz, 2002). In alcuni contesti, il disagio (in particolare i suicidi) sono stati correlati con il grado di "cultural and social disruption" che la modernità ha portato nelle società tradizionali prese in considerazione (Chandler and Lalonde, 1998; Kirmayer et al., 2000).

37 fratture generazionali, cioè le difficoltà nei rapporti genitori figli e più in generale giovani-adulti, sono un tratto caratteristico delle società occidentali" (Bartolini 2010, p. 130) connesse a vari mutamenti di carattere socio-economico e culturale. In questo senso una serie di analisi prende in considerazione il ruolo degli adulti nella genesi e nel mantenimento del disagio giovanile. Maria Rita Parsi sostiene che il vero problema è l’impossibilità di ricevere aiuto da figure adulte di riferimento che sappiano ascoltare davvero "le loro voci ‘di dentro’, quelle inespresse e autentiche" e dare "una risposta piena e competente ai loro dubbi e problemi" (Parsi e Campanella, 2014), mentre Steinberg arriva a sostenere che non siano tanto gli adolescenti quanto gli adulti ad andare in crisi e a rendere la vita impossibile ai ragazzi (Steinberg, 2013). Sia i genitori che gli insegnanti sembrano più interessati ad "armare i loro figli" che a guardarli davvero e a nutrire i loro sogni e speranze (Benasayag e Schmit, 2005). "Genitori, operatori sociali, educatori ed insegnanti sollecitano sempre più la psichiatria del bambino e dell’adolescente, prova di uno sgomento crescente e di un paradosso: mentre i nostri infanti, i nostri bambini e ancor più i nostri adolescenti sono sempre più competenti, indipendenti, creativi, non sono mai stati pensati così vulnerabili, vittime o fragili" (Moro, 2010, p. 12). In una situazione dove sono sempre più largamente diffusi sentimenti di inadeguatezza, insicurezza e precarietà (soprattutto a livello identitario e valoriale), non stupisce, infine, che vengano messi in atto dai giovani meccanismi collettivi di tipo "schizo-proiettivo" (Zoja, 2011). Gli affetti negativi di cui si cerca di evitare la consapevolezza (es. inadeguatezza, frustrazione) vengono scissi da quelli positivi, per essere proiettati su un "oggetto" Altro (creando, al contempo, un forte senso d’identità all’interno del gruppo dominante), dando origine a diverse forme di bullismo, discriminazione e razzismo.

Una recente indagine condotta in 40 paesi su oltre 200.000 ragazzi di 11, 13 e 15 anni ha evidenziato delle percentuali di persone vittime di bullismo comprese fra l’8.6% e il 45.2% nei maschi e il 4.8% e il 35.8% fra le ragazze (Craig et al., 2009). "Le ricerche effettuate confermano che il fenomeno interessa dal 10 al 30% degli studenti, è più frequente nelle prime fasi dello sviluppo e tende a diminuire progressivamente con l’età: si passa, infatti, da un 28% nella scuola elementare, al 20% nella scuola media, a circa il 10-15% nelle scuole superiori. […] Da un'indagine Eurispes, ‘Rapporto Italia 2011’, risulta che un bambino su tre è vittima di bullismo" (Zuccotti, 2016, p. 187). Secondo Vieno e colleghi (2011) in Italia la prevalenza di coloro che riferiscono di essere stati bullizzati o aver bullizzato qualcun altro a scuola almeno una volta nel corso degli ultimi 2 mesi è dell’11,6% per bullismo di tipo fisico, 52% per tipo

38 verbale, 47,9% per tipo relazionale, 18,5% per tipo sessuale, 19,4% per cyberbullismo e 9,4% per tipo razziale.

Dalle "Surveys IARD" emerge da parte degli adolescenti italiani un atteggiamento ambivalente verso gli immigrati, dove il polo della chiusura assume un ruolo maggioritario, affiancato in misura minoritaria da un ruolo di tipo solidaristico (Buzzi et al., 2007). Bergamaschi sottolinea, a riguardo, come gli adolescenti italiani "sembrino dimostrare un significativo atteggiamento di chiusura nei confronti dei loro pari con altra cittadinanza e, più in generale, nei confronti dell’immigrazione in quanto fenomeno", in particolare in relazione a preoccupazioni di carattere socio-economico, relative alla sicurezza, ma anche ad una crescente minaccia identitaria (Bergamaschi, 2010; Bergamaschi, 2013). In una recente indagine qualitativa fra gli adolescenti frequentanti delle scuole superiori di Brescia, "tra gli intervistati si nota come nel concreto esprimano atteggiamenti fortemente discriminatori nei confronti del diverso, soprattutto nei confronti di stranieri e omosessuali. […] Meno della metà degli intervistati si dichiara non razzista, mentre la restante parte si dichiara razzista a seconda dei casi" (Avigo, 2012).

III.3 Storia e problematizzazione della categoria "disagio giovanile"