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La difesa della poesia e dello studio delle arti liberal

A favore di una nuova e diversa idea di cultura e di sapienza, Petrarca conduce una strenua e incessante battaglia contro la cultura dominante e i suoi più autorevoli rappresentanti. Come scrive Bausi:

Non c’è praticamente opera infatti in cui Petrarca non sia talora anche aspramente polemico, o – per dir meglio- in cui rinunci a esprimere le sue idee in forma polemica, contrapponendosi a qualcuno o a qualcosa; come se egli avesse sempre bisogno di nemici e di avversari, ovvero di esporre il proprio punto di vista contrapponendolo ad altri, diversi e antitetici punti di vista. Basti pensare a quante e quali siano le pagine polemiche nelle Familiares e nelle Seniles, ma anche nei trattati morali (in particolare nel De vita solitaria e nel De remediis) e nelle opere poetiche (dalle Epystole ai Rerum vulgarium fragmenta)1.

Le polemiche portate avanti dal Petrarca, volte per lo più ad affermare il valore della poesia e a legittimare, nel contempo, il ruolo del poeta, permettono all’autore di inserirsi nell’acceso dibattito sulla gerarchia delle arti che caratterizzò tutto il Trecento e che, in difesa della poesia vide schierato, prima di lui, un altro poeta laureato: Albertino Mussato. Il Mussato, nell’ambito di una disputa con il teologo Giovannino da Mantova, aveva sviluppato un’articolata riflessione che ruotava attorno ad alcuni argomenti fondamentali: per il poeta i miti pagani esprimono in forma più enigmatica ciò che la Bibbia espone con maggior chiarezza. Alcuni libri biblici, inoltre, sono composti in stile poetico, come quelli di Mosè e l’Apocalisse; Mosè, Giobbe, Davide, Salomone erano poeti. Cristo parlò per parabole, cioè in forma simile a quella poetica. La poesia può dunque dirsi filosofia e può persino sostituire Aristotele; i poeti antichi furono rivelatori di Dio e la poesia è una seconda teologia. Mussato ammette in questo modo altre forme di rivelazione al di fuori della Bibbia e della tradizione cristiana2. Petrarca riprende e sviluppa con una più solida formazione culturale e una maggiore maturità intellettuale le questioni trattate da Mussato, mantenendosi sempre su posizioni meno spregiudicate. Il suo atteggiamento, scrive Ronconi, «pur risultando più complesso, è più lucido e organico, e di conseguenza più idoneo a costituire un corpus di dottrine estetiche trasmissibili alle generazioni successive»3.

Nella Fam., I 7, a Caloiro, la polemica petrarchesca si concentra sul tema della scrittura opposta alla disputa verbale, già apparso nella Fam., I 2, ed è volta a dimostrare gli svantaggi della tendenza

1 Bausi 2008, p. 194.

2 Come ha osservato Curtius: «si riconosce la poetica biblica che Girolamo lasciò in retaggio al medioevo. Nel caso di Mussato, però, la poetica biblica si trasforma in poetica teologica, la stessa che troviamo in Giovanni del Virgilio. Filosofia e poesia si fondono in un concetto solo» (Curtius 1992, p. 241).

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

a collocare la dialettica all’apice del processo formativo del Trivio4. Petrarca racconta all’amico di una disputa ingaggiata con un vecchio dialettico che si era pronunciato contro la sua opera e più in generale contro la poesia. La contesa si conclude nella Fam. I 12, indirizzata al medesimo destinatario, in cui poeta controbatte argutamente contro la lingua del vecchio5. La lettera, sempre indirizzata a Caloiro, è tutta giocata sulla contraddizione e sulla tecnica della simulazione. La tesi del dialettico, infatti, viene innalzata, per poi essere completamente ribaltata. Il significato complessivo dell’enunciato petrarchesco diviene manifesto attraverso la contrapposizione delle diverse prospettive:

«Artificium» inquit, «vestrum ex omnibus minime necessarium». Primum de artificio viderimus; nescio enim quid artificii nobis attribuat, sed puto de poetica eum intelligere. Hanc minime necessariam dicit. Non infitior; idem enim videtur et nostris. Namque animis natum inventumque poema iuvandis, et Flaccus ipse testatur [scil., naturalmente, Hor.

Ars poet. 377 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 1296)], et res ipsa docuit poeticam delectationi atque ornamento

esse, non necessitati, editam. Vivat ergo dyaleticus tuus et cornutis semper affluat sillogismis, quando et nobiscum sentit et non est ignarus omnium, ut rebar. Sed nequaquam his terminis continetur torrens et fervidum ingenium. Quid ergo? rapidum enthimema contorquet: “Si minus necessaria” inquit, “et minus nobilis”. O quam male tegitur insania! iam se non dyaleticum modo, sed freneticum ostendit. Ergo sutrina et pistrina et vilissime mechanicarum artium, si necessitas nobilitare illas potest, nobilissime omnium fient; philosophia autem et relique omnes, quecunque beatam atque excultam et ornatam vitam faciunt, si necessitatibus vulgi nil conferunt, ignobiles. O doctrinam novam et exoticam, ipsi quoque — cuius nomen infamant — Aristotili incognitam! Ille enim ait: “Necessariores quidem omnes, dignior vero nulla” [scil., Arist. Metaph., 983 a 10-11 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 1296)]. Legat primum Methaphisice librum et inveniet. Sed ignota regione verum sequi et scrupoloso tramite senem ire iubeo: non parvus labor!6

Allo strepito della voce, strumento caduco, Petrarca oppone il calamus, strumento durevole e alla disputa verbale di uso scolastico contrappone la nuova arte della scrittura, cioè la sua prosa epistolare, che, a differenza della disputa dialettica, vuole essere una battaglia in campo aperto7. La lettera si conclude nella sconfitta della dialettica e nel superamento del livello scolastico delle scienze. Per il poeta la grammatica è il fondamento di ogni studio, ma piuttosto che dedicarsi esclusivamente a essa bisognerebbe tendere, con il passare del tempo, a mete più alte. Chi si intrattiene con quest’arte troppo

4 Cfr. Tateo 2003, p. 254.

5 La battaglia per la difesa della poesia e del ruolo del poeta viene ingaggiata, con toni molto simili, in altri testi fondamentali della riflessione petrarchesca sulla dignità della poesia e del poeta: le quattro Invective contra medicum, il

De suis ipsius et multorum ignorantia, e le Epystole indirizzate a Zoilo, in particolare Epyst. II 10, che presentano notevoli

affinità argomentative e lessicali con le suddette Familiares. 6 Fam., I 7, 2-5.

7 Cfr. Tateo 2003, p. 252. Molti sono i luoghi in cui Petrarca condanna la lite verbale; in particolare, nelle Invective, lo fa appoggiandosi a Cicerone: «“Dissentientium” inquit “inter se reprehensiones non sunt vituperande; maledicta, contumelie, iracundie, contentiones concertationesque in disputando pertinaces indigne philosophia michi videri solent” [scil. Cic. De fin. I 8, 27 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 166)] […] et sequitur: “Que enim cum aliqua perturbatione fiunt, ea nec costanter fieri possunt, neque his, qui assunt, probari” [scil. Cic. Off. I 137 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 166)]. Sane, quod ad disputandum pertinet, Latinis iste non fuerat disceptandi modus; licet – ut Cicero idem ait – “sit ista in Grecorum levitate perversitas, qui maledictis insectantur eos, a quibus de veritate dissentiunt” [scil. Cic. De fin. II 25, 80 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 166)]. Que cum michi iampridem nota essent, et animus, natura quietis appetens, a contentionibus abhorreret, numquam sponte fueram ad talia descensurus» (Petrarca,

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

a lungo risulta ridicolo: «Seni autem dic non me liberales artes damnare, sed senes pueros; ut enim nichil elementario sene turpius, quod ait Seneca, sic nichil dyaletico sene deformius [scil., Sen. Epist. 36, 4 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 1295)]»8. Per rimarcare il valore puramente strumentale della dialettica, l’autore capovolge il topos, largamente diffuso nel Medioevo, del puer senex, il fanciullo che, sul modello di un episodio evangelico, ragiona come un adulto. Al contrario, il senex puer, che indugia sull’arte puerile della dialettica, è un adulto che non vuole crescere, e dunque sconvolge l’ordine naturale9.

Per Petrarca la nobiltà della poesia non risiede nella sua utilità pratica e immediata, ma nella sua capacità di fornire strumenti verbali e metaforici durevoli a ogni tipo di discorso e di veicolare messaggi di alto contenuto morale, tanto da poter essere paragonata alla teologia, perché, come scrive nella Fam., X 4 indirizzata al fratello Gherardo: «theologie quidem minime adversa poetica est. Miraris? Parum abest quin dicam theologiam poeticam esse de Deo»10.

Come afferma Ariani:

Quanto forte sia il distacco di Petrarca dal sistema epistemologico dominante nel suo tempo è dimostrato proprio dalla liquidazione delle arti liberali come unico referente metodologico del sapere. […] La definitiva acquisizione di una rigorosa implicazione tra etica e retorica e la collocazione della poesia come involucro sapienzale all’apice delle arti liberali sono i dati più rilevanti della polemica petrarchesca, anche se la rottura con la scolastica non recide i legami con il platonismo medievale e la sua decodifica morale della cultura classica11.

Il più rilevante rovesciamento delle posizioni scolastiche consiste probabilmente nella rivalutazione dei figmenta come linguaggio metaforico. Per Petrarca la dictio traslata, sebbene sia rivolta al puro e semplice diletto, può prestarsi agevolmente anche al linguaggio rigoroso della sapienza. Non solo l’allegoria in factis (ovvero espressa per mezzo di cose reali) ma anche l’allegoria espressa per mezzo di immagini (allegoria in verbis) poteva contenere la verità. Nelle sue tesi risulta chiara l’influenza di Lattanzio, con la sua teoria della obliqua figuratio come fictio di «ea que vere gesta sunt», che gli suggeriva l’idea di res gestae cui i poeti avevano aggiunto quendam colorem (Div. Inst., I 11 24-25), e di Macrobio che, a sua volta, gli prospettava una vera e propria teoria della narratio fabulosa, il cui argumentum fundatur veri soliditate e gli ricordava che quelle imagines fabulosae non erano usate esclusivamente per dilettare gli animi, ma anche per celare «ipsa mysteria figurarum cuniculis» (In Somn Scip., I 2, 17). Per Macrobio «sub poetici nube figmenti verum sapientibus intellegi dedit» (In Somn Scip., II 10 11). Invece di ritenere, come faceva la scolastica, la metafora poetica come semplice delectabilis e quindi inutile, i due autori la rivalutano: l’uno

8 Fam., I 7, 18.

9 L’immagine del senex puer si ritrova anche nelle Invective: cfr. Petrarca, Invective contra medicum, IV 15.

Come scrive Gabriella Albanese, «la “poetica theologia” […], teorizzata tra Petrarca e Boccaccio sulla base delle precoci intuizioni di Albertino Mussato, costituì la più feconda innovazione della poetica umanistica» (Albanese1998, pp. 26). 11 Ariani 2016, pp.161- 166.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

insistendo sul principio dell’ornatus, l’altro sulla sua funzione morale. Presso questi autori Petrarca trova la risposta a due questioni parallele: quella dell’argumentum poetico e dei suoi rapporti con la verità, e quella del linguaggio metaforico nella sua funzione sapienzale e morale e in quella decorativa12.

Queste argomentazioni trovano una trattazione specifica nella Collatio laureationis, ma vengono sviluppate anche nell’Epystola II 10 indirizzata a Brizio Visconti (alias Zoilo)13, che occupa un posto centrale nell’ambito delle dispute petrarchesche in difesa della poesia. Come scrive Ronconi, infatti:

Se l’orazione per la laurea costituisce la prima testimonianza di una riflessione organica del Petrarca sulla poesia, l’epistola in versi a «Zoilo» […] ne è certamente il documento più significativo, anche perché Petrarca, chiamato a difendersi e a difendere la poesia può costruire a questo punto un intero componimento, riversando non a caso il suo estro di erudito in un genere e su un tema che già avevano conosciuto modelli del Mussato14.

Nella lettera il poeta espone tutte le principali argomentazioni offerte dalla tradizione medievale e scegliendo di utilizzare la forma metrica, esprime palesemente l’intenzione di voler riprendere e continuare gli illustri esempi del passato, sia classici (si pensi a Orazio) sia recenti, come Mussato15. L’epistola nasce da una polemica scoppiata intorno al 1344, durante il soggiorno del poeta a Parma. L’avversario, che aveva celato la propria identità sotto il nome di Lancillotto d’Anguissola16 (amico di Petrarca), non viene mai nominato direttamente; tuttavia gli studiosi hanno riconosciuto in lui Brizio Visconti, figlio illegittimo di Luchino, un giovane con velleità letterarie, che esercitò un rilevante ruolo politico a Milano durante la signoria del padre17.

12 Nell’Orazione per la laurea, Lattanzio e Macrobio vengono citati insieme; il nome e il passo di Lattanzio ritorna vari anni dopo nelle Invective, delimitando in gran parte lo sviluppo di pensiero di Petrarca. (Cfr. Pomilio 2016, pp. 67-72). 13 Petrarca prende spunto per il nome da Ovidio (Remedia amoris 395) che, sulla scorta di qualche poeta giambico greco, prende Zoilo come l'ipostasi dell'invidia letteraria (Lazzarini1986, p. 2-4). Il soprannome di Zoilus è comune in Marziale ed è applicato a personaggi squallidi e privi di velleità letterarie (Kay 1985, pp.92-93; Fusi, 2008, p. 5).

14 Ronconi 1976, p. 65.

15 Sebbene sia annoverato fra gli scritti giovanili di Petrarca questo testo risulta fondamentale. Lui stesso lo tenne in grande considerazione, come dimostra la menzione che ne farà dieci anni più tardi, quando nelle Invective ricorderà orgogliosamente che con esso aveva ingaggiato una battaglia senza esclusione di colpi contro un letterato più che mediocre e per giunta molto potente e temuto. (Cfr. Ronconi 1976, p. 82).

16 Come scrive Ricci: il nome dell’Anguissola servì dunque magnificamente a Brizio per sfogare la sua invidia; e già il Petrarca, costernato dal vedersi così ingiustamente attaccato da un amico, stava rispondendo - la penna gli pesava tra le dita come una trave - quando una lettera dell’Anguissola gli svelò il vero autore dello scritto ingiurioso e gli chiarì l’innocenza dell’amico. Il Petrarca completò egualmente la risposta che aveva cominciata senza tuttavia fare il nome del destinatario; poi aggiunse due lettere, perché ciascuno avesse la sua: una, di calda amicizia, all’Anguissola, l’altra, violenta e sprezzante, a Brizio Visconti. (Ricci 1999, p. 43)

17 Cfr. Ronconi 1976, pp. 65-66. «La personalità di Brizio, scrive Ricci, quale risulta dalle testimonianze dei contemporanei, è vivace e complessa. Ha doti intellettuali eccellenti, spiccate tendenze letterarie, interessi culturali non comuni; è uomo di gusto fine, al quale piacciono cose belle: bei libri, bei cavalli. Ma nessuna quadratura morale: avido di denaro, e scialacquatore; crudele, sfrenato, spregiatore di ogni buon diritto; vanitoso, e superbo. In più c’è in lui una nota di irrequietezza e di superficialità che costituisce il suo vero limite, e che gli impedì di essere forte anche dopo aver perduta la grande protezione paterna». (Ricci 1999, p. 42).

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

Visconti aveva messo in dubbio la storicità dell’incoronazione poetica di Petrarca affermando che la notizia non aveva ancora avuto nessuna conferma e che quel riconoscimento, in ogni caso, doveva essere considerato un onore gratuito e prematuro, visto che l’opera non era ancora conosciuta e per di più non era stata ancora portata a termine. Nella prima parte dell’Epystola, Petrarca risponde difendendo la storicità dell’avvenimento e affermando che non si tratta di un onore gratuito, cercato per vanagloria, ma della giusta ricompensa dei meriti acquisiti con lunghi e faticosi studi:

Studiis emitur sequiturque laborem

laurea, perrarum decus atque hoc tempore soli speratum optatumque michi. Quis nescit agrestum premia post meritum? Pudet hec dubitata diserto, si dubitas vere18

Il poeta sostiene inoltre che la sua incoronazione non era affatto prematura, e che, se si dovessero premiare soltanto i poeti che hanno portato a termine la loro opera, molti di questi dovrebbero attendere la morte per ricevere quel riconoscimento. Il poeta replica ironicamente contro il tentativo di sminuire la cerimonia della laurea poetica, facendola passare per una ridicola messa in scena: «lo si dovrà forse ritenere un estroso che s’è incoronato da sé, come le fanciulle nelle antiche cerimonie nuziali l’avversario finiva per giudicarlo tale, se pretendeva di manipolare la verità del fatto solo per non averne avuto sentore. Non tutto ciò che è bello si viene a sapere, replica ancora con arguzia, e poiché la lode di un solo ingegno è cosa assai trascurabile, non ci si dovrà meravigliare che molti siano all'oscuro della sua opera»19. Il riconoscimento di quei pochi amici fedelissimi che l’avevano letta valeva per lui più del plauso del volgo, che non era in grado di valutare in maniera adeguata i suoi meriti. Per Petrarca, Visconti fonda le sue argomentazioni su un falso concetto di onore, che scambia la gloria con il successo popolare. Questo tipo di onori spetta all’attore, il poeta aspira a ben altro. Come afferma Ronconi, Petrarca, in questo modo, «ribadisce un concetto di gloria derivante da quella posizione di aristocrazia culturale che egli sentiva di aver conquistato con i propri studi e che d’ora in poi avrebbe contraddistinto tutta la sua carriera dì letterato e poeta»20.

Decuitne per urbes circumferre nova viridantia tempora fronde testarique greges hominum populique favorem

18 Sono i vv. 5-9. Si compra con gli studi e vieti dopo la fatica la laurea, onore assai raro e attualmente sperato e desiderato da me solo. Chi non sa che spettano i profitti dopo le fatiche agresti? È vergogna che da un uomo eloquente si dubiti di questo, se tu ne dubiti veramente...

19 Non tutti però. E qui il Petrarca trae lo spunto per ricordare alcuni dei fedelissimi che l'hanno letta: il fiorentino Roberto de’ Bardi, cancelliere dello Studio parigino e propugnatore, come ricorda anche nella Oratio capitolina, della sua incoronazione presso quella università, il senese Enea Tolomei, Rinaldo da Villafranca, il cardinale Colonna (il «gran» Giovanni) e da ultimo il «suo» Barbato.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

infami captare via? Laudarier olim

a paucis michi propositum. Quid inertia vulgi milia contulerint? quid murmura vana theatri?21

La sua produzione letteraria non aveva bisogno dell’approvazione popolare, il consenso di re Roberto aveva più valore. Anzi, prosegue Petrarca, se il plauso del volgo fosse stato necessario allora avrebbe preferito spogliarsi dell’alloro e rinunciare al titolo di poeta:

Scriptis ego sum tollendus in altum: his sine, nullus ero. Nunquid tamen illa probari est opus vulgo? Titulo caruisse poete, abiecisse graves, spoliato vertice, ramos maluerim, et longis latuisse inglorius annis.22

Visconti, tuttavia, non si era limitato a sminuire e a ridicolizzare la cerimonia della Laurea, ma aveva rincarato la dose paragonando l’atteggiamento di Petrarca a quello di alcuni poeti un po' folli convinti di possedere un dono che li distingue dai comuni mortali e li colloca al di sopra di tutti gli ingnegni umani, in quanto latori- attraverso la poesia- di un sublime messaggio di verità23. Contro questo nuovo, violento attacco, più generico, contro la poesia, Petrarca ribatte che i carmi contengono un significato nascosto, che la maggior parte delle persone non sa comprendere perché si lascia attrarre soltanto dalla veste esteriore delle parole, dai verborum artificia24. Per quanto riguarda invece la presunta follia dei poeti ricorre a una frase contenuta nel libro Problemata XXX 1 attribuito ad Aristotele, ripreso da Seneca nell’ultima parte del De tranquillitate animi: «Nullum magnum

21 Sono i vv. 41-46. Sarebbe stato conveniente portare in giro per le città le tempie verdeggianti di nuova fronda e invocare a testimonio il gregge degli uomini e perseguire con mezzi disonorevoli il favore del popolo? Era mio proposito essere allora lodato da pochi. Che cosa avrebbero portato le mille cose inette del volgo, le vane acclamazioni del teatro? 22 Sono i vv. 131-135. I miei scritti mi debbono sollevare in alto: senza di loro non sarò nulla. È forse necessario, tuttavia, che debbano essere approvati dal volgo? Avrei preferito essere privo del titolo di poeta e, a fronte alta, rigettare le gravi fronde e restare ignoto, senza gloria, per lunghi anni.

23 Da questo punto, cioè a partire dal v. l4 che segna il passaggio dall’apologia personale alla difesa globale dell’arte poetica, attaccata con le armi medesime dei poeti, la difesa acquista un respiro più ampio, ma senza perdere quel calore di intima partecipazione che la domina fin dall’esordio.

24Cfr. Fam., XXIV 1: Hec et his similia legebam, non, ut mos etatis est illius, soli inhians “grammatice” et verborum artificio, sed nescio quid aliud illic abditum intelligens, quod non modo condiscipuli sed nec magister attenderet. Qui Petrarca riprende una riflessione sviluppata da Seneca nella Lettera a Lucilio 108 del XVII libro “L’insegnamento di Attalo”, in cui, in particolare, nel par. 23, il filosofo lamenta che l’errore dei precettori consiste nell’insegnare a disputare

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