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L’interpretazione allegorica dell’Eneide

L’argomento delle verità nascoste sotto le “belle finzioni di Virgilio”, viene ripreso molti anni più tardi da Petrarca nella Senile IV 5, indirizzata a Federico di Geri d’Arezzo1, che risponde alla richiesta del giovane studioso di spiegare quali fossero i significati reconditi degli episodi virgiliani accennati nell’Epystola II 102. In questo caso Petrarca mette in campo una serie più ampia di argomentazioni, tanto da arrivare- come ha affermato Fenzi- a definire una nuova e inattesa teoria dell’interpretazione (cfr. Fenzi, 2003 p. 555). Nella lettera il poeta mette in primo piano non tanto il nesso autore–testo, piuttosto quello più creativo e attuale di lettore–testo, perché sotto le fictiones poetiche sono racchiuse infinite possibili interpretazioni. Per Petrarca infatti:

ingeniorum infinita dissimilitudo est, nullus autem qui novorum dogmatum castiget audaciam, et res ipse tales que multos et varios capiant intellectus; qui si et veri sint et litera illos fert, quamvis his qui fabulas condiderunt nunquam fortassis in mentem venerint, non erunt repudiandi3

Da una parte il poeta insiste sulla centralità del vero “filologico”, dall’altra prospetta le molteplici “verità” che il testo può produrre a contatto con la sensibilità del lettore, impegnato dunque non solo a ricavare dal testo tutti i possibili significati nascosti dall’autore sotto il velamen della fictio poetica, ma anche a rintracciare nel testo quegli ulteriori sensi che l’autore vi ha immesso, magari in maniera involontaria, ma che appartengono alla più generale “verità” del testo. Petrarca si rifà, in questo modo, alle teorie di Agostino e di altri illustri esegeti medievali (Bernardo di Chiaravalle, Gregorio Magno, San Tommaso, Abelardo) secondo cui il significato di un testo non si dà una volta per tutte, ma viene incrementato progressivamente dai lettori, cosicché il testo «cresce con chi lo legge». Egli dunque riprende la pratica dell’esegesi scritturale di ricavare alcuni significati di tipo allegorico dalla forza simbolica assunta dalle res, portatrici di una pluralità di significati, ma la secolarizza trasferendola in una dimensione profana: l’orizzonte di riferimento non è più quello della storia sacra, ma piuttosto quello dell’esperienza umana. Il testo, per Petrarca, contiene dunque una verità che non deriva dalla voluntas dell’autore, ma dalla voluntas del testo stesso o, ancor meglio, del lettore, il quale riesce a riconoscere in esso un significato garantito da una verità condivisibile da

1 La lettera è datata Pavia, 23 agosto, ma per Bertè e Rizzo è stata scritta nel 1365 (cfr. Bertè- Rizzo 2006, p. 311; sulla datazione si veda anche Feo 1974, pp. 155-158).

2 Petrarca aveva affrontato la questione dell’interpretazione allegorica dell’Eneide anche nel IV libro delle Invective

contra medicum, nel II libro del Secretum, nel II libro del De otio religioso e in Rerum memorandum libri III 50.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

tutti gli uomini, della quale il lettore si fa testimone e garante4. Del resto come si legge in Familiare IX, 9: «La legge della poesia non permette che si finga se non ciò che è secondo natura; e sta pur certo, tu che ne hai fatto la prova, che nulla si poteva immaginare di più naturale, nulla di più vero».

Per Noferi, Petrarca, mantenendo e difendendo l’irriducibile polisemia del linguaggio poetico e le ragioni della sua oscurità, decostruisce le fondamenta dell’allegoria medievale e dantesca5. Il compito dell’allegoria medievale, infatti, era proprio quello di limitare e di codificare razionalmente la proliferazione di interpretazioni e arginare il moltiplicarsi dei processi di produzione di senso, assicurando al testo un fondamento divino. Il che significa inoltre, assicurarsi della presenza dell’Auctor nei testi e della garanzia della sua intenzione significante6. Come scrive la studiosa,

nel momento in cui Petrarca, in questa Senile, sottrae alla codifica dell’interpretazione il limite dell’intenzionalità dell’autore e quello dell’identificabilità del numero e della qualità specifica dei livelli di significazione, spostandola dalla oggettività metafisica medievale e dantesca alla soggettività del lettore, essa stessa insicura, vacillante, priva di consistenza stabile (perché mutabile nel tempo) ed affidata ad un soggetto non più unitario, in quella allegoria si apre una falla che sarà difficilmente tamponabile. Il testo stesso, che sembra conservare la sua funzione di limite oggettivo, è un testo che produce senso, molti sensi, diversi sensi: come afferrare il senso verum, anzi verissimum? Petrarca rinuncia alla possibilità di trovarlo7.

Per Noferi si tratta di una vera e propria svolta epistemologica: «l’allegoria entra in una crisi profonda, proprio perché viene a mancare il congegno della sua ‘macchina’, la funzione specifica e fondamentale di trattenere, codificare, ridurre, dominare, l’ambiguità polisemica e la deriva del senso. Petrarca al contrario, apre loro le porte: “Sarà sufficiente estrarre dalle parole un senso, o molti sensi…”»8. Tuttavia, obietta Marcozzi,

in questo supposto processo di crisi dell’allegoria, non è tenuta in conto la differenza di grado che, secondo Petrarca, passa tra l’allegoria scritturale e quella applicabile ai poeti: un senso, o, indifferentemente, molti sensi possono essere estratti dalla sola poesia profana, ed è inequivocabilmente a essa che Petrarca si riferisce sia in questa Senile sia in tutti gli altri passi in cui affronta il nodo della “verità della poesia”, dubitando sempre della sua univocità. Un discorso del genere non si presenta per la Sacra Scrittura, né Petrarca mette mai in discussione la distinzione tra allegoria in verbis e allegoria in factis. La Noferi individua inoltre nel lettore il punto debole della catena del senso, ma Petrarca assegna alla non sempre controllata intenzione dell’autore la superfettazione dei significati nascosti -mettendo così in pratica le suggestioni agostiniane-. Bisognerà dunque concludere che Petrarca non “decostruisce” l’allegoria medievale, pratica alla quale non era sconosciuta la consapevolezza che lettore trova sotto il velo di versi poetici perlopiù quanto va cercando e ha già in mente; bisognerà riconoscere invece con Feo che pure in questa Senile Petrarca conferma la sua dedizione di antica data al metodo allegorico e all’interpretazione allegorica dei poeti, con l’unica aporia rispetto all’allegoresi precedente, di privilegiare e cercare nella poesia il solo senso morale, e non quello anagogico. In questo piuttosto sta la modernità di Petrarca rispetto al suo predecessore più illustre, Dante, nel sottrarre definitivamente le pagine dei poemi al

4 Cfr. Fenzi 2003, pp. 578-81.

5 La studiosa pertanto rifiuta la tesi di Feo, il quale invece sostiene che Petrarca parli a favore dell’allegoria (Feo 1973, pp. 450-458).

6 Cfr. Noferi 2001, pp. 236-237. (Lo studio di Noferi è stato precedentemente pubblicato in Il Petrarca latino e le origini

dell’Umanesimo II, Quaderni Petrarcheschi X, dir. Feo, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 683-695).

7 Ivi, p . 238. 8 Ibidem.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

libro della natura che di cui fino ad allora avevano fatto parte, per renderle semplicemente belle menzogne ricche di verità e traboccanti di umane fragilità9.

L’intepretazione del poema virgiliano eseguita da Petrarca deve essere, pertanto inserita fra le allegorizzazioni medievali, «ma con tratti di originalità relativi soprattutto alla veridicità storica del poema, che segnano un discrimine decisivo con la tradizione precedente»10.

Per Pomilio: «il pensiero medievale e in particolare la scolastica, nelle sue conclusioni, ha capovolto il significato che i grammatici e i retori dell’età classica attribuivano al concetto di allegoria. Per questi ultimi l’allegoria non è che una figura tra le altre (Beda ne enumera tredici) un tropus [...] che caratterizza con gli altri il linguaggio metaforico»11. Ad un certo punto, infatti, si è arrivati a una distinzione fra una allegoria delle parole e una allegoria delle cose: “notandum sane quod allegoria aliquando factis, aliquando verbis tantummodo fit”, nei secoli successivi gli intellettuali hanno tentato di risolvere il dissidio tra i due sensi, il proprio e il figurato, e gli intellettuali, in vista dell’interpretazione delle Sacre scritture, si sono orientati prevalentemente verso una concezione contenutistica e realistica dell’allegoria. Per San Tommaso, che riassume efficacemente la questione, l’allegorismo non ha più rapporti con la letteratura: esso è valido solo in sede teologica, come strumento di interpretazione delle sacre scritture. Egli, scrive Pomilio, ignora l’allegorismo di tipo verbale (in particolare la contrapposizione tra verba e res) e l’allegoria per abellimento o per necessità. In sede scritturale le parole esprimono già delle cose, delle verità, delle realtà concrete, le quali successivamente possono passare a esprimere altre verità: la storia narrata nella Bibbia è già vera di per sé, prima ancora che dai fatti realmente accaduti si detraggano gli altri tre ordini di verità, le altre significazioni spirituali, l’allegorica, la morale e l’anagogica. Questa distinzione si ritrova in Dante (Convivio, II 1, 3-6 e in Epist. XIII 20). L’allegorismo tomistico è rigidamente realista. Una narrazione scritturale si dispone coerentemente su due (o si vuole quattro piani autonomi). A fondamento sta quello letterale, assolutamente reale, che esprime delle verità e delle realtà già valide di per sé e che richiamano ad altre realtà nell’ordine spirituale. Un allegorismo

9 Marcozzi 2002, pp. 77-78.

10 Marcozzi 2002, p. 58. Su Petrarca e l’interpretazione dell’Eneide si veda Feo 1988, pp. 72-74 e per i rapporti di questa

Senile con la Commedia di Dante cfr. sempre Feo 1988, IV, pp. 452-454, si vedano inoltre Ardissino 1990-1991, pp. 239-

236; Ariani 2016 [I ed. 1999], pp. 70-86; Fenzi 2003, pp. 553-587; Noferi 2001, pp. 229-243; Marcozzi 2002, in particolare 58-88; Marcozzi 2016, pp. 359-366). Un’importante riflessione sul velo poetico è stata fatta inoltre da Chines (2000) la quale sostiene che la poesia è un «velamen che disvela verità profonde, è parola, è littera pluriallusiva in cui si concentrano significati molteplici. Essa ha dunque valore autonomo in sé anche per la propria potenzialità semantica, slegata dalla originaria chiave di lettura anagogica e scritturale. Per la studiosa è proprio questa la lezione che Petrarca consegna alla generazione successiva degli umanistici, per i quali il velamen assurge quasi a paradigma ermeneutico, espressione iconica di quel lusus continuo con le voci della sapienza antica che viene saccheggiata, camuffata, e ri-creata» (Chines 2000, p. 11).

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

di questo genere non ha più alcun rapporto con la fabula, né con il linguaggio metaforico. Esso è un metodo proprio della sapienza divina e non può essere confuso con l’allegorismo verbale, che, invece, è caratteristico degli uomini e in cui solo le parole, e non le cose, possono avere più di un significato. Ne deriva una rigida distinzione tra l’allegorismo e quello che San Tommaso preferisce chiamare “parabolismo” e che è di natura esclusivamente verbale.

Anche Giovanni di Garlandia, pur rappresentando senza dubbio una diversa posizione spirituale, giunge a posizioni simili: distinguendo i fatti realmente accaduti dalle fabulae, contrappone l’allegoria all’intengumentum: «intengumentum est veritas in specie fabula palliata, allegoria est veritas in versibus historiae palliata»12 . Di fronte alla concezione realistica che il Medioevo ha dell’allegoria, l’autore sceglie di non servirsi del vocabolo quando si tratta di fabula. Se l’allegoria veniva ritratta dal regno del linguaggio figurato a quello delle realtà spirituali, e cessava perciò di essere una figura, anche la metafora, o più genericamente il linguaggio metaforico, andava incontro a una profonda scissione. Per Beda la dictio traslata può essere usata indifferentemente per diletto o per necessità. Questo dualismo si risolve con San Tommaso in un’antitesi: il poeta usa le metafore per la sua fictio, che è, per sua natura, gradevole all’uomo, ma la sacra dottrina deve usare metafore per necessità e utilità. La verità divina prende corpo attraverso le immagini ma queste stesse immagini si trovano spogliate di ogni plausibile significazione quando divengono semplicemente umane, trasformandosi in strumenti per la creazione del falso. Come le espressioni poetiche non sono capite dalla ragione umana per la mancanza di verità che in essa si trova, così la ragione umana non può capire perfettamente le cose divine per eccesso di verità di cui queste sono dotate. Il linguaggio metaforico finiva per interessare semplicemente le voces e non le res, restava un’apparenza verbale senza contenuto reale. La distinzione tra Sacre scritture e poesia diventava valida non solo in sede contenutistica, ma anche in sede formale. Petrarca supera tutte queste distinzioni e ritorna alle definizioni classiche: per lui l’allegoria si allinea nuovamente fra i tropi, e torna ad essere senz’altro linguaggio metaforico. Quelle che egli spiega come allegorie non sono altro che immagini, tropi traslati. Il vocabolo stesso di allegoria ritorna presso di lui raramente. A questa parola egli preferisce geneneralmente il termine velamen, per cui l’allegoria diventa una delle tante figure possibili. Il concetto di alieniloquium già di per sé ci fa ricadere nel formalismo retorico e letterario che il realismo della scolastica aveva così studiosamente cercato di isolare e anche di rigettare nel segno cioè di quello che San Tommaso chiamava parabolismo13. Se per San Tommaso esiste un senso

12 De Bruyne 1947, p. 99 e 1946, p. 327. L’assuto proviene dalla Poetria, guida in versi alla composizione di poesia e prosa del poeta e grammatico inglese giovanni di Garlandia, 1180-1258 circa.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

letterale che esprime delle vere res e che presuppone e condiziona tutti gli altri, per Petrarca il senso letterale, o dire meglio l’aspetto esteriore dell’espressione poetica, che non consiste in res, ma in imagines e in figmento, essendo esso stesso un velamen, ha bisogno di un continuo ricorso alla veritas da cui ha preso le mosse, e da cui continua a dipendere, per sostenersi e giustificarsi. Per Pomilio, in questo modo, Petrarca prepara la fine dell’allegorismo e presso di lui non solo non si può più parlare di allegoria, ma nemmeno di fictio. La fictio è per Isidorio “quod tantum verisimile est”. Essa si ha quando cose che non sono accadute vengono narrate come se lo fossero. Per Petrarca il figmentum è invece il velamen del vero14.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

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