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IL VERO DELLA POESIA

II. 3.1 «Quid quod ipse libros scribo?» La polemica contro i cattivi poeti.

III.2. IL VERO DELLA POESIA

Fam., I 71

Ad Thomam Messanensem, contra senes dyaleticos.

[1] Temerarium est cum eo hoste confligere, qui non tam victoriam appetit quam certamen. Scribis quendam senem dyaleticum literis meis vehementissime permotum, quasi artificium suum ego damnaverim, ideo palam fremere et minari multa se quoque in studia nostra suis literis invecturum; eas te literas multis nequicquam mensibus expectasse. [2] Noli eas expectare amplius; crede michi, nunquam venient. Hoc modestie remansit. Sive is stili pudor, sive ignorantie confessio est, lingua implacabiles calamo2 non contendunt; nolunt apparere quam frivola sunt quibus armantur, ideoque, more parthico3, fugitivum pugne genus exercent et volatilia verba iactantes, quasi ventis tela committunt. [3] Cum his, ut dixi, suo more contendere temerarium est, quippe qui summam voluptatem ex contentione percipiunt, quibus non verum invenire propositum est, sed altercari. Atqui Varronis proverbium est: «Nimium altercando veritas amittitur»4.

1 La lettera è indirizzata a Tommaso Caloiro (1302-1341) poeta messinese, compagno di studi di Petrarca a Bologna. Petrarca ne piange la prematura scomparsa in due lettere di consolazione funebre indirizzate ai due fratelli Giacomo e Pellegrino (Fam. IV 10 e IV 11), a lui probabilmente è dedicato il sonetto XXV dei RVF (ma sono solo ipotesi), ed è ricordato in Tr. Cup. IV 58-64). Come risulta dall'edizione Rossi (Firenze 1933) le lettere indirizzate al Caloiro sono nove: Fam. I 2, 7, 8, 9, 10, 11, 12; III 1, 2, molte delle quali risultano fittizie, scritte esclusivamente per la raccolta ed ispirate alla lettura di Quintiliano e di Plauto, autori che Petrarca conobbe solo fra il 1350 e il 1351. (Cfr. Giuseppe Billanovich, 1947, p. 49. Si veda, inoltre, Antognini 2008, p. 124, e Dotti 1991-1994, I, p. 117). Billanovich annovera questa lettera fra le inventate e la data «tra il “50 e il 51” per attaccare la serie cronologica dell’epistolario, se pure con numeri radi fino alla prima giovinezza» (Billanovich 1947, Roma, 1947, p. 48), e quindi dieci anni dopo la scomparsa dell’amico. In essa Petrarca insorge contro un vecchio dialettico che si era pronunciato contro la sua scrittura e, più in generale, contro la poesia. La polemica è incentrata sul tema della scrittura opposta alla disputa verbale, già apparso nella

Fam. I 2, ed è volta a dimostrare gli svantaggi della tendenza a collocare la dialettica all’apice del processo formativo del

Trivio. (Cfr. Tateo, 2003, p. 254). La contesa prosegue e si conclude nella Fam. I 12, indirizzata al medesimo destinatario, in cui poeta controbatte argutamente alla lingua velenosa del vecchio dialettico. La battaglia per la difesa della poesia e del ruolo del poeta viene ingaggiata, con toni molto simili, in altri testi fondamentali della riflessione petrarchesca sulla dignità della poesia e del poeta: le quattro Invective contra medicum, il De suis ipsius et multorum ignorantia, e le Epystole indirizzate a Zoilo, in particolare Epyst. II 10, che presentano notevoli affinità argomentative e lessicali con le suddette

Familiares.

2 Il termine calamus ricorre più di cento volte nelle Familiares, mentre meno frequente risulta penna (solo quattro occorrenze, e sempre in senso traslato). Cfr.Vecchi Galli 2003, p. 330.

2 Sen., Ad Lucil., VI 4.

3 I Parti erano una popolazione seminomade che, a partire dal III secolo a. C., si stanziò in Iran. Attraverso una politica aggressiva ed espansionistica, l’Impero partico divenne ben presto una delle maggiori potenze dell’antica Persia e arrivò ad estendere i suoi confini fino alle rive dell’Eufrate. I Parti si fronteggiarono con i Romani per circa tre secoli per il controllo dell’Armenia, ma i conflitti si risolsero per entrambi i contendenti in un nulla di fatto. La fine del regno partico, minato da contese dinastiche, si ebbe nel 226 d. c. circa, ad opera di Ardashir, che inaugurò la dinastia e l’Impero dei Sasanidi. Probabilmente Petrarca conosceva la storia dei Parti attraverso Livio (IX 17-19).

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

[4] Noli autem trepidare ne in apertum scripture solidique colloquii campum descendant5; hi sunt enim, de quibus Quintilianus inter Institutiones oratorias loquebatur: «Quos reperias in disputando mire callidos, cum ab illa cavillatione discesserint, non magis sufficere in aliquo graviore actu quam parva quedam animalia, que, in angustiis mobilia, campo deprehenduntur»6. Merito itaque campum timent. Verum est enim illud eiusdem: «Diverticula et anfractus suffragia esse infirmitatis, ut qui cursu parum valent, flexu eludant»7. [5] Tibi vero, amice, unum hoc dixisse velim: si virtutem, si veritatem sequeris, id genus hominum vita. Sed quonam fugiemus a facie insanorum, si ne insule quidem tute sunt? Ergo nec Scylla nec Caribdis8 obstiterit, quominus hec pestis in Trinacriam transnataret? Imo vero iam insularum peculiare malum est, si dyaleticorum agmini britannico ethnea nunc novorum Cyclopum acies accesserit. Hoccine est quod in Cosmographia Pomponii9 legeram, Sicilie maxime similem esse Britanniam? [6] Ego quidem putabam similitudinem hanc in terrarum situ ac prope triangulari utriusque specie et fortasse etiam in circumfusi maris perpetua collisione consistere; nichil de dyaleticis cogitabam. Audieram Cyclopas primum, postea tyrannos, utrosque feroces incolas; tertium monstri genus advenisse non noveram, armatum enthimemate10 bisacuto et ipso Taurominitanii litoris fervore procacius11. [7] Unum sane et ego pridem animadverteram et tu nunc admones: eos sectam suam aristotelici nominis splendore protegere; dicunt enim Aristotilem ita solitum disputare. Est, fateor, qualisqualis excusatio, clarorum ducum inhesisse vestigiis; nam et

5 Molti sono i luoghi in cui Petrarca condanna la disputa verbale, in particolare, nelle Invective, lo fa appoggiandosi a Cicerone: «“Dissentientium” inquit “inter se reprehensiones non sunt vituperande; maledicta, contumelie, iracundie, contentiones concertationesque in disputando pertinaces indigne philosophia michi videri solent” [scil. Cic. De fin., I 8, 27 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 166)] […] et sequitur: “Que enim cum aliqua perturbatione fiunt, ea nec costanter fieri possunt, neque his, qui assunt, probari” [scil. Cic. De off., I 137 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 166)]. Sane, quod ad disputandum pertinet, Latinis iste non fuerat disceptandi modus; licet - ut Cicero idem ait - “sit ista in Grecorum levitate perversitas, qui maledictis insectantur eos, a quibus de veritate dissentiunt” [scil. Cic. De fin., II 25, 80 (passo indicato nella nota ad loc., ivi, p. 166)]. Que cum michi iampridem nota essent, et animus, natura quietis appetens, a contentionibus abhorreret, numquam sponte fueram ad talia descensurus». (Petrarca, Invective contra

medicum, IV 257-263). Allo strepito della voce, strumento caduco, Petrarca oppone il calamus, strumento durevole, e

alla disputa verbale di uso scolastico contrappone la nuova arte della scrittura, cioè la sua prosa epistolare, che a differenza della disputa dialettica, vuole essere una battaglia in campo aperto. (Tateo 2003, pp. 251-252).

6 Quintiliano, inst. XII 2, 14 7 Ivi, IX 2, 78.

8 Con “Scilla e Cariddi” fu per lungo tempo indicato quel tratto di mare conosciuto attualmente come lo Stretto di Messina, caratterizzato da forti correnti che rendevano la navigazione particolarmente pericolosa. Nell’immaginario comune, le insidie di queste acque assunsero ben presto le sembianze di veri e propri mostri: Scilla dimorava dentro una caverna scavata nei dirupi del promontorio della Calabria e Cariddi abitava di fronte, a poca distanza, dall’altro lato dello stretto, vicino alla costa siciliana, nascosta in una rupe inacessibile (cfr. Ovidio, Met., XIII-XIV).

9 Mela, III 50.

10 Petrarca utilizza termini tecnici della logica aristotelica, in cui il sillogismo è il perfetto ragionamento deduttivo, mentre l’entimema è un sillogismo imperfetto. (Cfr. Chines, 2004, p. 260).

11 Paragonando i dialettici ai Ciclopi, e valendosi di metafore belliche, Petrarca mette in scena una sorta di Gigantomachia (a questo proposito, mi sembra rilevante il riferimento finale al Gigante Encelado cfr. infra, nota 64). La guerra fra i mostruosi Ciclopi (dialettici) e le divinità (i poeti) non può che concludersi con la sconfitta dei primi, colpevoli di voler scompaginare l’ordine del mondo, come i dialettici, accusati di voler sconvolgere l’assetto corretto delle artes.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

Marcus Tullius “non invitum” se cum Platone, si oporteat, “erraturum” dicit12. Sed falluntur. [8] Aristotiles enim, vir ardentis ingenii, de rebus altissimis vicissim et disputabat et scribebat; alioquin, unde huius tam multa volumina summo studio et tantis exhausta vigiliis, inter multorum et presertim illius fortunati discipuli graves occupationes, et in etate non longa? siquidem circa illum apud scriptores infamem, tertium scilicet et sexagesimum vite annum defunctum accepimus. [9] Isti autem cur a duce suo tam diversi abeunt? cur, queso, aristotelicos dici iuvat et non potius pudet? Nichil illi tanto philosopho dissimilius homine nichil scribente, parum intelligente multumque et inutiliter clamante. [10] Quis illas conclusiunculas non rideat, quibus literati homines se simul et alios fatigant, in quibus omnem etatem conterunt, quippe ad alia inutiles, ad hoc ipsum precipue damnosi? Qualia sunt que a Cicerone et a Seneca pluribus locis irridentur; [11] quale est illud Dyogeni propositum, quem dum contumeliosus dyaleticus verbis esset aggressus hoc modo: “‘Quod ego sum, id tu non es’, annuissetque Dyogenes”, ille subiunxit: “‘Homo autem ego sum’”; cum id etiam non negasset, conclusionem subintulit cavillator: “‘Homo igitur tu non es’”. ‘Enimvero ultimum hoc’ inquit Dyogenes, “‘falsum est; et si verum fieri vis, a me incipe’” 13. [12] Multa sunt id genus perridicula, in quibus quid querant — an famam, an oblectamentum, an bene beateque vivendi consilium — sciunt ipsi forsitan, michi nichil ignotius. Nam lucrum haud digna studiorum merces nobilibus ingeniis videri debet; mechanicorum est lucra captare; honestarum artium generosior finis est. [13] Dum hec audiunt, irascuntur; est enim fere multiloquium contentiosi hominis iracundie proximum. ‘Ergo’ inquiunt, ‘dyaleticam tu condemnas’? Absit; scio enim quantum illi Stoici tribuant, secta philosophorum fortis et mascula; cuius, cum sepe alias, tum in libro De Finibus Cicero noster meminit; scio quod una liberalium est et gradus ad alta nitentibus interque philosophorum dumeta gradientibus non inutilis armatura. Excitat intellectum, signat veri viam, monstrat vitare fallacias; denique, si nichil aliud, promptos et perargutulos facit. [14] Hoc ita esse non infitior. Sed non statim qua honeste transivimus, laudabiliter immoramur; quinimo viatoris insani est amenitate viarum metam quam destinaverat, oblivisci; muta cito transisse et nunquam citra terminum substitisse, viatoris laus est. Et quis non viator ex nobis est? brevi omnes adversoque tempore, tanquam hiberno pluviali die, longum ac difficile iter agimus; cuius dyaletica pars esse potest, utique terminus non est; et potest pars esse matutina, non serotina. [15] Plurima quidem honeste fecimus, que turpissime faceremus; si enim dyaletice scolas, quod in eis pueri lusimus, senes relinquere nescimus, eodem iure nec “par impar ludere” nec “arundine” tremula “equitare” pudeat nec rursum cunis infantilibus agitari. Sunt mire varietates rerum ac vicissitudines temporum, quas occurrens natura fastidio, vigilantissimo

12 Cic. Tusc. I 17, 40. 13 Gell., XVIII 13, 7-8.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

artificio meditata est; eas non putes in anni tantum circulo, sed multo magis in longa etate reperiri. [16] Ver floribus et arborum comis, estas frugibus dives est, autumnus pomis, hiems nivibus abundat. Hec, modo non tantum tolerabilia sed grata, si pervertantur, fient, concussis nature legibus, importuna; et ut nemo erit qui vel Iani glaciem equo animo per estatem perferat, vel solis ardorem alienis mensibus sevientem; sic nemo reperietur qui vel senem infantibus colludentem non oderit aut rideat, vel puerum canum aut podagricum non miretur. [17] Quid autem, queso, ad omnem disciplinam tam utile, imo tam necessarium est quam ipsarum literarum prima cognitio, in quibus omnium studiorum fundamenta consistunt? Sed, ex diverso, quid sene ridiculosius in talibus occupato? [18] Tu ergo senis tui discipulos meis verbis excita; neque deterreas, sed hortare, non quidem ut ad dyaleticam, sed ut per eam ad meliora festinent14. Seni autem dic non me liberales artes damnare, sed senes pueros; ut enim nichil “elementario sene turpius”, quod ait Seneca, sic nichil dyaletico sene deformius15. Et si sillogismos eructare16 ceperit, fuge, consulo, ac iube illum disputare cum Enchelado17. Vale.

Avinione, IV Idus Martias.

14 Per il poeta la grammatica è il fondamento di ogni studio, ma piuttosto che dedicarsi esclusivamente a essa bisognerebbe tendere, con il passare del tempo, a mete più alte. Chi si intrattiene con quest’arte troppo a lungo risulta ridicolo. 15 Sen. Epist. 36 4. Per rimarcare il valore puramente strumentale della dialettica, l’autore capovolge il topos del puer

senex. Al contrario del fanciullo che ragiona come un adulto, il senex puer che indugia sull’arte puerile della dialettica, è

un adulto che non vuole crescere e dunque sconvolge l’ordine naturale. L’immagine del senex puer si ritrova anche nelle

Invective, cfr. Petrarca, Invective contra medicum, IV 15.

16 Il verbo eructare oltre ad indicare azioni turpi come quella di vomitare (Verg.) o di ruttare in maniera indecente (Cic), assume altri significati come eruttare, esalare, emettere e lanciare, ma anche lo slanciarsi, il rovesciarsi fuori, proprio come la lava di un vulcano. Si pensi alla frase di Tertulliano: «ignis de terra per vertices montium eructans», (fuoco che erutta dalla terra attraverso le cime dei monti), Tert. Apol. 48, 14. Il ricorso a questo termine risulta particolarmente interessante se si pensa al fatto che i Ciclopi di cui parla Petrarca abitavano proprio nei vulcani della Sicilia e che Encelado, cui il poeta fa riferimento nella frase successiva, secondo la mitologia, fu seppellito da Zeus sotto l’Etna. 17 Encelado è un gigante della mitologia greca che prese parte alla guerra dei giganti contro gli dei, la gigantomachia, per vendicare i fratelli, i Titani, che Zeus aveva confinato nel Tartaro. I giganti furono sconfitti e seppelliti sotto l’Etna e sotto altri vulcani. Di Encelado sepolto sotto l’Etna parla Virgilio nel III Libro dell’Eneide (vv. 580-582): «fama est Enceladi semustum fulmine corpus urgeri mole hac, ingentemque insuper Aetnam impositam ruptis flammam exspirare caminis, et fessum quotiens mutet latus, intremere omnem murmure Trinacriam et caelum subtexere fumo». Dopo la guerra contro i giganti Zeus potè assicurare in modo definitivo il suo dominio sul mondo, instaurando definitivamente l’ordine cosmico. (la lotta fra i giganti è narrata in Ovidio, Met., I 150 ss.).

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

Fam., I 7

A Tommaso da Messina, contro i vecchi dialettici

[1] È pericoloso combattere con un nemico, che più che la vittoria desidera la lotta. Tu mi scrivi che un certo vecchio dialettico, rimasto gravemente offeso da una mia lettera, nella quale gli pareva che io avessi biasimato i suoi arzigogoli, freme e minaccia di scagliarsi anche lui violentemente contro i miei studi con altra sua lettera; e che questa lettera tu l’aspetti invano da molti mesi. [2] Non l’aspettar più, perché, credi a me, non verrà. Gente così fatta ha ancora un po’ di ritegno; sia per vergogna del loro stile, sia per confessione di ignoranza, pur implacabili con la lingua, non combattono con la penna; non vogliono che appaia la frivolezza delle loro armi, e perciò, come i Parti, pugnano fuggendo e scagliando parole volanti, affidano i dardi al vento. Con questi, come ho detto, è pericoloso combattere ad armi uguali, perché traggono il loro godimento dalla contraddizione, non proponendosi di trovare il vero, ma di litigare; ed è proverbio di Varrone che, litigando, si perde la verità. Non temer dunque che discendano in campo aperto con scritti e con aperta discussione; poiché sono quelli stessi di cui parlava Quintiliano nella sua Istituzione oratoria: «Quelli che si dimostrano mirabilmente sottili nelle dispute, se li togli dai loro cavilli, davanti a qualche argomento importante si perdono, come certi animaletti che, agili in un luogo stretto, facilmente si lasciano prendere in luogo aperto»; e perciò temono l’aperto. Vero è anche questo del medesimo autore, che «le giravolte e i nascondigli sono un aiuto alla loro debolezza, sicché, non essendo molto veloci, si salvano col volgersi qua e là». A te dunque, o amico, questo soltanto voglio dire: se vuoi seguire la virtù e la verità, tieniti lontano da uomini siffatti. Ma come fuggiremo la faccia di questi pazzi, se neppure le isole ne sono sicure? Dunque né Scilla né Cariddi hanno potuto impedire che questa peste passasse in Sicilia? Sembra anzi divenuto un morbo particolare delle isole, se alla schiera dei britannici si aggiunge ora uno sciame etneo di nuovi Ciclopi. Ma forse per questo si legge nella Cosmografia di Pomponio che la Britannia è molto simile alla Sicilia. Io credevo che questa somiglianza consistesse nella postura della terra, nella configurazione a forma di triangolo e fors’anche nel perpetuo cozzare del mare che la circonda; non pensavo davvero ai dialettici. Avevo sentito parlare, prima dei Ciclopi, poi dei tiranni, feroci abitatori gli uni e gli altri; non sapevo che vi fosse sbarcato un terzo genere di mostri; armati di entimema a due tagli e più violenti di quel mare che infuria sul lido di Taormina. Una cosa io per conto mio da un pezzo avevo notato, e tu me la ricordi: che costoro nobilitano la loro setta ammantandola con lo splendore di Aristotile, e affermando ch’egli soleva disputare alla loro maniera. È, l’ammetto, una scusa di qualche peso, seguir le orme di illustri maestri; e anche Cicerone dice che, se fosse necessario, non gli dispiacerebbe errare insieme con Platone. Ma s’ingannano: Aristotile, uomo d’ingegno vivacissimo, a vicenda disputava e scriveva

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

su gravissimi argomenti; altrimenti, come sarebbero a noi giunte tante sue opere compiute con così grande studio e così lunghe veglie, mentre per di più si occupava amorosamente dei suoi molti discepoli e in special modo del più fortunato di essi? E ciò durante una vita non lunga, se è vero, come leggiamo, ch’egli morì a sessantatré anni, età che i trattati dicono funesta. Ora, perché costoro sono così lontani dal loro maestro? Perché si compiacciono e non si vergognano di chiamarsi aristotelici? Niente è così dissimile da quel grande di colui che nulla scrive, poco intende e molto e inutilmente grida. Chi può non ridere di quelle conclusioncelle, con le quali questi uomini dotti stancano sé e gli altri, consumandovi tutta la loro vita, dimostrandosi inutili a ogni altra occupazione e in questa dannosi? Di tal genere sono quelle sentenze che da Seneca e Cicerone in molti luoghi sono derise; di tal genere è quel che si narra di Diogene: che, avendolo un dialettico offeso con queste parole: «Tu non sei quello che io sono», e assentendo egli, «Io sono un uomo», soggiunse quello; e anche questo avendo ammesso Diogene, quel cavillatore concluse: «Dunque tu non sei un uomo». «Questo poi» disse allora Diogene «è falso; e se vuoi che sia vero, comincia il ragionamento da me». Molte sono le ridicolaggini di tal fatta, in cui quale scopo si propongono- se la fama, o il diletto o un mezzo per viver lieti e contenti – essi forse sapranno, io non so di certo. Poiché ai nobili ingegni il denaro non deve sembrare degno premio agli studi; è da gente bassa cercare il guadagno, mentre il fine delle nobili arti è assai più alto. A udir queste parole essi si adirano; poiché le ciance degli uomini litigiosi sono assai vicine all’ira. ‘Tu dunque’ dicono ‘condanni la dialettica?’ Dio me ne guardi; so bene quanto la tengano in conto gli Stoici, forte e potente setta di filosofi, della quale spesso fa menzione Cicerone, anche nel suo De finibus; so che è una delle arti liberali, quasi una scala a chi vuol salire, e come una non inutile armatura a chi vuol farsi strada tra i rovi della filosofia. Eccita l’intelletto, addita la via della verità, insegna a evitare gl’inganni; insomma, se non altro, ci rende pronti e acuti. Tutto questo io non nego; ma se è bello passare da un luogo, non per questo è sempre lodevole dimorarvi; che anzi è sciocco quel viandante che, preso dall’amenità dei luoghi, dimentica

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