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Le leggi dell’imitatio

II. 3.1 «Quid quod ipse libros scribo?» La polemica contro i cattivi poeti.

II.3.3 Le leggi dell’imitatio

Come suggerisce Witt, Petrarca è stato il primo a formulare un’analisi del processo di imitazione. Nessuno prima di lui, nemmeno i primi umanisti (Mussato o Lovato), riuscì a sviluppare in modo chiaro e sistematico una teoria dell’imitazione1. Nella Fam., I 8, indirizzata a Tommaso Caloiro2, Petrarca sviluppa una vera e propria teoria dell’imitatio, che trova ulteriore elaborazione in altre due Familiari: Fam. XXII 2 e XXIII 19, indirizzate a Giovanni Boccaccio, e i cui capisaldi sono: la mellificatio, la mirifica permixtio e la insignis mutatio 3.

Per elaborare le sue teorie, sulla scorta di Seneca, ricorre alla metafora delle api che aveva avuto larga fortuna nel periodo classico4 Il tropo ha origini lontane: nella letteratura greca il miele e le api erano immagine simbolo della poesia e del poeta a partire almeno dal VI secolo. In questo periodo, tuttavia, non era ancora chiaro se l’ape producesse o raccogliesse il miele. L’idea che l’ape raccogliesse il miele già formato dai fiori si ritrova nello Ione platonico e, come afferma Cicu, trasporta

l’idea che il poeta cantasse ispirato dalla divinità, quindi con un ruolo passivo […]; al contrario, la tesi che l’ape raccogliesse il nettare e lo trasformasse in miele per effetto di una precisa tecnica e di specifiche qualità, fu utilizzata per attribuire al poeta la capacità di fare poesia, attingendo materiali e parole dai molteplici libri-fiori del patrimonio letterario ed elaborandolo con le proprie doti e la propria techne5.

1 Cfr. Witt 2005, p. 270.

2 Appartiene alla serie delle lettere datate da Billanovich fra il 1350-51 (cfr. Billanovich 1947, pp. 20, 47-55) e quindi risulta fittizia.

3 Martellotti 1983, p. 502 e Pasquini 2001, p. 279.

4 Durante il periodo medievale la metafora ebbe una grande fortuna. Dante la riprese nel De vulgari eloquentia (I 1, 1): «Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam inveniamus tractasse, atque talem scilicet eloquentiam penitus omnibus necessariam videamus ? cum ad eam non tantum viri sed etiam mulieres et parvuli nitantur, in quantum natura permictit ?, volentes discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambulant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes, Verbo aspirante de celis locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum aurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum». Secondo questo programma poetico, l’autore si propone di addolcire l’acqua del suo ingegno con il miele, ovvero con citazioni di altri autori, comportandosi come un compilatore, che mescola i pensieri altrui ai propri. Attraverso l’immagine dell’ydromellum (idromiele), egli anticipa la connessione fra mellificatio e imitatio, fondamentale in età umanistica. (Cfr. Baroncini, 2002, p. 157) Come afferma Daniela Baroncini, «tale poetica si traduce nella congiunzione indissolubile tra scrittura e auctoritates, realizzata per tramite di una memoria che reinventa il passato, sottoponendolo a una metamorfosi profonda per creare il nuovo». (Ivi, pp. 157-158). In ambito cristiano il miele fu paragonato alla parola di Dio. Secondo Origene infatti, la Scrittura è il favo, gli scrittori sacri sono le api e Cristo, loro re, è come l’ape regina; il miele delle Scritture è dunque il succo nutritivo (In Num., tr. 27, n. 12 (278). In Is., h. 2, n. 2 (242-2)). Il verbo di Dio per Sant’Ambrogio, è come il pane per la sua robustezza e miele per la sua dolcezza (De Isaac, c. v, n. 49 (PL, XIV, 519 B); De bono mortis, c. XX (550BC); Agostino ricorda a Girolamo il tempo felice in cui questi gustava con Rufino, nella dolcezza dell’amicizia, «il miele delle sante Scritture» (Ep. 73, n. 8 (PL, XXXIII, 248). In Jo., tr. 120, n. 8: «sanctae deliciae» (35, 1955)) e Bernardo di Chiaravalle fu chiamato Doctor mellifluus, (che in seguito significò «dottore dalla parola dolce come il miele») poiché fece scorrere il miele delle Scritture. (Cfr. Lubac, 2006, pp. 252- 259). Inoltre, per significare talune esperienze spirituali si è spesso fatto ricorso a metafore afferenti al lessico dell’apicoltura. Lo stesso Petrarca, nel De otio religioso (I, r. 26), chiama i Monaci di Montrieux dominice apes, riferendosi alla loro intensa attività letteraria, filologica e di copiatura. (Cfr. Rigo 2016, p. 53).

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

Successivamente, la metafora dell’ape, con la sua connotazione letteraria, fu largamente utilizzata anche dagli scrittori latini. Si pensi a Orazio, il quale, paragonandosi a un’ape, affermò di comporre carmi grazie alla fatica del suo ingegno e non tramite l’ispirazione divina (Carm. IV 2, 27-32) o a Seneca, che nell’ Epistola 84 a Lucilio fornisce un’accurata ed esauriente spiegazione della metafora. Egli, dapprima, si sofferma a descrivere il lavoro delle api: esse non si fermano mai su un solo fiore, ma vagando qua e là, raccolgono il nettare da molti fiori. A differenza di Platone, Seneca aderisce alla tesi che le api non raccolgono il miele già formato, ma lo producono con le doti naturali della loro abilità. Egli rifiuta l’idea dell’enthousiasmòs del poeta ed è fermamente convinto che l’opera letteraria sia il frutto di una equilibrata commistione di talento e di tecnica. Come afferma anche Orazio, per scrivere la vera poesia ingenium (talento innato) e ars (tecnica artistica) sono ugualmente indispensabili (Ars poet., 408-411). Lo scrittore dunque deve imitare le api, raccogliendo materiali vari da testi differenti, per fonderli e trasformarli, grazie al fermentum del suo ingegno, facendo in modo che il rapporto imitativo resti nascosto e che nessuna delle sequenze prese a prestito possa essere identificata; ad ogni modo, se ciò dovesse accadere il testo ottenuto non potrebbe essere considerato un plagio, poiché sarebbe diverso da quello dei modelli utilizzati. Il lavoro di elaborazione permette, in questo modo, di ottenere l’originalità mediante l’imitazione, purché la materia ottenuta sia diversa dalla fonte6:

Cuius summa est: apes in inventionibus imitandas, que flores, non quales acceperint, referunt, sed ceras ac mella mirifica quadam permixtione conficiunt. Eius autem non sensum modo, sed verba Macrobius in Saturnalibus posuit; ut michi quidem uno eodemque tempore quod legendo simul ac scribendo probaverat, rebus ipsis improbare videretur; non enim flores apud Senecam lectos in favos vertere studuit, sed integros et quales in alienis ramis invenerat, protulit. Quanquam quid ego alienum aliquid dixerim, licet ab aliis elaboratum, cum Epycuri sententia sit ab eodem Seneca relata, quicquid ab ullo bene dictum est, non alienum esse sed nostrum?7

Ancor più fortunato è il poeta che riesce non solo a creare uno stile personale, ma anche e soprattutto il pensiero senza ricevere l’influenza di altri scrittori, proprio come fanno i bachi che sono in grado di produrre la seta dalle proprie viscere, traendo da se stessi contenuto e forma8.

Sed illud affirmo: elegantioris esse solertie, ut, apium imitatores, nostris verbis quamvis aliorum hominum sententias proferamus. Rursus nec huius stilum aut illius, sed unum nostrum conflatum ex pluribus habeamus; felicius quidem, non apium more passim sparsa colligere, sed quorundam haud multo maiorum vermium exemplo, quorum ex visceribus sericum prodit, ex se ipso sapere potius et loqui, dummodo et sensus gravis ac verus et sermo esset ornatus9.

6 Cfr. ivi, pp.131-135. 7 Fam., I 8, 2-4.

8 Cfr. Tateo 2003, p. 255. 9 Fam., I 8, 4-5.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

Raro è il poeta che riesce a produrre da sé il pensiero. «L’essere di pochissimi o di nessuno, in una visione elitaria, quale quella di Petrarca, è estremamente desiderabile. Questa difficile accessibilità, infatti, certamente rende tale imitazione ancora più ricercata per Petrarca»10.

La metafora dell’ape torna nella Fam., XXII 2, indirizzata a Boccaccio e scritta l’8 ottobre 1359 dalle rive dell’Adda, si apre con la rievocazione della sua visita a Milano avvenuta verso la metà di marzo dello stesso anno. Boccaccio restò nella città lombarda sino ai primi d’aprile e, al suo rientro a casa, portò con sé una copia del Bucolicum Carmen per trascriverlo e mostrarlo a Nelli. Dopo la sua partenza, Petrarca si rese conto di dover apportare alcune correzioni alla sua opera: in particolare nell’egloga X, ai versi 128 e 288 si era servito di alcune espressioni che ricordavano troppo da vicino alcuni passi di Ovidio e di Virgilio; pertanto scrive all’amico per proporre una nuova redazione e per pregarlo di correggere il suo esemplare.

Per attenuare l’eccessiva dipendenza dai modelli Petrarca propone due varianti. In questo modo, mostra, attraverso esempi concreti, come l’imitazione debba essere il frutto di un lavoro paziente di assimilazione profonda, più che di prelievo elementare, che risulta troppo scoperto e facilmente riconoscibile:

Erat autem ad hunc modum: «Quid enim non carmina possunt?». Tandem ad me rediens deprehendi non meum esse finem versus; cuius autem esset diuticule hesitavi, non aliam ob causam nisi quia, ut dictum est, iam mea illud in ratione posueram; ad postremum repperi esse Nasonis septimo Methamorphoseos. Et hoc ergo similiter mutabis, ponesque ita: «quid enim vim carminis equet?»; nec verbis, puto, nec sententia versus inferior. Hic igitur nostri sit, si tamen hic ipse vel sic etiam noster est; ille alter ad dominum suum redeat et Nasonis sit; quem illi eripere nec si velim possim, nec si possim velim11.

Come aveva già affermato nella Fam. I 8, l’imitazione deve avvenire alla maniera delle api, attingendo da più parti per ricavare un unico concetto. Inoltre egli svela le modalità del suo intimo rapporto con i modelli antichi. Come afferma Chines:

dalle sue parole cogliamo i meccanismi di simpatia e di identificazione, o di divaricazione e di distanza, che scandiscono l’atto della lettura e dell’assimilazione degli auctores, in quel complesso e intricato processo di ripresa consapevole o inconscia che oggi chiameremo “intertestualità12

Tutta la lettera è impostata sul ragionamento che i testi più noti sono i più pericolosi, perché il lungo uso e il continuo possesso inducono ad imitazioni inconsapevoli:

10 Graziano 2012, p. 328. 11 Fam., XXII 2, 25. 12 Chines 2012, p. 2.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

Unum nec tibi nec epystole subtrahendum credidi, michi hactenus ignoratum, fateor, et nunc quoque mirabile stupendumque. Siquidem omnes nos quicunque novi aliquid scribimus, sepius fallunt que melius didicimus inque ipso scribendi actu familiarius ludunt. Certius scimus que lentius sunt mandata memorie13.

Il poeta giustifica dunque l’eventuale ripresa dei contenuti con l’eccessiva familiarità degli autori. Ma, poiché similitudo non è identitas, imitare equivale a saper riproporre, rielaborandolo, ciò che è stato letto e assimilato dalle pagine degli altri autori, pertanto non può essere pedissequa ripetizione, né servile riproduzione. Nell’opera- afferma Petrarca-deve risplendere l’ignegno di chi imita14: «vitam michi alienis dictis ac monitis ornare, fateor, est animus, non stilum; nisi vel prolato auctore vel mutatione insigni, ut imitatione apium e multis et variis unum fiat»15.

All’immagine delle api, modello positivo, Petrarca contrappone quello negativo dell’istrione, che passa da un travestimento all’altro, senza mai essere davvero qualcuno dei personaggi che interpreta. Se all’attore sta bene qualsiasi abito, non così allo scrittore che non può avere uno stile qualunque, ma deve possederne uno proprio, per evitare di fare la figura della cornacchia della favola di Esopo e di Fedro che risulta ridicola vestita con le piume di pavone. Tradizionalmente la metafora della cornacchia infatti, era utilizzata per indicare i poeti plagiari: «Omnis vestis histrionem decet, sed non omnis scribentem stilus; suus cuique formandus servandusque est, ne vel difformiter alienis induti vel concursu plumas suas repetentium volucrum spoliati, cum cornicula rideamur»16.

Come ha messo in luce Martellotti, tuttavia, Petrarca non è sincero quando afferma di aver copiato inavvertitamente da Virgilio e da Ovidio. Nel saggio «Similitudo non identitas», lo studioso mostra come le scelte petrarchesche siano sempre consapevoli e siano finalizzate a creare un sottile gioco di richiami testuali. Dunque «è possibile che Petrarca insista sul tema dell’imitazione con intento polemico e didattico nei confronti dell’amico [Boccaccio] anche se, con estrema delicatezza, il suo discorso si svolge tutto intorno a proprie personali esperienze»17. Come è stato messo in luce da Resta, infatti, Boccaccio, nei suoi versi latini, si teneva particolarmente aderente ai modelli classici, tanto da assumerne scopertamente frasi, clausule, stilemi18.

13 Fam., XXII 2, 8.

14 Cfr. su questo argomento, Hor., Ars, 119-152. 15 Fam., XXII 2, 16.

16 La metafora era tradizionalmente utilizzata in letteratura per indicare i poeti plagiari. Si pensi al sonetto duecentesco

Di penne di paone e d'altre assai, di non sicura attribuzione (il Vat. 3793, che lo attribuisce a Chiaro Davanzati), in cui

l’autore la utilizza per indicare (secondo un altro testimone, il Vat. 3214) Bonagiunta da Lucca, rimproverato per aver rubato «lo detto stranero» del «Notaro» per antonomasia, ovvero il siciliano Jacopo da Lentini: «Per te lo dico, novo canzonerò, / che ti vesti le penne del Notaro, / e vai furando lo detto stranero;/ sì co' gli agei la comiglia spogliaro, /spoglieriati per falso menzonero, / se fosse vivo, Jacopo Notaro». vv. 9-14 (testo in Contini, 1977 p. 430) cfr. Paolazzi, 1998, p. 166.

17 Guido Martellotti, «Similitudo non identitas», cit., p. 516 18 Cfr. Resta 1975, pp. 59-60 e cfr. Martellotti 1983, p. 516.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

Nella Fam., XIII 19, indirizzata a Giovanni Boccaccio19, Petrarca parla all’amico di Giovanni Malpaghini, giovane amanuense che dall’estate del 1364 si era trasferito nella sua casa veneziana, presso la quale prestò servizio come segretario e copista per circa tre anni. Il poeta ne elogia l’ingegno, ma riconosce il fatto che egli non abbia ancora raggiunto un proprio personale stile. Si apre, in questo modo, una riflessione sull’imitatio, la quale, secondo l’autore, non deve essere evitata, ma opportunamente nascosta.

Nel tentativo di imitare Virgilio, spesso il giovane inserisce interi frammenti del poeta romano, rendendo l’originale facilmente riconoscibile. Petrarca, ricorrendo di nuovo a Seneca20, ed evocando direttamente il rapporto di parentela fra pittura e poesia, afferma che il rapporto di somiglianza che deve stabilirsi tra il modello e l’opera che lo imita non deve essere come quello esistente fra una persona e il suo ritratto, ma come quello che intercorre fra padre e figlio:

In quibus cum magna sepe diversitas sit membrorum, umbra quedam et quem pictores nostri aerem vocant, qui in vultu inque oculis maxime cernitur, similitudinem illam facit, que statim viso filio, patris in memoriam nos reducat, cum tamen si res ad mensuram redeat, omnia sint diversa; sed est ibi nescio quid occultum quod hanc habeat vim21.

Il giovane Malpaghini, accusato da Petrarca di aver inserito nei suoi versi espressioni virgiliane, si difende affermando che, facendo ciò, segue l’esempio del suo maestro. A sostegno della sua tesi, il giovane recita un verso del Bucolicum Carmen (VI, 193) che termina proprio come un verso dell’Eneide (VI, 607). Petrarca assicura al discepolo di essersi reso conto solo in questo momento di aver inserito un verso di Virgilio nella sua opera perché, come aveva sostenuto nella Fam. XXII 2, gli autori più letti e meglio conosciuti sono in grado di penetrare talmente in profondità nell’animo da portare chi scrive a un’imitazione inconsapevole, prensentandosi «non tantum ut propria sed, quod miraberis, ut nova». Il poeta, inoltre, sostiene di non poter più apportare correzioni in quanto l’opera è ormai troppo diffusa22; pertanto ne informa l’amico per chiedere insieme perdono a Virgilio, il quale, da parte sua, si è appropriato di tante cose altrui, imitando Omero, Ennio e Lucrezio. Come ha mostrato Martellotti, anche in questo caso Petrarca non è sincero: la frase «atque intonat ore» viene utilizzata consapevolmente per realizzare un complesso gioco allusivo; per quanto riguarda invece il fatto che Petrarca non potesse correggere il testo perché era già troppo diffuso, lo studioso ricorda

19 Da Pavia, è datata il 28 ottobre 1366. 20 Ad. Luc., 84, 3-10.

21 Si tratta di un’umbra, quella che i pittori chiamano aria, qualcosa di particolare, «un nescio quid occultum», che, come osserva Martellotti, per definirlo, Petrarca «deve volgere in latino una parola tecnica del linguaggio pittorico italiano. Il riconoscimento del modello non è escluso, anzi è considerato inevitabile, elemento necessario di un gioco che si potrà ben chiamare “arte allusiva”». (Guido Martellotti 1983, p. 503).

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

che due anni prima egli non aveva avuto problemi a spedire, per tramite di Benintendi, una sorta di lettera circolare che proponeva una serie di correzioni, anche se il testo era già stato ampiamente divulgato23.

Risulta significativo, inoltre, osservare che entrambe le lettere (sempre indirizzata a Boccaccio) si concludano con un accenno piuttosto pesante a Virgilio imitatore. Per lo studioso «è una ripetizione che il Petrarca in altri casi avrebbe forse evitato, ma qui non poteva: tutte e due le volte il suo discorso doveva terminare col nome del poeta latino, perché ciò ch’egli intendeva correggere nell’amico trovasse tuttavia una sua ragion d’essere e in qualche modo si nobilitasse con l’esempio illustre»24.

23 Martellotti 1983, pp. 510-515. 24 Martellotti 1983, p. 516.

Laura Antonella Piras, L’epistolario di Petrarca fra ars poetica e interpretazione, Tesi di Dottorato in Lingue, Letterature e Culture dell’età Moderna e Contemporanea (XXXI ciclo), Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università degli Studi di Sassari.

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