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Ontologia del differente e del possibile

2. Differenza e contraddizione

Una dialettica negativa e un pensiero anti-dialettico, pur nella loro differenza, sono dunque mossi dallo stesso intento e finalizzati al medesimo risultato. E tuttavia, è davvero possibile un'interazione tra pensieri articolati in modo tanto diverso, dove da un lato esistono solo la Differenza e il Molteplice come immediato piano di immanenza del pensiero, mentre dall'altro quest'ultimo deve cercare faticosamente la relazionalità con il reale non identico attraverso il “lavoro” dialettico? In altri termini, è possibile un acco- stamento di dialettica negativa e anti-dialettica che non sia limitato esclusivamente ai loro esiti, ma che ne coinvolga anche i reciproci sviluppi centrati su strutturazioni onto- logiche in prima battuta così diverse, quello dell'immediatezza della differenza per De- leuze e quello della dialetticità della contraddizione per Adorno? Si tratta di considerare quale ruolo giochino in effetti differenza e contraddizione in uno scenario più ampio ri- spetto a quello della scontata irriducibilità della prima alla seconda o, detto altrimenti, di andare oltre la contrapposizione metodologica tra dialettica negativa e anti-dialettica poiché è esclusivamente sul piano ontologico che questa si articola e diviene comprensi- bile nella sua pienezza.

La questione è di indubbia centralità, entrambi i filosofi infatti individuano un rapporto diretto tra la differenza e la contraddizione: per Adorno, il pensiero immerso nella realtà reificata può pensare solo dialetticamente poiché a tutta la differenza non re- sta che esprimersi per mezzo della contraddizione; per Deleuze, il pensiero rappresenta- to nella dialettica è in grado di considerare la differenza solo nei termini della contraddi- zione. Come emerge già ampiamente da questo breve confronto, i due filosofi interpre- tano in modo molto diverso il ruolo che la contraddizione viene ad assumere. Per Ador- no essa ha una valenza ontologica e il pensiero, per corrispondere a quest'ultima con uno strumento adeguato, in grado di interpretarla e infine di superarla, deve farsi dialet- tico; al contrario, per Deleuze, la contraddizione è esclusivamente teoretica, prodotta dalla dialettica, perciò la sua eliminazione coincide con quella della dialettica stessa. L'esito adorniano e quello deleuziano sembrano perciò, fino a questo punto, del tutto op- posti: da un lato si erge lo strumento dialettico contro la contraddizione, mentre dall'al- tro si indica la via opposta, l'abolizione della dialettica, per raggiungere il medesimo fine, il dissolvimento della contraddizione.

Tuttavia, al di là di questa opposizione, esistono punti di profonda convergenza. Innanzitutto, l'idea per cui la relazione che il pensiero intrattiene con l'altro da sé resti per esso assolutamente fondamentale, poiché è ciò che lo rende più propriamente pen- siero. E' solo in virtù di questa concordanza di fondo che si determinano gli esiti diversi sopra accennati: il pensiero deve assumere o meno una forma dialettica, ma in entrambi i casi al fine di sfuggire alla propria autoreferenzialità e alla propria incapacità di pensa- re. Per Deleuze come per Adorno, l'incontro del pensiero con la materialità, con gli og- getti o con gli eventi, è la sola condizione che lo salvi dall'astrattezza e dall'ipostatizza- zione vuota in cui altrimenti cadrebbe, e la differenza sta nel fatto che mentre per Deleu- ze questo incontro deve avvenire in modo immediato, per Adorno esso passa attraverso la mediazione dialettica, non per un'esigenza del pensiero ma, al contrario, per un suo adeguamento concreto all'altro da sé.

Vi sono poi altri due punti già analizzati in precedenza che si rivelano significati- vi anche a questo riguardo. Il primo concerne il destino riservato alla dialettica. Se da un lato infatti l'abolizione di quest'ultima è immediata (Deleuze), dall'altro quest'esito non viene affatto messo in discussione, ma semplicemente guadagnato attraverso la media- zione, attuato mediante la dialettica stessa (Adorno). Ciò tuttavia non impedisce a que- st'ultimo di abbandonarla una volta che il pensiero abbia riacquisito il contatto con le

cose e la capacità di esperirle nella loro concretezza. Il «teatro della dialettica» è indub- biamente «necessario», ma anche «negativo, falso»356. La contraddizione deve perciò

cedere il posto alla differenza quando questa emerge nella sua libertà a-logica e nella sua varietà a-contraddittoria. Quando il pensiero interseca davvero la realtà molteplice, allora non c'è più posto per alcuna dialettica – sebbene permanga certamente un certo grado di divergenza tra i due filosofi, che riguarda però solo la portata veritativa della processualità dialettica, con Adorno che da un lato ne riconosce anche il carattere disve- lativo e produttivo, e Deleuze dall'altro che invece la ritiene solo falsa, illusoria, mistifi- cante.

Il secondo punto in cui emerge un'affinità sul tema del rapporto tra differenza e contraddizione concerne la relazione, riscontrata da entrambi, che lega in modo inscin- dibile e intimo la dialettica all'identità. Per Deleuze la dialettica è semplicemente un pensiero da annullare poiché è interamente incardinata sulla convalida acritica del prin- cipio di identità e dei suoi strumenti astratti: la contraddizione, la negazione, la dicoto- mia. Tutto ciò è anche il bersaglio della dialettica negativa di Adorno, che mira infatti proprio all'abolizione dell'identità intesa come principio generalizzato, dominante, che incorpora il reale e lo falsifica. E tuttavia, proprio in quanto dialettica, anche quella ne- gativa è legata alle categorie della filosofia dell'identità e la conoscenza del non identico di cui essa è capace resta in fondo ancora dialettica e identitaria finanche nel nome che dà al suo oggetto, segnato dalla determinazione negativa.

La dialettica negativa è legata, come al suo punto di partenza, alle massime categorie della filosofia dell'identità. Pertanto resta anch'essa falsa, logico-identitaria, lo stesso contro cui viene pensata. […] La conoscenza del non identico è dialettica, anche perché lei stessa identifi - ca, di più e diversamente dal pensiero identico.357

E' vero che ciò risponde all'esigenza di non offrire un'immagine determinata – daccapo reificante – del reale, ma indica anche la permanenza del pensiero filosofico all'interno di una relazione con l'oggetto di carattere ancora teoretico-gnoseologico, in- vece che etico-pratico. E' vero che per Adorno il reale è certamente non identico, ma questo è daccapo un modo troppo generico di definirlo, ancora intensamente legato alla

356 Ivi, p. 156. 357 Ivi, pp. 134-135.

supremazia del concetto. Il non identico mira in realtà ad una determinazione positiva e aperta, ogni volta determinata anche se mai esauribile. Il reale adorniano liberato dalla reificazione è perciò anche qualcosa di più rispetto alla indeterminatezza che in fondo caratterizza la non identità, qualcosa di racchiuso nel particolare, nella singolarità, nella micrologia e dunque proprio per questo anche qualcosa di positivo e di consistente in modo reale. La scommessa adorniana è dunque quella di una reciproca compenetrazione di identità e non identità: «segretamente è la non identità il telos dell'identificazione, ciò che è da salvare in lei»358. Non si tratta allora di eliminare tout court l'identità per con-

trapporle un concetto uguale e contrario, quanto piuttosto di trasformarla dall'interno, di renderla a tal punto flessibile da essere al contempo capace di conoscenza così come di immedesimarsi nella cosa, di plasmarsi pertinentemente su ogni differente. Per il pen- siero si tratta di saper dire le cose in modo determinato e tuttavia non assoluto. Questa trasformazione dell'identità non si riduce alla formalizzazione in un altro concetto gene- rico, bensì consiste in una prassi, in un atteggiamento mimetico ogni volta mosso a par- tire dal concreto, nella sua differenza e nella sua positività. Se al contrario la “determi- nazione” non identica del reale fosse immancabilmente considerata come ultima ed esclusiva possibilità per un pensiero della differenza, allora si finirebbe per sancirne in- fine proprio la reificazione, legando indissolubilmente la differenza al negativo e alla contraddizione.

Al fine di potersi relazionare con il non identico, con il differente, con ciò che trascende il meramente dato, è quindi necessario che il pensiero si liberi anche dalla dia- lettica negativa in quanto forma estrema che sancisce in ultima analisi la validità gene- rale dell'identificazione. Per entrambi i filosofi l'intimo nucleo della dialettica è costitui- to dall'identità rigida, che per questo motivo va abbandonata.

Difatti la differenza non implica il negativo e non si lascia portare sino alla contraddi - zione, se non nella misura in cui si continua a subordinarla all'identico.359

Al di là di esso e della figura entro cui costringe il reale – la contraddizione ap- punto – per Deleuze esiste una realtà già in sé differente e molteplice, che il pensiero della «rappresentazione in generale» è incapace di pensare, poiché esso consta di questi

358 Ibid.

quattro elementi incompatibili con la differenza: «l'identità nel concetto, l'opposizione nella determinazione del concetto, l'analogia nel giudizio, la somiglianza nell'oggetto». Deleuze definisce questa come la «quadruplice gogna ove solo può essere pensato come differente ciò che è identico, simile, analogo e opposto, in quanto sempre in rapporto a

un'identità concepita, a un'analogia giudicata, a un'opposizione immaginata, a una si- militudine percepita la differenza diventa oggetto di rappresentazione»360.

Ogni altra differenza, che non abbia queste radici, risulterà smisurata, non coordinata, inorganica: troppo grande o troppo piccola, non soltanto per essere pensata, ma addirittura per essere. Nel momento in cui cessa di essere pensata, la differenza si dissolve nel non-essere. Dal che si conclude che la differenza in sé resta maledetta, costretta a espiare, ovvero a essere riscat - tata sotto le specie della ragione che la rendono vitale e pensabile, facendone l'oggetto di una rappresentazione organica.361

Ma per Deleuze «la differenza è l'affermazione prima»362 che «genera il pensare

nel pensiero, giacché il pensiero pensa soltanto con la differenza, intorno a questo punto di sfondamento. La differenza, o la forma del determinabile, fa funzionare il pensiero, cioè l'intera macchina dell'indeterminato e della determinazione»363. Dunque nemmeno

la molteplicità superficiale, che pure appare nella dialettica e in qualsiasi altro tentativo di rappresentare la differenza, non può conservare «ancora e nonostante tutto la forma del negativo».

A noi sembra che il pluralismo sia un pensiero più pericoloso e affascinante, in quanto frazionare significa rovesciare. La scoperta di una pluralità di opposizioni coesistenti, in ogni campo, non è separabile da una scoperta più profonda, quella della differenza, che denuncia il

negativo e la stessa opposizione come apparenze rispetto al campo problematico di una molte- plicità positiva. Non si pluralizza l'opposizione senza abbandonarne il campo, ed entrare nelle

caverne della differenza che fanno risuonare la loro positività pura, e respingono l'opposizione come un cono d'ombra visto soltanto dal di fuori.364

360 Ivi, p. 180. Su questa caratterizzazione del mondo della rappresentazione si esprime in modo del tutto analogo anche Michel Foucault (1966), pp. 61-92.

361 G. Deleuze, 1968, tr. it. p. 337. 362 Ivi, p. 314.

363 Ivi, p. 354.

Adorno al contrario ritiene che tale affermazione del differente sia precisamente ciò che ancora manca al reale, ciò che in una realtà reificata sia di fatto impossibile che appaia se non sotto il segno della contraddizione, ossia come differenza ancora subordi- nata al negativo. La contraddizione diviene allora l'indice del reale differente che si tro- verebbe al di là di essa, e con ciò costituisce un tratto fondamentale e rivelativo dell'on- tologia adorniana, risulta essere il vero testimone dell'aspetto che assumerebbero le cose in quella «coesistenza del diverso» che Adorno prefigura come utopia, senza tuttavia poterla né volerla rappresentare in modo determinato.

Oltre il pensiero identificante, oltre la dialettica, oltre la contraddizione e oltre la negazione ci sarebbe allora un reale tanto molteplice quanto positivo, in accordo con Deleuze. In esso, i canoni dell'identico, dello stesso, del simile e dell'analogo non sareb- bero abbandonati semplicemente e in modo assoluto, ma dovrebbero subire un'intima trasformazione. Per Adorno, il non identico, il differente, il dissimile sarebbero il vero scopo che un'identità divenuta flessibile e aperta troverebbe in se stessa: l'istanza che muove il pensiero verso l'identità non andrebbe dissolta, ma al contrario praticata final- mente nei confronti del reale. Per Deleuze «l'identico, lo stesso o il simile» non dovreb- bero essere «posti a vario titolo come primi», ma «esposti come seconda potenza, e tan- to più potenti, in quanto ruotano allora attorno alla differenza e si dicono della differen- za in sé. Allora effettivamente tutto cambia»365, poiché in tal modo l'identico e lo stesso

eviterebbero di centrare e ripercorrere «il monocentrismo dei cerchi della dialettica he- geliana»366, evitando con ciò anche il ritorno su di sé, la propria riconferma astratta. E

questo è in fondo anche lo scopo di Adorno: la sua logica dialettica è negativa e «disgre- gativa della figura armata e reificata dei concetti»367. Decentrare è non identificare, ossia

dare una determinazione alle cose, ma in modo che questa non sia ridondante, non sia assoluta.

Il solo vero scarto finora irriducibile tra Adorno e Deleuze, rivelato dal confronto dei ruoli opposti giocati dalla contraddizione, consiste nel fatto che mentre per Deleuze il differente non ha bisogno di essere rivelato mediatamente, ma semplicemente c'è già in tutta la sua molteplicità irriducibile, per Adorno esso dovrebbe invece esserci, è ciò che manca nella sua pienezza. Quella di Deleuze sarebbe dunque un'ontologia del diffe-

365 Ivi, p. 384. 366 Ivi, p. 339.

rente a tutti gli effetti, mentre l'insistenza adorniana sul carattere non ancora presente,

mediato e utopico della conciliazione farebbe pensare piuttosto a un'ontologia del possi-

bile, di contro a quella identitaria e reificata dell'esistente già dato.