• Non ci sono risultati.

Fabbrica del desiderio e industria culturale Desiderio e repressione

Il pensiero e la sua origine

3. Fabbrica del desiderio e industria culturale Desiderio e repressione

Industria culturale e fabbrica del desiderio acquisiscono una così peculiare e

perspicua importanza in relazione al tema del desiderio poiché esplicitano il legame che quest'ultimo intrattiene con la società, entro cui si definiscono ed emergono proprio quelle caratteristiche appena considerate. E' in altri termini necessario andare oltre la de- lineazione delle caratteristiche che Adorno e Deleuze parallelamente riscontrano, per scorgere il vero punto di congiunzione a partire da cui quelle si articolano, ossia il carat- tere imprescindibilmente sociale che il desiderio finisce per assumere e che emerge in modo così chiaro e lampante proprio nella produzione culturale.

I presupposti da cui partono i due pensatori sono naturalmente divergenti: da un lato si colloca la tesi deleuziana, secondo cui il desiderio è la matrice della realtà stessa, dall'altra quella adorniana, per cui esso è il padre del pensiero. La connotazione stretta- mente ontologica che ne dà Deleuze lo obbliga a inscrivere nel desiderio anche quei tratti sociali repressivi e ipostatizzanti che ne bloccano il flusso: il desiderio è, come precedentemente sottolineato, tanto il rimosso quanto il rimuovente, poiché è esso stes- so a volere, in qualche modo, la propria repressione, attuandola per mezzo della conti- nua strutturazione entro uno schema, un codice, un ordinamento sociale. In fondo per Deleuze «non ci sono che desiderio e ambienti, campi, forme di gregarietà»307.

Il problema del socius è sempre stato questo: codificare i flussi del desiderio, iscriverli, registrarli, fare in modo che nessun flusso scorra senza essere tamponato, canalizzato, regola- to.308

Adorno concorda sulla tesi che afferma il carattere di repressività immanente al desiderio: questo, infatti, non è il portatore di alcuna presunta purezza o bontà originaria che sarebbe solo successivamente compromessa ad opera della ragione, ma al contrario violenza e repressione gli ineriscono in modo essenziale. Egli tuttavia, designando il de- siderio come padre del pensiero, di fatto può scorporare i due termini caratterizzando il desiderio per lo più come “parte debole”, ossia come represso, come il rimosso da parte del pensiero e della società, che assumono dunque su se stessi anche l'eredità del carat-

307 G. Deleuze – F. Guattari, 1972, tr. it. p. 327. 308 Ivi, p. 35.

tere repressivo309. Per nessuno dei due pensatori l'azione del desiderio resta insomma in-

differente: esso infatti sembra non poter prescindere dalla repressione sociale, da un lato perché la dispiega attivamente nella forma di un socius (dunque come stratificazione, territorializzazione, codificazione), dall'altro perché costituisce l'origine di una società che, per esistere, ha l'esigenza primaria di prenderne radicalmente le distanze, rimuo- vendolo e reprimendolo: «il desiderio non dev'essere il padre del pensiero. Ma ciò deri- va dal fatto che ogni potere è legato all'acuta coscienza della propria impotenza nei con- fronti della natura fisica»310.

In altri termini, tanto per Adorno quanto per Deleuze, la rimozione del desiderio passa sempre attraverso una forma sociale che la attui in modo necessario. La prima sot- tolineatura va dunque a questo carattere apparentemente imprescindibile di una qualche forma e di un certo grado di repressione e di reificazione, sul quale sembrano convenire entrambi. Nonostante infatti elaborino strategie di fuoriuscita da tale contesto, resta tut- tavia il fatto che se per Deleuze il desiderio è la matrice ontologica del reale, la socialità ne costituisce l'ordinamento altrettanto ontologico e irrinunciabile (anche se certamente entro un'ontologia “fluida” della differenza, variabile, indefinibile una volta per tutte ma definibile solo di volta in volta). Altrettanto Adorno, nel senso che, per poter nascere, il pensiero e la società non avevano altra via se non quella della differenziazione radicale, rendendo così necessario esattamente il carattere che li riprecipita nella natura311.

In secondo luogo, va sottolineato il conseguente potenziale rivoluzionario e dis- solutore del desiderio, contro il quale quegli stessi apparati di dominio e di governo ge- nerati, direttamente o indirettamente, da esso devono reprimerlo assumendone il con- trollo sociale. E' dunque solo ora che il desiderio può davvero divenire sociale, ossia: socializzato, investito socialmente, assorbito e controllato da un'istituzione, ricondotto alle ragioni e ai meccanismi in base a cui questa funziona. In una parola: neutralizzato.

309 Il tratto che secondo Adorno è comune a pensiero e società occidentali e che permette di trattarli qui come un unicum, di interpretarli come affini e complementari, è la ratio che li governa, ossia la ragio- ne dispositiva, calcolante, sistemica. Pensiero e società sono da tal punto di vista la medesima struttura e rappresentano lo stesso atto violento di presa di distanza dalla natura che, proprio nella sua brutalità dicotomica, riproduce la natura medesima – e non a caso essi sono designati proprio come “nature se- conde”. Questa una delle tesi centrali di Dialettica dell'illuminismo che emerge, per quanto riguarda la naturalità del pensiero, dal seguente passo: «Il pensiero, nel cui meccanismo coattivo la natura si ri- flette e si perpetua, riflette, proprio in virtù della sua coerenza irresistibile, anche se stesso come natu - ra immemore di sé, come meccanismo coattivo» (M. Horkheimer – Th.W. Adorno, 1947, tr. it. p. 46). Riguardo invece alla tesi della naturalità immanente alla società, questa è di certo presente nel testo ma mai formulata esplicitamente.

310 Ivi, p. 64.

Qui si assiste a un vero e proprio rovesciamento della genesi, in cui era la ratio ad esse- re indelebilmente segnata dal particolarismo, il pensiero orientato dal bisogno, la società attraversata da un flusso desiderante.

L'industria culturale nasce e si struttura in base a queste premesse e consiste nel- l'apparato della produzione culturale da parte della società. Quello che solitamente è percepito come l'ambito “spirituale” e individuale per eccellenza – la cultura appunto – creato all'interno della società ma con la capacità di trascenderla potenzialmente e intel- lettualmente, viene qui ricondotto a una produzione, tra le altre, del tutto asservita alle esigenze sociali, che impongono uniformità, controllo, prevedibilità. L'illuminismo di- viene così mistificazione di massa312. In altri termini, la cultura non sfugge a quella che

Adorno definisce come l'incapacità di fare esperienza che l'avvento della società porta inevitabilmente con sé. La distorsione del rapporto tra soggetto e oggetto, ossia il “bloc- co” della possibilità di esperire l'oggetto da parte del soggetto, coincide infatti con la so- cietà stessa. Adorno e Horkheimer espongono questo punto in riferimento all'opera di costituzione della soggettività: questa infatti presuppone un distacco dall'oggetto, «pre- messa dell'astrazione», possibile innanzitutto come «distacco dalla cosa, a cui il padrone perviene mediante il servitore»313. L'interruzione del rapporto vivo tra uomo e cosa è

dunque possibile solo in riferimento all'intersoggettività, grazie al costituirsi di una so- cietà gerarchizzata che consente la costituzione di un soggetto in grado di dominare la natura solo perché è anche in grado di dominare sull'uomo. «L'emergere del soggetto è pagato con il riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti»314. La società,

distinguendo tra padrone e lavoratore, sancisce proprio l'interruzione del rapporto con la cosa: il padrone non ha più alcun rapporto diretto con essa, mentre il servitore conserva la relazione, ma solo come irrimediabilmente distorta dal lavoro. L'episodio di Ulisse che passa davanti alle Sirene è emblematico a questo riguardo. Egli infatti, in quanto pa- drone, può udire il canto, ma si fa legare poiché sa che non potrebbe resistere al potente richiamo della natura e del piacere. In altri termini, egli può intrattenere un rapporto con la natura solo rinunciandovi preventivamente, solo neutralizzandola. I compagni invece, prossimi alla natura in quanto lavoratori, non devono in alcun modo udire il canto e per questo vengono loro tappate le orecchie con la cera, per indurli a proseguire rettamente,

312 Ivi, p. 126. 313 Ivi, p. 21. 314 Ivi, p. 17.

a non deviare nell'opera della civilizzazione. «La regressione delle masse, oggi, è l'inca- pacità di udire con le proprie orecchie qualcosa che non sia ancora stato udito, di toccare con le proprie mani qualcosa che non sia ancora stato toccato»315.

Chi vuol durare e sussistere, non deve porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile, e può farlo solo in quanto non è in grado di ascoltare. E' ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato. L'impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato – con rabbiosa amarezza – in ulte - riore sforzo. Essi diventano pratici.316

L'impossibilità di entrare in contatto con la cosa stessa è dunque del tutto imma- nente alla società, senza questo carattere essa non potrebbe nascere né continuare a so- pravvivere. E' dunque necessario non ammettere alcuno spazio di autentica diversione rispetto a tale schema, alcuna apertura del rapporto diretto con la natura e con la cosa, alcuna deviazione rispetto alla traiettoria tracciata dalla civiltà: deve insomma essere te- nuto assolutamente fermo il divieto rigido di fare esperienza autentica della cosa. La cultura non solo non può sfuggire a ciò, ma al contrario deve promuovere attivamente la repressione del nuovo e dell'incongruo, nonché la neutralizzazione di qualsiasi piacere razionalizzandolo e rendendolo un prodotto, una merce di scambio – laddove «la verità misconosciuta di ogni cultura» risiederebbe invece, secondo Adorno e Horkheimer, nel compimento dell'«anamnesi della natura nel soggetto»317.

Tutto assume così «un'aria di somiglianza», e anche «il film, la radio e i settima- nali costituiscono, nel loro insieme, un sistema»318 che non abolisce le differenze, ma

che le inculca e le diffonde artificialmente: «per tutti è previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire»319 e tutto ciò che resta è in fondo «l'obbediente accettazione della gerar-

chia sociale»320.

L'industria culturale sembra dunque assumere una forma molto simile a quella del pensiero identificante, e d'altra parte non potrebbe che esser così dal momento che anche la società e i suoi “prodotti culturali” sono propaggini della ratio, del pensiero

315 Ivi, p. 44. 316 Ivi, p. 41. 317 Ivi, p. 48. 318 Ivi, p. 126. 319 Ivi, p. 129. 320 Ivi, p. 138.

dispositivo e identificante. Anch'essa costituisce infatti un sistema chiuso, che «si ac- contenta della riproduzione del sempre uguale» e in cui «ciò che oppone resistenza può sopravvivere solo nella misura in cui si inserisce» e si lascia dominare321.

Altro tratto comune con il pensiero identificante è il tradimento della pretesa di cui si fa portatrice: se infatti l'industria culturale pretende di offrire piacere, divertimen- to, svago ed estraneazione rispetto alla compagine sociale, in realtà procura solo una più profonda e completa integrazione entro quest'ultima, riproponendo «come paradiso la stessa realtà della vita quotidiana»322.

Ma l'affinità originaria del mondo degli affari e di quello dell'amusement si rivela nel si- gnificato proprio di quest'ultimo: che non è altro che l'apologia della società. Divertirsi significa essere d'accordo. […] Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare la soffe- renza anche là dove viene esposta e messa in mostra. Alla base del divertimento c'è un senti- mento di impotenza. Esso è, effettivamente, una fuga, ma non già, come pretende di essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall'ultima velleità di resistenza che essa può avere ancora lasciato sopravvivere negli individui. La liberazione promessa dall'amusement è quella dal pensiero come negazione.323

L'industria culturale è dunque anche inevitabilmente tautologica, ripetitiva e apologetica dell'esistente, rispondente ai medesimi principi della ragione: l'identità, l'u- niformità, la coerenza, la predisposizione schematizzata dell'esperienza. Essa ne assorbe dunque anche il carattere fondamentale e precipuo, l'idealismo.

Per il consumatore non rimane più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione. La prosaica arte per il popolo realizza quell'idealismo fan- tastico che appariva eccessivo e insostituibile a quello critico di Kant.324

Ricapitolando dunque, si può affermare che l'industria culturale rappresenta l'ambito in cui emerge l'intreccio dialettico di desiderio e società. Essa nasce infatti come apparato di contenimento del desiderio da parte di una società che ai suoi albori non potrebbe costituirsi altrimenti che nel governo della natura sensibile ed affascinante

321 Ivi, p. 139. 322 Ivi, p. 151. 323 Ivi, pp. 154-155. 324 Ivi, p. 131.

per un soggetto che, costantemente costretto dall'autoconservazione a differire il piace- re, scorge invece in essa l'immediata soddisfazione del bisogno. Origine e senso dell'in- dustria culturale sono dunque quelli di funzionare come argine del desiderio rivoluzio- nario e distruttore della società, riconducendolo entro coordinate di prevedibilità e di precomprensione. E' in tal modo che il desiderio acquista una valenza eminentemente sociale, che gli sarebbe in realtà del tutto estrinseca. Se poi, da un lato, è certamente vero che Adorno scorge in questo processo una forte cogenza, è altrettanto vero che una svolta critica può venire solo dal recupero della naturalità del pensiero e della società, per cui anche la cultura potrà finalmente e innanzitutto determinarsi come compimento dell'anamnesi di quell'origine. E' quindi daccapo il desiderio a costituire il perno della critica, e questa, proprio in quanto tale, costituirebbe uno sgretolamento di quell'«ideali- smo fantastico» messo in atto dall'industria culturale, e in generale dall'intero schemati- smo della produzione, capace di creare qualsiasi cosa purché questa sia intrinsecamente uguale al già esistente. Lo specifico della critica alla socializzazione del desiderio rac- chiude dunque già potenzialmente tutto il senso del passaggio al materialismo, prefigu- rato da Adorno in Dialettica negativa semplicemente come una vera relazione con l'og- getto, nella sua alterità ma anche nel suo aspetto minuto, disadorno, incongruo.

La condizione conciliata non annetterebbe l'estraneo con imperialismo filosofico, ma sarebbe felice se esso pur nella vicinanza concessa restasse lontano e diverso, oltre l'eterogeneo e il proprio.325

L'industria culturale di Adorno è tuttavia in qualche modo accostabile alla fab- brica del desiderio di Deleuze? Ancora una volta vi sono due risposte a questa domanda. In un primo senso si può certamente dire che non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra. Quella che Deleuze e Guattari tematizzano in L'anti-Edipo come “fabbrica del desiderio” non ha infatti nulla a che vedere con un apparato sociale estrinseco, rispetto al desiderio medesimo, di produzione di merci. Essa insomma non consiste minimamen- te nella riconduzione e nella neutralizzazione del desiderio entro la compagine sociale. Da questo punto di vista, sarebbe piuttosto un altro il “corrispettivo” dell'industria cultu- rale che si potrebbe trovare entro l'opera dei due filosofi francesi, ossia il riferimento al- l'imponente apparato repressivo rappresentato dalla psicoanalisi. Questa infatti, così

com'è presentata nel testo, ricomprende in sé tutti i caratteri tipici dell'industria cultura- le, dalla produzione meramente teatrale, che viene ad assumere l'inconscio, sino all'idea- lismo fantastico; dalla funzione di repressione sociale alla ripetitività del sempre uguale; dalla neutralizzazione del desiderio, per mezzo del suo dissolvimento nelle coordinate della famiglia nucleare, sino alla rimozione del desiderio stesso e della sua carica criti- ca. Secondo Deleuze e Guattari «il desiderio non è mai ingannato. L'interesse può essere ingannato, misconosciuto o tradito, non il desiderio»326, e dunque l'industria culturale,

nei termini in cui la caratterizzano Horkheimer e Adorno, sarebbe di fatto impossibile. Tuttavia vi è anche un aspetto per cui fabbrica del desiderio e industria culturale possono essere comparate e consiste nella centralità del carattere sociale, inteso come fonte della repressione, che entrambe presuppongono al di sotto del funzionamento del desiderio. Per Deleuze questo intreccio di società e desiderio è inscindibile, per Adorno esso si è invece determinato originariamente come necessario, ma di una necessità che non è definitiva, che dunque può esser tolta e superata; entrambi però convengono sul “dato” del nesso intrinseco tra socialità ed essenzialità della repressione: è a partire da qui che, sebbene la fabbrica del desiderio venga intesa da Deleuze come una produzione del reale genuina e innocente, in tutte le sue molteplici forme, è altrettanto vero che en- tro questa prospettiva a-problematica si installano tutte quelle linee di sedimentazione, di stratificazione e di ipostatizzazione che consistono nella repressione stessa. Dunque la condizione dell'industria culturale e quella della fabbrica del desiderio è la medesima: entrambe producono da se stesse la repressione e perpetuano autonomamente il dominio sugli uomini. La prima non dispone di orizzonti trascendenti su cui riversare l'origina- rietà di questa relazione reificata nei confronti della vita, la seconda funge da apparato repressivo coadiuvante per una società così affamata di dominio da dover sfruttare a tal fine ogni sua produzione, convertendola a questa funzione. Tuttavia sembra che né De- leuze né Adorno possano prescindere da un punto comune, ossia da un pensiero che tro- va intrinsecamente presenti nella società, in un modo o nell'altro, le radici della repres- sione sulla società medesima.

IV