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La consapevolezza che in nessun caso l’occhio cinematografico è neutro e imparziale troverà credito in diverse teorie e pratiche, tra le quali spicca l’insieme di testi pubblicati da Comolli tra il 1971 e il 1972, riuniti sotto il titolo di Tecnica e ideologia. Negli anni Settanta si riaprirà così un’antica questione cinematografica, che ripenserà il realismo e la pratica documentaria testandola contro i mezzi d’informazione, che reclamano

137 T. Waugh, Men cannot act before…, cit., p. 145. Lo studioso dichiara «the great

sensitivity of “spontaneous” material such as this in Spanish Earth confirms Ivens as the heir of Vertov and a precursor of direct cinema».

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l’oggettività e trasparenza dell’immagine alimentando uno scontro tuttora molto vivace, ingarbugliato dalle tecnologie digitali139.

L’ipotesi che la tecnica non sia neutra, che la macchina da presa sia «un apparecchio che diffonde ideologia borghese prima ancora di diffondere checchessia»140 è avanzata da Marcellin Pleynet e Jean Thibaudeau dalle

pagine della rivista francese “Cinéthique”, dando fuoco alle polveri di un vivace dibattito che coinvolgerà i “Cahiers du cinéma”. Il cinema prolungherebbe la rappresentazione dell’umanesimo quattrocentesco, e quindi l’ideologia di quel mondo borghese. Il primo passo verso un’effettiva smarcatura dal cinema borghese e la sua impressione di realtà, è mostrare, rendere evidente il lavoro cinematografico: il film deve dichiarare la sua natura costruita, artificiale, senza occultare il lavoro e le tecniche che lo rendono possibile. La posizione assunta da “Cinéthique”– attraverso i contributi di Gerard Leblanc e Jean-Paul Fargier – propende a una visione manicheista: il cinema o è iscritto nell’ideologia borghese o ne è fuori; la politicità del cinema «si misura sulla sua capacità di rompere il monopolio dell’ideologia borghese […] e far lievitare una conoscenza che consenta di far i conti con i processi realmente all’opera» da cui l’esistenza di due opzioni «un cinema idealista, che si pone come rispecchiamento della realtà e che cancella il lavoro di cui è il frutto» e uno «materialista e dialettico, che dice tutto di se stesso, esibisce i propri materiali, inscrive in sé le proprie contraddizioni»141.

139 Cfr. M. J. Mondzain, L’image peut-elle tuer? Autore che ha offerto interessanti riflessioni

sulla natura simulacrale della comunicazione è Jean Baudrillard; dei numerosi testi dedicati all’argomento, Cfr. almeno Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, e Violenza del virtuale e realtà integrale, Le Monnier, Firenze 2008.

140 Marcellin Pleynet citato in F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1960, Bompiani, Milano

2002, p. 205. Casetti ricostruisce il panorama e le linee del dibattito inaugurato dalla rivista francese “Cinéthique” alle pp. 205-216.

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I “Cahiers du cinéma” rispondono alle sollecitazioni di Pleynet in una serie di articoli a firma di Jean-Louis Comolli e Jean Narboni. Secondo gli autori esiste un ventaglio più ampio di possibilità; premesso che ogni film rappresenta sempre un’immagine predeterminata del mondo, ci sono film che si allineano a una tale ideologia senza esitazioni, così come ci sono quelli che la rifiutano in toto collocandosi su un terreno altro; ma ci sono anche i film che la combattono in modo mediato, senza per questo risultare meno efficaci. È appunto il caso di quel cinema che denuncia il sistema di rappresentazione imposto dall’ideologia attraverso un ritorno su se stesso in quanto strumento di rappresentazione.142

Esistono così diversi livelli di adesione o dissenso tra il cinema e l’ideologia dominante, come esistono vari livelli su cui il film esercita la sua critica all’ideologia: dalla critica di un solo elemento (ad esempio la forma del racconto) all’unione di un lavoro sulla rappresentazione e l’inserimento di tematiche politiche. Importanti implicazioni avranno quei film che «la criticano adottando dei procedimenti che segnano comunque dei punti di crisi»143: e qui Casetti propone l’esempio delle tecniche del

“cinema diretto”. Infatti – come sarà ampiamente discusso nel prossimo paragrafo – la messa a punto di una tecnica capace di garantire la sincronizzazione di suono e immagine, e la concomitante affermazione della presa diretta nel dominio televisivo, rappresentano uno snodo critico nella storia del cinema. Restando ancora nell’ambito del dibattito sui rapporti tra tecnica e ideologia, è d’obbligo accennare alla riflessione condotta su questi temi da Comolli negli anni compresi tra il 1971 e il 1972, con una serie di articoli pubblicati dai “Cahiers” poi confluiti nella citata raccolta Tecnica e Ideologia. E lo stesso autore, in un articolo datato

142 Ivi, pp. 209-210. 143 Ivi, p. 210.

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1969 – Le détour par le direct144 – aveva affrontato le novità formali introdotte dalle innovazioni tecnologiche in un’ampia rete connettiva di fenomeni di diversa origine. Il punto nevralgico della riflessione sui rapporti tra realtà e rappresentazione ruota attorno a due fasi della storia del cinema, l’avvento del sonoro e la ripresa della profondità di campo negli anni Quaranta dopo un’eclisse di circa venti anni. L’ipotesi che guida l’analisi di Comolli è che «una società non è altro che il suo cammino verso

la rappresentazione», quindi la variazione delle tecniche impiegate non è

avulsa da «[a]gli sfasamenti, [a]gli aggiustamenti e [al]le sistemazioni che una configurazione sociale attua per rappresentarsi, cioè allo stesso tempo per padroneggiarsi, identificarsi e prodursi essa stessa nella sua rappresentazione»145. Quindi il cinema, e il suo effetto ideologico, non è

riducibile alla sola macchina da presa, ma è da considerare il funzionamento della “macchina cinema” in quanto “macchina sociale”, l’ideologia del visibile e quella dell’invisibile. La crescente sete di visibilità si lega al desiderio di espansione e possesso del visibile in una società che equipara il visibile al reale; la macchina cinema intreccia quindi una serie di elementi che appartengono alla sfera economica, ideologica e tecnologica. Ne consegue che ogni figura stilistica, ogni innovazione tecnica, e ogni combinazione di questi elementi, risponde a una domanda ideologica sorta in seno alla società, verso cui la tecnica ha indirizzato i suoi sforzi per imporre una data immagine su altre immagini possibili. Se i presupposti della rappresentazione cinematografica borghese poggiano sull’impressione di realtà e la trasparenza, con un conseguente occultamento del lavoro cinematografico e la cancellazione dei tagli di montaggio, una delle prime mosse di decostruzione e denuncia dell’ideologia di cui è impregnato il film sarà l’esibizione del lavoro e del

144 J. L. Comolli, Le détour par le direct, “Cahiers du cinéma”, n. 209 e n. 211, 1969. 145 Id., Tecnica e Ideologia, Pratiche, Parma 1982, p. 11. Il corsivo è dell’autore.

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montaggio, quindi della natura artificiale del film, senza deroghe all’illusione e all’identificazione di realtà e rappresentazione, ottenuta grazie a una serie di accecamenti. Ogni immagine è trafitta dal «disinganno strutturante» che opera in duplice modo «dal proprio interno in quanto macchina di simulazione, riproduzione meccanica e mortuaria del vivente; e anche dall’esterno in quanto essa è solo un’immagine e non tutte, e ciò che contiene non sarà mai altro che l’indizio presente di un’assenza, della mancanza di un’altra immagine». Questo stesso disinganno può essere ribaltato in potenza poiché «tiene tesa la forza offensiva della rappresentazione cinematografica e le permette di agire contro le rappresentazioni appaganti, rassicuranti, mistificanti dell’ideologia». Grazie a questo lavoro la rappresentazione cinematografica può eludere l’accumulazione di «visibile su visibile» e può «in taluni rari bagliori, provocare al nostro sguardo proprio quell’accecamento che è al cuore di questo visibile»146.

Vertov aveva proposto come antidoto alla strisciante ideologia borghese insita nella rappresentazione cinematografica borghese (identificata con il film di finzione), l’esibizione del lavoro di costruzione del film. Aveva affrontato, seppur superficialmente, il problema della tecnica e denunciato la perversione della macchina da presa per mano della borghesia. L’intenzione, lo abbiamo visto, era restituire al cinema la sua vocazione primigenia – cogliere la vita sul fatto. Ma la vita colta sul fatto è sempre – a parere di Comolli, come anche di Rancière – l’organizzazione del sensibile secondo un’assegnazione di posti e ruoli predefinita dal potere; quindi ogni immagine porta inscritta una messa in scena. Tutto ciò non inficia il progetto vertoviano, ne aiuta anzi a cogliere la complessità e la ricchezza teorica.

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Infine, non è superfluo ricordare come negli stessi anni in cui infuria il dibattito su tecnica, ideologia e politicità del cinema, sono le esperienze dell’avanguardia a essere setacciate e indagate con ammirazione e dedizione: in queste forme è rintracciata l’articolazione più profonda, efficace e fondata dei legami tra politica, estetica e tecnologia.

Se provassimo ad arricchire il discorso di Comolli, potremmo aggiungere come – ed è l’esempio della svolta del cinema diretto – saranno gli stessi cineasti a impegnarsi in ricerche tecniche più consone a esprimere la loro visione del mondo, e quindi opporre la loro ideologia a quella dominante. Vedremo come nel paragrafo successivo.