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1.2 Partage du monde, partage du regard

1.3.2 Far credere, o dubitare senza smettere di credere

La scelta di far vedere è implicita nella scelta di cosa far vedere, e in questo gesto dell’autore è inscritta la richiesta di credere all’immagine. Credenza che non si fonda sulla verità o su un atto di fede misterica, ma si costruisce sulle diverse modalità di guardare il mondo. «La verità dell’immagine dipende dalla verità dello sguardo che attraverso di essa si apporta al reale»55, ed esistono numerose modalità di sguardo che

fondano la loro possibilità di verità non su un significato preparato ed espresso attraverso l’immagine, ma sulla responsabilità del produttore delle immagini stesse, che compone un rapporto di credenza, una messa in

53 M. J. Mondzain, Images…, cit, p. 59. 54 Ivi, p. 285.

55 D. Dottorini (a cura di), Dare credito allo sguardo. Conversazione con Marie-José

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situazione del credere, una credibilizzazione dello sguardo che deve essere condivisa da chi guarda le immagini.56

L’immagine non ha una verità in sé, ma non è un’entità neutra perché non è neutro il gesto che la crea e immette in un regime di credenza e fiducia, in un contratto tra il creatore dell’immagine e chi la guarda/riceve in dono:

non c’è un’immagine vera, ma c’è una verità dell’immagine, e la verità dell’immagine sta nel fatto che essa non appartiene né al vero né al falso, ma appartiene ad una zona di indeterminazione, di indecidibilità, di fragilità, di variabilità, di modo tale che la verità dell’immagine non dipende dal suo contenuto o dalla sua relazione con il reale, ma è verità perché è vera la relazione con qualcos’altro da se stessa.57

L’assillo sulla verità e autenticità dell’immagine è consustanziale all’avvento delle immagini tecnologicamente riprodotte, legate a un tasso variabile di realismo – nella versione fisica, ontologica o socialista58 – che

si complicherà vertiginosamente a cavallo dagli anni Cinquanta e Sessanta, con la diffusione del cinema diretto nelle sue diramazioni.

La pratica cinematografica è retta da uno sguardo etico, da una precisa responsabilità verso il mondo e verso lo spettatore: «non si filma senza amore, senza desiderio, senza inconscio, senza corpo; ma nemmeno senza consapevolezza, senza morale, senza calcolo, senza gusti e disgusti»59.

Il problema si sposta dal credere non all’immagine o a ciò che rappresenta, ma allo sguardo che si è posato su un frammento di realtà e ha offerto ad

56 Ivi, p. 11. 57 Ivi, p. 10.

58 La linea del realismo fisico è esemplificata dalla proposta teorica di Siegfried Kracauer;

quella del realismo ontologico trova il suo padre spirituale in André Bazin, mentre il realismo socialista ha il suo nume tutelare in Andrej Ždanov. Cfr. S. Kracauer, Film.

Ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano, 1962. A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id., Che cosa è il cinema? Garzanti, Milano 1999; A. Ždanov, Arte e socialismo, Cooperativa editrice nuova cultura, Milano 1970.

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altri sguardi questo frammento. La credenza, come voleva Deleuze, è credenza nel legame tra uomo e mondo, così com’è senza anelito alla trasformazione. Una credenza che soppianta il sapere e l’illusione, sostituendo al cinema classico come costruttore di mondi illusori un cinema moderno capace di restituire credenza nel mondo, ricostituendo in profondità la rottura del legame tra uomo e mondo.

Ma, credere nel mondo, e basta? Perché la necessità di credere nel mondo? Secondo Deleuze è una necessità che travalica qualsiasi discorso religioso, è un bisogno connaturato all’uomo, al pari dell’aria che gli consente di respirare, «nella nostra universale schizofrenia, abbiamo bisogno di

ragioni per credere in questo mondo»60. Il cinema può restituirci la credenza nel mondo, senza radicare in un aldilà o al di qua religioso ma radicando la credenza nel corpo, e nelle relazioni tra i corpi.

Un’altra interpretazione della credenza è quella fornita dal filosofo spagnolo Ortega y Gasset, nell’ambito di una distinzione tra idee e credenze, credenza e dubbio. La credenza è qualcosa in cui si sta, mentre l’idea si sostiene. Quasi ci fosse un fondo irrazionale o istintivo che ci fa stare nella credenza, mentre le idee (di cui pure la credenza sarebbe un genere, idee-credenze le chiama Ortega y Gasset) si producono, discutono e sostengono attraverso un moto dell’intelletto. Mentre «la nostra relazione [con le credenze] consiste nel… contare su di esse, sempre, senza pausa»61. Le credenze ci ancorano al mondo, sono la nostra

interpretazione della realtà a prescindere dalla loro veridicità: «Le credenze sono la terra ferma su cui ci affanniamo». La metafora di Ortega y Gasset presenta la credenza come un bisogno sotterraneo e fondamentale dell’uomo, non troppo lontano quindi da Deleuze e la ostinata necessità di riconquistare la credenza nel mondo.

60 G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 192.

61 J. Ortega y Gasset, Idee e credenze, in Id., Aurora della ragione storica, SugarCo, Carnago

43 Come si relazionano dubbio e credenza?

Il dubbio […] è un modo della credenza e appartiene allo stesso strato di questa nell'architettura della vita. Anche nel dubbio si sta. Soltanto che in questo caso lo stare ha un carattere terribile. Nel dubbio si sta come si sta in un abisso, cioè, cadendo. E', quindi, la negazione della stabilità. All'improvviso sentiamo che sotto i nostri piedi cede la fermezza terrestre e ci pare di cadere, cadere nel vuoto […] Viene ad essere come la morte nella vita, come assistere all'annullamento della nostra propria esistenza. […] La differenza tra fede e dubbio non consiste in un credere. Il dubbio non è un "non credere" di fronte al credere, né è un "credere che non" di fronte a un "credere che sì". L'elemento differenziale sta in ciò che si crede. La fede crede che Dio esista o che Dio non esista. Ci pone, quindi, in una realtà, positiva o "negativa", ma inequivoca, e, pertanto, stando in essa ci sentiamo collocati in qualche cosa di stabile62.

Il dubbio è un modo della credenza, ma è il luogo dell’instabilità, dell’incedere barcollante, o meglio dell’essere travolti dai marosi. Il dubbio si esercita tra due credenze antagoniste, e l’elezione di una a scapito dell’altra sarà possibile solo grazie all’uso dell’intelletto. In questo processo entrano in gioco le idee: intervengono nei vuoti delle nostre credenze e dissolvendo le ambiguità.

Il filosofo spagnolo ha un’evidente concezione negativa del dubbio, pur riconoscendogli una presenza e una partecipazione nella vita dell’uomo di uguale peso alla credenza. È perciò tanto più interessante notare come l’esperienza cinematografica si dibatta tra credenza e dubbio.

Comolli intravede proprio nella capacità di generare il dubbio l’atto più potente dell’immagine cinematografica:

credere nella realtà del mondo attraverso le sue rappresentazioni filmiche era caricarla di un dubbio. Credere, non credere, non credere più, credere malgrado tutto ciò che smentisce il credere […]. Per essere spettatore, bisogna accettare di credere in ciò che si vede; e per esserlo ancora di più, bisognerebbe cominciare a dubitare, senza smettere di credere.63

62 Ivi, p. 244.

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Il movimento di credenza e dubbio definisce la posizione dello spettatore e la relazione tra film e spettatore.

La dialettica vitale del cinema coinvolge la “doppia” credenza dello spettatore, che può «credere e non credere al mondo filmato, e, forse, preferirgli il film, ma al tempo stesso e con lo stesso movimento, davanti al mondo filmato, desiderare di credere che sia il mondo a garantire il film e non il contrario»64. Questo complesso e delicato movimento tra credenza e

dubbio fonda e garantisce la relazione tra il film e lo spettatore:

La croyance du spectateur de cinéma n’est jamais fanatique ou absolue. Il se pose des questions sur le pourquoi du comment. Ce travail du doute, qui nourrit la croyance, la perfore et la rend friable, rend la relativité des choses perceptibles. Là réside le début de la pensée critique 65.

C’è una sostanziale differenza tra la credenza attivata dal cinema di finzione e quella richiesta dal documentario. Infatti, mentre per il primo il “codice d’accesso” è la convenzione del falso, nel cinema documentario opera la convenzione opposta: «il film è voluto e ordinato come vero, autentico, onesto, fedele, “obiettivo”»66.

Nel caso del documentario sono filmati

les sujets dans le tissu conjoint de leur réel et de leurs fictions. […] ce sont les corps filmés qui occupent la presque totalité du champ fictionnel. Il revient au documentariste de trouver la place la plus juste pour accueillir ce qui constitue le régime de croyance des sujets filmés au cœur des expériences réelles qu’ils traversent.67

Lo spettatore di cinema documentario oscilla tra credere e dubitare tanto della realtà rappresentata quanto della realtà della rappresentazione: «il

64 Ivi, p. 73.

65 Id., Eloge d’un cinéma pauvre, politique et populaire,

http://cinemadocumentaire.wordpress.com/2013/02/06/eloge-dun-cinema-pauvre- politique-et-populaire-avec-jean-louis-comolli/

66 Id., Vedere e potere, cit., p. 206. 67 M. J. Mondzain, Images…, cit., p. 285.

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dubbio, in quanto articolato alla verità dell’iscrizione, è sempre già indotto dalla credenza, dubbio e credenza si combattono e si rilanciano in un movimento sincrono e questa altalena definisce la posizione dello spettatore come posizione incerta, mobile, critica»68, che si costruisce

nello scarto, nella rottura del reale che sfugge alle finzioni totalizzanti e totalitarie.

Trascurando l’aleatorietà e la costruzione/messa in scena operante nel documentario, lo spettatore «s’immagina e si pone come colui che sa, che ha il diritto di sapere, che gode sia di questo diritto sia di tutte le possibilità di realizzarlo»69. Questa “perversione”, posizione di padronanza

insostenibile, è stata imposta dall’assimilazione del documentario al regno dell’informazione televisiva, che riduce lo spettatore a consumatore, raggirandolo con l’illusione del controllo.

Alla credenza subentra la credulità, alla conoscenza un finto sapere che orienta le scelte, le opinioni, i movimenti dello spettatore. Il diritto di sapere è un finto diritto, pallido riflesso di una conoscenza utile, superbo cumulo di dati che seppellisce la capacità di pensare e agire. Non esiste nessuna obiettività di sguardi o informazioni, «la requête d’objectivité est une manipulation» dell’informazione; nel cinema «les faits passent toujours par des récits. Récits par définition subjectifs, dubitatifs, suspensifs. Tout le contraire de la prétendue « objectivité » qui sert de masque aux organes de propagande»70.

Il gesto del filmare è mettere in dubbio o in crisi ciò che si filma, e per prima cosa la “positività” rivendicata dal cinema grazie ai “poteri dell’impressione di realtà”, questione che si complica nel documentario, che non solo dovrebbe essere il fedele testimone del mondo esistente, ma

68 Id., Vedere…, cit, p. 91. 69 Ibidem.

70 J. L. Comolli, Suspens et désirs,

http://cinemadocumentaire.wordpress.com/2011/01/20/suspens-et-desirs-par-jean- louis-comolli/

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deve rendere questo mondo «il referente principale, che testimoni a sua volta l’autenticità del suo riflesso, della sua conformità»71. Positività della

trasparenza e della disponibilità del mondo a lasciarsi filmare che è un inganno: Comolli è più incline a scorgere nel gesto cinematografico una «negatività feroce», dove filmare è sinonimo di sottrarre, eliminare dalla realtà ciò che non appare nel film, spingere a dubitare di ciò che è nel film come di ciò che non c’è, un atto di separazione del mondo attraverso il film.

Accettare ciecamente le informazioni trasmesse dai media come resoconto fedele e trasparente di ciò che è avvenuto, significa disconoscere e lasciarsi abbagliare dall’obiettività, pass partout ideologico che autentifica il mondo. Ma il cinema è soggettivo, e così il cinema documentario: riscrive il mondo dal punta di vista di un soggetto. A un cinema di finzione orientato pesantemente verso il controllo programmatico, verso la gestione poliziesca dell’imprevisto, il cinema documentario oppone il confronto con una realtà che non può dominare, sostituendo all’impossibilità della sceneggiatura quando si filmano corpi reali nel mondo reale, la necessità del documentario. Dalle mille difficoltà di approcciare una materia resistente e restia il documentario trae linfa vitale, aprendosi alle sperimentazioni.

il cinema nella sua versione documentaria riporta il reale come ciò che, una volta filmato, non è affatto filmabile, eccesso o carenza, straripamento o contenimento – cavità o bordi che d’un tratto ci sono date da sentire, sperimentare, pensare. Sentire ciò che del mondo ancora ci supera. I racconti non ancora scritti, le finzioni non ancora consunte72.

Il documentario ha l’obbligo di creare, proprio perché la sua aspirazione a lasciarsi sconvolgere e coinvolgere dal non dato, dall’improvviso e dall’imprevisto, non può ridurre il mondo a un già dato,

71 Id., Vedere…, cit., p. 37. 72 Ivi, p. 96.

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ma inventare sempre nuove forme, dispositivi fragili e aleatori che si lasciano travolgere dall’irruzione dell’inedito.

La questione del corpo è il punto nevralgico che distingue la finzione dal documentario, al quale è chiesta «una coerenza, una pertinenza, un’identificazione del corpo, del soggetto, della sua parola e del suo ruolo»73. In questo, il cinema documentario è il vero vampiro, poiché

pretende il corpo reale, non il corpo dell’attore che recita un testo già pronto.

In qualsiasi rappresentazione lo sguardo non è solo quello dell’uomo sul mondo, ma anche lo sguardo del mondo sull’uomo: il cinema, allora, «non può che mostrarci il mondo come sguardo», dimensione riflessiva insita nello sguardo che fa sì che «l’io-spettatore-che-vedo diventa io-vedo-che-

sono-spettatore»74.