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Una nuova etica dello sguardo: direct cinema e cinéma vérité

La fine degli anni Cinquanta rappresenta un punto di svolta nella pratica documentaria; una serie di innovazioni tecnologiche – camere leggere, registratori portatili – permettono un ripensamento della pratica filmica, slegando la produzione dal rigido apparato industriale e inaugurando una vivace stagione di sperimentazione visiva e sonora. Vertov è il nume tutelare delle nuove pratiche documentarie che furoreggiano nel secondo dopoguerra. Ivens continua a precipitarsi indefessamente in tutti i luoghi che reclamano un’immagine autentica; Grierson prosegue la sua attività di instancabile animatore in Canada con un’enorme quanto imprevista ascendenza sulle cinematografie del terzo mondo, specie in America Latina, e sulle nuove pratiche documentarie. Proprio dalla costola francofona del National Film Board del Canada, fondato e diretto da Grierson dal 1939 al 1945, fiorirà la primavera del

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La necessità, più volte invocata da Grierson, Ivens, Vertov, di uscire dai teatri e immergersi nella vita acquista una dimensione drammatica con la fine della seconda guerra mondiale, promossa dal neorealismo e affermatasi con forza grazie alle nuove possibilità tecniche. Il documentario diventa «un luogo privilegiato di apprendimento della crisi della rappresentazione del mondo»147. Infatti, cambia radicalmente non

solo il rapporto tra uomo e mondo, ma anche il rapporto tra cinema e uomo. A circa cinquant’anni dalla nascita, il cinema è ora abbastanza adulto da riflettere su stesso e accogliere il documentario come forma, luogo privilegiato di riflessione teorica e audacia creativa. Potente mezzo per stanare le rappresentazioni del potere, è proprio da un rivolgimento della pratica cinematografica che potrebbe affermarsi un nuovo mondo fondato sul sentire comune. Le diverse forme che popolano il panorama documentario «mostrano la capacità di muoversi “insieme” ai corpi, alle situazioni, alle vite che vengono filmate»148.

Sarebbe fuorviante esaltare però il ruolo della tecnica a scapito di una nuova filosofia, di un approccio rinnovato alla realtà che travolge il cinema, spargendo una polvere documentaria su tutte le pratiche filmiche. La tragedia della guerra, i nascenti movimenti antagonisti e le guerre di liberazione che imperversano nel terzo mondo costringono a un corpo a corpo con il reale, che trova nel perfezionamento tecnico l’occasione di sperimentare nuove modalità di osservare la realtà. Il cinema diretto non è solo una tecnica ma un «modo di pensare, un’ideologia»149, un percorso

nel mondo che cerca, attraverso l’immersione nella realtà, di stabilire un contatto diretto con l’uomo.

147 J. Breschand, Il documentario…, cit., p. 24.

148 D. Dottorini, Il principio di incertezza. Il cinema e il desiderio di reale, “Duellanti” n. 56

(ottobre 2009), pp. 74-77, p. 76.

149 G. Rondolino, Storia del cinema, vol. III Dalla “Nouvelle Vague” a oggi, UTET, TORINO

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Lo sviluppo del free cinema in Inghilterra, il cinéma direct in Canada, il direct cinema Stati Uniti, e il cinéma vérité in Francia, aderiscono a una serie di premesse che ogni movimento svilupperà in forme specifiche, spesso divergenti o in aperta contrapposizione. L’esigenza di fondo è compenetrare la realtà, interrogare la superficie opaca del reale sfuggendo alle patinate immagini dei mezzi di comunicazione di massa e delle spente cinematografie nazionali, stabilire un contatto umano profondo. Si diffonde un potente impulso documentario che mostrerà una decisa fisionomia politica, precisandosi come movimento indipendente tanto dal circuito cinematografico quanto da quello televisivo. L’accusa alla rappresentazione convenzionale, incarnata dal cinema hollywoodiano, ormai padrone dell’immaginario mondiale, prosegue il cammino aperto dalle avanguardie, sognando e lottando per un cinema che può essere se stesso solo abbandonando la messa in scena in nome di un contatto immediato con la vita. Così, osserva acutamente Comolli, si rende omaggio al «culto esclusivo e senza cedimenti del visibile, che appare in tutta la sua purezza con l’abbandono degli artifici teatrali e letterari»150. Ma, come

emerso nel capitolo precedente, non esiste alcuna verità assoluta o immediatezza dell’immagine; l’immagine è sempre il risultato di una scelta, di una presa di posizione che iscrive il soggetto nell’immagine stessa. Il visibile stesso non si dà se non «”preso” in uno sguardo […] sempre già inquadrato»151. La messa in scena prevarica i confini

cinematografici essendo ovunque «là dove le regole sociali congegnano il posto, il comportamento e […] la “forma” dei soggetti nelle diverse configurazioni in cui sono “presi”». Se il mondo è il risultato di un partage, la rappresentazione ne riprodurrà lo schema, tentando di generare consenso o dissenso. La discriminante è proprio questa: «parole, soggetto,

150 J. L. Comolli, Tecnica e ideologia, cit., p. 108. 151Ibidem.

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attori, mise en scène o no, non si può filmare che la relazione (mutevole, storica, determinata) degli uomini e delle cose con il visibile, non si possono filmare che dispositivi di rappresentazione»152. Il gesto di filmare

acquista allora una particolare pregnanza etica quando interroga la posizione dello spettatore e del cineasta, cercando di far saltare la convenzionalità della rappresentazione denunciandola in quanto tale. Le forme che nascono nel dopoguerra condividono questa consapevolezza, ma seguiranno strategie differenti di denuncia, sbilanciando il discorso o su una totale abolizione della messa in scena – come nel caso del direct

cinema – o inglobando tecniche riflessive che non negano il carattere

costruito del film, ma assumono la costruzione e l’esibizione del processo filmico come punto di partenza per interrogare il mondo.

Lo sguardo e la presa di posizione diventa una questione morale e di onestà, via via problematizzata, discussa, criticata, decostruita, in uno spossante e vitale détournement.

Michael Chanan evidenzia il legame tra le diverse pratiche affermatesi tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, unite dalla volontà di un progetto comune e avide di realtà:

the group [il Free cinema] were staking their claim to being part of a continent-wide renovation of cinema in which, alongside the impulse of italian neorealism, the documentary return to immediate reality was widely considered a first small but necessary step.153

Movimento eterogeneo dalla robusta verve iconoclasta, il Free

cinema è legato alla generazione di scrittori degli Angry Young Men e alla New Left; la rabbia è il sentimento che unisce gli esponenti del movimento,

tra i quali ricordiamo Karel Reisz, Lindsay Anderson, John Schlesinger e Tony Richardson. Rabbia contro il sistema britannico e il grigio

152Ibidem.

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conformismo, dai metodi educativi a quelli produttivi di un’industria cinematografica sclerotizzata e reazionaria, prigioniera di schemi anemici. Questi registi hanno anticipato una serie d’idee e soluzioni stilistiche che esploderanno nella pratica documentaria nel giro di pochi anni, soprattutto un audace e personale uso del suono, lontano da una resa fedele e sincrona, strumento in più per il “trattamento creativo della realtà” secondo una visione decisamente personale. La libertà è quella dello sguardo che guarda il mondo da un’ottica personalissima e libera dagli umori dell’industria e dai dettami della propaganda, posandosi su aspetti variegati della vita, con un certo disinteresse verso la tecnica. Uno slogan a effetto che rivela il malcontento di una generazione. Nel manifesto che accompagna il primo programma di proiezione del Free Cinema, Reisz e Anderson illustrano le coordinate del movimento:

Questi film sono liberi nel senso che le loro asserzioni sono del tutto personali. Anche se i loro umori e i loro soggetti sono diversi, ognuno di essi è interessato a qualche aspetto della vita, com'è vissuta, oggi, in questo paese. Un jazz club nell'area settentrionale di Londra; la strada principale della zona portuale dell'East End; un parco di divertimenti in un luogo di villeggiatura della costa meridionale… Queste ambientazioni possono essere apparse prima nel cinema britannico. Ma qui c'è lo sforzo di vederle e sentirle in maniera nuova, con amore o con rabbia, ma mai freddamente, asetticamente, convenzionalmente. In realtà, gli autori di questi film li propongono come una sfida all'ortodossia.154

L’estetica free è connotata dallo stile nervoso e a scatti del montaggio, spesso disegnato su partiture jazzistiche e propenso agli spazi aperti. Immagini sporche, in b/n, rifiuto o limitazione della voice over, commenti stringati, resa impressionistica del suono e del montaggio, rottura della continuità narrativa. Mostrano una capacità notevole di farsi carico e portare alla luce il disagio sotterraneo e la rabbia serpeggiante nella società, bisognosa di un ritorno a valori collettivi. Rispetto al

154 E. Martini (a cura di), Free cinema e dintorni: nuovo cinema inglese, 1956-1968, EDT,

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documentario griersoniano, il Free cinema si avvicina al mondo con un originale equilibrio di sentimento e realismo, una rara capacità di sprofondare nella realtà senza enfasi didattica, facendone esplodere l’amara poesia e la vitalità delle classi popolari. Jack Ellis definisce questi autori «implicitly revolutionary»155, animati da un «anarchic, nihilistic,

iconoclastic air».

L’estetica del movimento è sintetizzata dallo stesso Anderson «an attitude means a style. A style means an attitude»156. La stringata frase

significa che ogni film non è costruito secondo un piano prestabilito, ma la camera si lascia trasportare nella vita seguendone i ritmi, le atmosfere e i suoni. La predilezione per spazi pubblici nasce da questa osmosi tra vita e cinema, traducendosi in uno stile violento, dal ritmo frenetico, vitalistico, con una preferenza per immagini sporche e spesso sottoesposte, da cui trapela la pesantezza materica della vita della classe operaia britannica, soggetto preferito dal Free cinema. La differenza macroscopica rispetto alla scuola documentaria britannica fiorita con Grierson è l’interesse verso la classe operaia fuori dalle fabbriche. Elemento che conferma l’attenzione a una dimensione individuale e intima dell’uomo, poetica, ma connessa con la realtà e con l’impegno del cineasta, che reclama totale libertà di espressione e di sguardo: «no film can be too personal» ammonisce Anderson, rivendicando la necessità di un impegno del cineasta come artista e come commentatore sociale.

Il Free cinema fu un movimento «estraneo a una analisi aggressiva, classista» che trovò «la propria forma nell’inchiesta in una realtà quotidiana»157. Il Free cinema appare un movimento dalla debole

fisionomia politica, destinato a disciogliersi nei rivoli del cinema

155 J. Ellis, B. MacLane, A new history…, cit., p. 201.

156 Citato in Dave Sanders, Documentary, Routledge, Oxon 2010, p. 59.

157G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Le «Nouvelles Vagues» e i loro sviluppi, Storia del cinema,

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commerciale, ma documentari come O Dreamland (1953, Anderson),

Momma don’t allow (1955, Reisz e Richardson), o ancora Every day except Christmas (1957) di Anderson e We are the Lambeth boys (1958, Reisz), Terminus (1961, Schlesinger) portano sugli schermi aspetti della vita

londinese, soprattutto della vita operaia dei quartieri popolari, ignorati dal cinema, sia di finzione sia documentario, e quindi dalla società britannica. Il valore politico di queste opere è implicito nel gesto di filmare luoghi e persone finora escluse dalla rappresentazione, con un rigore mai visto e un coinvolgimento dello spettatore inusuale, allontanandosi dalla pura osservazione.

La parabola del Free cinema si esaurisce nell’arco di tre anni ma segnerà una rinascita del cinema britannico – parallela alle nuove onde che travolgono le cine-spiaggie di tutto il mondo – e una propizia influenza a livello internazionale, inaugurando una stagione di vivace sperimentazione e dispute teoriche sullo sguardo da portare sul mondo. Il

Free cinema rinnova le modalità osservative del documentario, favorendo

lo sviluppo di estetiche destinate a provocare giudizi contrastanti.

Verso la fine degli anni Cinquanta serpeggiano malumori e contestazioni che sfoceranno nella grande stagione politica del Sessantotto, anni di ira e di utopia, come li definirà, lontano dalle piazze francesi, il regista cileno Miguel Littin. La rivolta è palpabile in tutti i settori della vita pubblica, dalle fabbriche alle università, dall’Oriente all’Occidente; l’ultimo movimento realmente corale e collettivo, portavoce del dissenso generalizzato e di una fervida disobbedienza civile colpisce al cuore l’impero cinematografico, squadernando i processi produttivi, i metodi di osservazione, le gerarchie. Come già accadde negli anni Trenta, il documentario è all’avanguardia della rivoluzione, presentandosi energicamente come forma di opposizione e dissidenza con spiccati tratti internazionalisti. Il nemico da battere è sempre Hollywood, cui si unisce

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nel dopoguerra il ruolo sempre più forte della televisione, nuovissimo mezzo di penetrazione ideologica e culturale.

Proprio il crescente interesse verso la pratica documentaria attestato tra le due guerre con Vertov, Ivens e Grierson, esorta un nutrito gruppo di autori, avvantaggiati dalle possibilità offerte dalle camere leggere e dai registratori portatili, a un nuovo paradigma di osservazione della realtà. I movimenti del direct cinema e del cinéma vérité nascono nell’alveo di un’unica congiuntura politica, estetica e tecnologica. Pur presentando una genealogia analoga e alcune affinità, – tanto che le due forme saranno spesso sovrapposte e i rispettivi nomi di battesimo usati indifferentemente per riferirsi all’uno o all’altro – esistono caratteristiche che ne determinano la specificità.

Stephen Mamber definisce il cinema vérité «a method of filming employing hand-held cameras and live, synchronous sound» in cui è essenziale «the use of real people in undirected situations»158. L’etichetta “cinéma vérité” è

applicabile a tutti quei film “uncontrolled”. È una definizione insufficiente che enfatizza il ruolo della tecnica, che, sebbene fondamentale, agisce come una sorta di catalizzatore di una nuova filosofia di guardare il mondo e realizzare film, instaurare un legame diverso tra filmante e filmato, promuovere uno “stare con” preludio al “voir ensemble”.

Negli Stati Uniti e in Canada le simultanee pratiche favorite dal nuovo metodo di ripresa portate avanti da Robert Drew, Richard Leacock, D. A. Pennebaker, Albert e David Maysles, Frederick Wiseman, e da Perrault, Brault e Groulx, preferiscono la locuzione direct cinema o cinéma direct, evidenziando l’abolizione di qualsiasi barriera tra il cineasta e la realtà filmata e una partecipazione a bassa intensità o addirittura impercettibile del cineasta all’evento filmato.

158 S. Mamber, Cinema Verité in America. Studies in uncontrolled documentary, MIT Press,

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Il nuovo credo documentario si costruisce su quattro assiomi: autenticità, realtà, verità, rifiuto di alterare la realtà, ma le due proposte perseguono obiettivi diversi, riducibili a due modalità di osservazione159 opposte. Nel

caso del direct cinema si afferma infatti un’osservazione distaccata, il più fedele possibile alla realtà, che vieta qualsiasi intromissione del cineasta e manipolazione del materiale filmato; nel cinéma vérité si porta avanti una dimensione osservativa basata sulla partecipazione, dove è anzi la presenza del cineasta a creare e dirigere la situazione, a provocare la realtà. Due etiche dello sguardo che puntano l’una a osservare la realtà così com’è, l’altra così come è provocata dall’atto del filmare. Da una parte l’osservazione s’identifica con la garanzia di autenticità e obiettività, sulla base che la realtà filmata può mostrare una superiore verità (valutazione che costerà molti attacchi al direct cinema), dall’altra l’idea che solo attraverso l’atto filmico si possa permeare una dimensione veridica: una verità cinematografica, come voleva Vertov. L’occhio meccanico è capace di scavare nella superficie del reale e svelare una verità più profonda, invisibile a occhio nudo, può provocare reazioni emotive nei partecipanti e porsi come strumento terapeutico.

Barsam pone l’accento sulla dirompente carica di rinnovamento portata da questi nuovi approcci che per la prima volta assumono una rilevanza internazionale, facendo del documentario un linguaggio mondiale; direct cinema e cinéma vérité «evolved more from an aesthetic than social, political or moral concerns […] were cinematically, if not politically, radical, represented both a break with tradition and a

159Bill Nichols differenzia le due modalità, associando il direct cinema a un’osservazione

vera e propria, e il cinéma vérité a una modalità interattiva. Un’osservazione “fredda” contro un’osservazione partecipante. Naturalmente, non si tratta di una ferrea partizione.

Supra, pp. 76-78. Henry Breitrose differenzia le “intensità” di osservazione definendo il direct cinema come fly on the wall (secondo l’espressione di Leacock), e il cinéma vérité

come «fly on the soup… visible for all to notice», H. Breitrose, The structure and functions of

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unification of various American and European non fiction film traditions»160.

Il successo e la rapida affermazione dei due movimenti, secondo l’analisi dello studioso americano, risiede da un lato nell’abilità di «reaffirming two theoretical aspects of the non fiction film: that the genre contained within itself limitless possibilities for cinematic expression and that all good non fiction films take their shape from their subject matter»161, dall’altro la

determinazione – propria di alcune pratiche dell’avanguardia, Vertov in

primis – «to awaken filmmakers and audiences alike to a new way of

revealing and recording life as it is»162. Cerchiamo di seguire da vicino la

genesi del cinema diretto, iniziando il viaggio dal National Film Board del Canada, sezione francese distaccata a Montreal163, culla della rinascita

documentaria – è lo stesso Jean Rouch che ascrive la paternità del cinéma

vérité a Brault164, operatore di Chronique d’un été, che ha già realizzato Les

Raquetteurs (1958) con Gilles Groulx e La lutte (1961) con Claude Jutra,

inventore di una nuova modalità di fare le riprese. Brault sviluppa l’estetica della camminata, le riprese con la camera a spalla che – unita alla predilezione per la luce naturale e l’uso dell’obiettivo grandangolare, la centratura sulla figura umana a scapito dell’ambiente –, donano sinuosità e autenticità alle immagini. Dunque Michel Brault è uno dei protagonisti del rinnovamento documentario; operatore e regista, artefice del nuovo stile diretto, attivo nel perfezionamento della tecnica capace di garantire la registrazione di immagine e suono sincrono con macchine leggere, così da snellire la troupe. Attività che gli valse la chiamata di Rouch per le riprese

160 R. M. Barsam, Nonfiction film: a critical history, Indiana University Press, Bloomington

1992, p. 300.

161Ibidem. 162Ivi, p. 301.

163Cfr. Yves Lever, Le cinéma de la Révolution tranquille de Panoramique à Valérie, Edition

Yves Lever-Cégep Ahuntsic, Montréal 1991.

164Cfr. Eric Rohmer, Louis Marcorelles, Entretien avec Jean Rouch, “Cahiers du Cinéma” n.

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di Chronique d’un été. La conquista della sincronizzazione di suono e immagine permette finalmente di dare la parola alla gente ordinaria, non più soggetti parlati ma parlanti. L’ostacolo al NFB è, secondo Brault, la massiccia presenza di letterati incaricati di scrivere i dialoghi dei documentari: come colmare lo scollamento tra un discorso borghese e la presenza della vita reale sullo schermo? È paradossale ascoltare i membri di piccoli paesi, pescatori, operai e gente comune esprimersi con un linguaggio borghese, artificioso, letterario; «donner la parole aux gens»165

è un gesto politicamente denso, implica il rifiuto della messa in scena e della sceneggiatura per abbandonarsi all’imprevisto, a una fondamentale incertezza che dona alle immagini il respiro della vita e diffonde il sentimento «d’être suspendu au désir de l’autre»166. Quando Brault

comincia la sua attività è animato dall’entusiasmo della scoperta cinematografica di un paese – il Canada – in fase di rinnovamento e rivolta, entusiasmo che desidera condividere con gli altri, partendo da una ferma integrità morale, disposto a mostrare tutto allo spettatore senza nulla nascondere: «Or on s'est aperçu que deux attitudes sont capitales : le fait de cadrer et le montage font qu'au cinéma la vérité n'existe pas. Parler de "cinéma vérité" c'était une mauvaise démarche née de la grande admiration que Jean Rouch avait pour Dziga Vertov»167. La verità al

cinema non esiste: perciò Brault preferisce parlare di cinema diretto, in un modo differente dai colleghi americani. La neutralità pura è un’illusione, ma ciò non significa aprire il campo alla manipolazione, perché è l’etica del documentario a dettare un atteggiamento morale onesto e sincero che non

165M. Brault, Le premier homme qui a marché avec une caméra, “L’actualité du pab“,

jan/fév/mar 2005, p. 17.

166 J. L. Comolli, Suspens et désirs, cit.

167 M. Brault, L'imaginaire est plus réel que le réel, s.p.; testo disponibile al link

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permette falsificazione, a meno di non pretendere che il montaggio sia in sé un atto falsificante.

Les Raquetteurs è il film manifesto che getta le basi del cinéma direct: un reportage su una gara di racchette da neve si trasforma in

qualcosa di nuovo, fresco, mostrando per la prima volta cosa può la pratica dell’osservazione partecipante, la camera estremamente mobile al passo della vita, la parola autentica della gente comune, il rumore e il vociare indistinti dell’ordinario e dello straordinario quotidiano, con un’attenzione e una cura rispettosa e amorevole verso ogni gesto. Frutto dell’emancipazione dalla tradizione documentaria dell’ONF inaugurata da Grierson e influenzata dall’esperienza del Candid Eye della sezione