Le oscillazioni tra vedere/credere/sapere e non vedere/non credere/non sapere strutturano la relazione dello spettatore con il film, decretando un regime di incertezza – percettiva, cognitiva e affettiva – che traghetta verso la conoscenza: il cinema forma e riforma lo spettatore confrontandolo con i suoi limiti. L’apprendimento cinematografico è dato dalla sperimentazione dei limiti dello sguardo e dell’ascolto.
Ma c’è qualcosa di più, perché è proprio il posto assegnato allo spettatore a decidere della qualità politica del film e dell’eticità dello sguardo del cineasta.
Se negli anni Settanta si affermava senza ironia che ogni film fosse politico è perché il dibattito che travagliava i “Cahiers du cinéma” e Serge
73 Ivi, p. 117.
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Daney riteneva «indiscutibile che ogni film iscrivesse un “punto di vista”»75, posizione dalla quale si vede, si ascolta e si filma. E poiché «non
si vede (né si filma) impunemente»76, «nel modo in cui ogni dispositivo
filmico la sistema, la posizione dello spettatore sarà – allo stesso modo dei carrelli – una questione di morale»77.
Ogni “posto da spettatore” (cinema, teatro, schermi tv o monitor computer, ma anche centri commerciali, tribunali e luna park) sollecita lo sguardo e l’ascolto, ma ognuno di questi sistemi «obbliga il corpo spettatore a una relazione definita e singolare rispetto alla configurazione spazio-tempo che attiva»78. Lo spettatore di cinema occupa una posizione caratterizzata
da una doppia costrizione: immobilità del corpo e “contenimento del campo visivo”. Posizione che è sempre quella «di chi sa che è lì per vedere, che metterà in gioco dello sguardo e gli sarà reso dello sguardo»79.
Posizione scomoda, ovviamente…
Comolli pone un’equazione tra sguardo, relazione e posizione dello spettatore nella rappresentazione. Relazione tra uno sguardo umano e una macchina, con quello che fa la macchina di uno sguardo umano.
La differenza tra ciò che il cineasta vede e ciò che è filmato si chiama cinema: bisogna filmare per vedere, ha detto Godard, e ripete Comolli, aggiungendo che il visibile e lo sguardo non esistono come un già dato, ma si costruiscono. La registrazione è sempre «una traduzione del mondo dell’esperienza sensibile nel linguaggio di una macchina» per cui «ogni cosa filmata passa per un setaccio di spazio, tempo e misura che la trasforma»80. La cinegenia è la modalità propria della macchina da presa di
appropriarsi e trasformare, in modo deludente o esaltante, ogni cosa, volto 75 Ivi, p. 218. 76 Ivi, p. 17-18. 77 Ivi, p. 236. 78 Ivi, p. 63. 79 Ivi, p. 67. 80 Ivi, pp. 167-168.
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o corpo che riprende. La nuova dimensione acquisita da questo volto, corpo o cosa, è la confessione che c’è stato uno sguardo su di esse: «il cinema iscrive in ciò che filma l’idea, il codice, l’aura dello sguardo. Sguardo che deve essere un po’ meno umano (la macchina) perché io possa vederlo, perché sia notato. Passando per il cinema, il mondo diventa sguardo sul mondo. Mondo come sguardo»81.
Vertov, e con lui alcune esperienze dell’avanguardia e dell’ondata del cinema puro, direct e vérité, come vedremo nel prossimo capitolo, pur nelle loro diversità scommettono sul cinema come macchina destinata a smascherare le astuzie dell’arte, a cogliere il visibile nel suo offrirsi all’occhio meccanico in tutta la sua purezza e verginità, ma, afferma Comolli, «non esiste “visibile” se non “preso” in uno sguardo»82. Il visibile è
già inquadrato, messo in scena nelle rappresentazioni del potere e delle istituzioni: come quando Rancière discorre sui vari partage e sulla assegnazione dei posti, e affermando quindi che «non si può filmare che la relazione (mutevole, storica, determinata) degli uomini e delle cose con il visibile, non si possono filmare che dispositivi di rappresentazione»83.
Nella misura in cui il cinema riesce a creare scarti, dissensi, fratture nella rappresentazione dominante, sfidando il monopolio della messa in scena della realtà, allora esso si pone pienamente come atto politico, artefice di un processo di emancipazione dello spettatore. Non è una semplice e banale questione di forme cinematografiche:
le contraire d’une mise en scène n’est pas le direct sauvage mais une autre mise en scène. Le contraire du direct n’est pas la mise en scène mais un autre direct. Autres en ceci qu’ils impliquent une nouvelle perception, une nouvelle position (spatiale, morale, politique) du filmeur face à ce qu’il filme.84
81 Ivi, p. 168.
82 J. L. Comolli, Tecnica e Ideologia, Pratiche, Parma 1982, p. 108. 83 Ibidem.
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Com’è possibile garantire un posto allo spettatore che non sia di costrizione, addottrinamento e anestetizzazione? Contro la tattica odierna, che forgia individui calibrati e mansueti attraverso immagini univoche, disattivate dall’immissione in un canale mediatizzato85, lo spettatore di
cinema deve essere scosso in qualità di soggetto in crisi, volubile e preda del dubbio (e del desiderio), e ciò è possibile solo se l’immagine conserva quella
polivalenza […] che autorizza e forma l’esercizio di uno sguardo di spettatore, implicato in ciò che vede, interprete in tutta soggettività di ciò che non si dà per compiuto, imballato, pesato, ma che nella sospensione degli indizi referenziali che necessariamente compie ogni immagine, si apre, lo trascina, lo fa avanzare senza guida86.
Rancière affronta la questione dell’emancipazione dello spettatore da un’altra prospettiva. Per prima cosa, secondo il filosofo francese, sarebbe necessario azzerare il pregiudizio che fa del guardare una posizione passiva, affidando al parlare tutte le meraviglie dell’attività. L’opposizione vedere/sapere, attività/passività, apparenza/realtà appartengono a una partizione del sensibile fondata sull’ineguaglianza. Dalla critica di Guy Debord allo spettacolo ai tentativi per abolire lo spettacolo e la rappresentazione, cercando di coniugare Brecht e Artaud, fino ai gesti “estremisti” degli happening, l’obiettivo era riscattare lo spettatore trasformandolo in attore, mentre secondo Rancière una timida possibilità di effettiva emancipazione può avviarsi solo se si riconosce e accetta la
85 Cfr. M. J. Mondzain, L’image…, cit., p. 45; Georges Didi-Huberman condivide la stessa
prospettiva: «La mediatización es el instrumento más poderoso para destruir las imágenes, para desactivarlas. Para ahogarlas. Es normalmente el instrumento por el que nos llegan y ese instrumento está en manos de, digamos, del capital, ese instrumento que nos impide mirar las imágenes, es la televisión, la prensa, que nos las muestra ya muertas, pasadas por agua», Pedro G. Romero, Un conocimiento por el (des)montaje. Entrevista con
Georges Didi-Huberman, in “Archivo F. X.”, n. 2 (2009), pp. 65-76, p. 73.
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positività dell’atto spettatoriale, ossia se si restituisce dignità al vedere. I germogli dell’emancipazione fioriscono solo quando si scompaginano le frontiere della partizione del sensibile: è qui il punto di tangenza con Mondzain e Comolli: le frontiere si abbattono (si spostano) quando ci si rifiuta di stare al proprio posto.
L’efficacia dell’arte, infatti, non consiste nella portata etica e politica del messaggio, ma nel dispositivo rappresentativo, nella disposizione dei corpi che opera un «découpage d’espaces et de temps singuliers qui définissent des manières d’être ensemble ou séparés, en face de ou au milieu de, dedans ou dehors, proches ou distants»87.
Quando le immagini contribuiscono a disegnare nuove configurazioni del visibile, del dicibile e del pensabile, allora si dimostrano efficaci, aprendo nuovi scenari per il possibile. Non abbiamo bisogno di nuove immagini, ma di un nuovo sguardo, e di uno spettatore disponibile a rischiare il suo posto e il suo sguardo entrando in relazione con un altro sguardo. Il cinema, che ha aperto la strada alla visibilità generalizzata, è oggi il luogo di rifugio e la speranza di sopravvivenza del visibile e dell’atto di vedere. Perché il cinema ci rammenta che la possibilità del visibile è proprio l’invisibile, distrugge le false certezze della possibilità di poter vedere (e quindi controllare) tutto. Il cinema fa sperimentare allo spettatore «i limiti stessi del potere di vedere, del vedere come potere, […] come, in ogni epoca, sguardo e potere hanno sempre fatto lega e che la posizione di padrone del vedere è sicuramente anche quella della cecità più perfetta»88.
87 J. Rancière, Le spectateur émancipé, La Fabrique, Paris 2008, p. 61. 88 J. L. Comolli, Vedere…, cit, p. 17.
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1.5 Gesto d’immagine e atto di parola: l’invenzione del popolo e la