L’atteggiamento documentario di Ivens si nutre di stimoli e sensazioni differenti tanto da Grierson quanto da Vertov, pur presentando analogie e affinità con entrambi.
Il progetto documentario è lontano da una missione pedagogica e propagandistica, sbilanciata favorevolmente verso una consapevolezza estetica, politica e ideologica, che illumina il passaggio dall’idea alla resa formale dell’opera. La formazione squisitamente cinematografica e d’avanguardia, le sperimentazioni dei primi anni formano Ivens e la sua idea di cinema in modo completamente diverso da Grierson, che arriva al cinema incidentalmente e se ne serve come un mezzo per ottenere un fine.
106 D. Vertov, Tre canti su Lenin e il Kinoglaz, pp. 171-174, p. 174. Corsivo dell’autore. 107 Id., L’amore per l’uomo vivo, p. 189.
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L’idea di voir ensemble di Ivens prende forma nel suo viaggiare da un paese a un altro, mossa da un’urgenza etica di fissare le immagini mostrando i processi di liberazione dei popoli, lo sfruttamento dei lavoratori, le dure condizioni di vita nelle colonie. La costante tematica della sua opera è l’uomo nelle varie sfumature di tensione e conflittualità con l’ambiente naturale, sociale e industriale. Temi principali di Ivens sono, infatti, il lavoro, il rapporto uomo natura, non di tipo romantico/rousseiano alla Flaherty, ma in dialettica di conflitto e tensione; le lotte per la libertà, la pace, l’indipendenza, la dignità lavorativa, rivoluzioni, guerre che imperversano nei cinque continenti.
Virgilio Tosi, nella prefazione all’autobiografia di Ivens, riassume efficacemente la poetica del regista olandese:
il suo cinema ideale è un ventaglio che va dal realismo sociale al realismo lirico per esprimere e rappresentare, secondo le situazioni e i momenti storici, i problemi dell’uomo, del suo lavoro, del suo rapporto con la natura, della sua aspirazione (ed eventualmente delle sue lotte) per una vita libera, per l’indipendenza, per la giustizia sociale.108
Rispetto alle prime opere, volte più ad acquisire padronanza della tecnica cinematografica che all’esplorazione del reale, Ivens realizzerà nella fase apertamente militante un formidabile connubio tra critica ideologica, documentazione storica e ricerca estetica. Sintetizzando, si potrebbe affermare che una morale si traduce in stile. Quando il regista olandese dichiara che «un regista deve essere indignato e scandalizzato dalle condizioni disumane, prima di poter trovare la giusta inquadratura con cui riprendere la sporcizia e la verità»109 sta criticando l’estetizzazione della
povertà e la ricerca dell’effetto sensazionale. La consonanza di sentimento, indignazione, rabbia e solidarietà deve tradursi direttamente in una forma
108 V. Tosi, Presentazione, in J. Ivens, Io-cinema, autobiografia di un cineasta, Longanesi,
Milano 1979, pp. III-LVI, p. LII.
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artistica: l’imperativo di evitare inquadrature belle durante la lavorazione di Borinage (1933) era ispirato dalla volontà di non distrarre lo spettatore dalla tragedia dei minatori attraverso la contemplazione estetica. Ivens voleva superare lo stato di denuncia, facendo un film «battagliero, provocatorio»110, che potesse innervare lo spirito con sentimenti di
ingiustizia e rabbia, provocando azioni concrete.
A modificare il suo atteggiamento verso il cinema è proprio il contatto umano, diretto, con i minatori del Borinage. Il coinvolgimento nei fatti, il moto di indignazione e solidarietà fa “vergognare” Ivens di aver solo potuto pensare di riuscire ad entrare nell’area, registrare i fatti e comporre un film realistico. L’impegno con i minatori altera così la pratica filmica e le caratteristiche formali dell’opera, passando da un’ideale forma osservativa a un documentario riflessivo, che ricorre alla messa in scena di eventi già accaduti per produrre il suo effetto di denuncia e scuotimento dello spettatore.
L’ossessione di Ivens annuncia la coesione di uno sguardo attento e solidale e una forma artistica dotata della giusta energia. Ogni opera è così una scoperta degli elementi cinematografici e una ricerca di diverse concatenazioni di forma e contenuto, un arricchimento dell’arsenale artistico da impiegare contro le forze dell’oppressione.
Marceline Loridan, collaboratrice di Ivens, chiarisce il metodo di lavoro adottato, Il “piano di attacco” come preferiva definirlo il regista. Nei viaggi in giro per il mondo lo stile di volta in volta variava in base alle condizioni di lavoro e gli obiettivi politici, lasciando che fosse la specificità della situazione a stabilire il tipo di estetica che avrebbe informato il lavoro. Ivens ha una certezza: «non si fa un film per gli uomini, ma con gli
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uomini»111. La dimensione partecipativa e solidale è un impegno morale,
una responsabilità sociale dell’arte cinematografica
Hay que estar ligados estrechamente con los hombres que luchan por la libertad, por la independencia y sentir realmente con ellos todas sus penas,
toda su fuerza, todas sus aspiraciones y toda su alegría; tratar de estar unido a todo esto, de descubrir los elementos que para estos hombres son normales y ordinarios y valorizarlos en su significado político extraordinario,
que está en la dirección del futuro.
Se trata de participar activamente en los acontecimientos. Hacer revivir los
hechos y las luchas del hombre moderno. Esto implica la responsabilidad social de nuestro arte. No somos solamente artistas o especialistas, sino hombres conscientes que toman parte en el desarrollo histórico de su propio país y de su propio pueblo.112
Ivens, anticipando quel sentimento di urgenza che ispirerà l’infaticabile Santiago Álvarez, elegge patria l’umanità, portando il suo sguardo in giro per i continenti. Ogni viaggio è una scoperta umana e artistica, ogni documentario richiede una forma specifica, in sintonia con il popolo che ne è protagonista e partecipe. Lo stile di Ivens si costruisce sui campi di battaglia: «la unica manera de elaborar un plan de ataque es entrar verdaderamente y compartir la vida de la gente lo más posible»113.
Così, con Spanish Earth (1937) Ivens scopre i livelli di lavoro del montaggio, «il semplice ordinamento visivo del materiale […]dove la continuità si basa sulla diretta percezione visiva di immagine in immagine» ottenendo «l’impressione ottica dell’avvenimento come complesso unitario»114. Al secondo livello subentra un effetto psicologico
ed emotivo, superando la percezione ottica. Nel passaggio al terzo livello «l’obiettivo emozionale diventa opinione [...] personale, sociale e politica
111 J. Ivens, Io-cinema..., cit., p. 182.
112Id., El cine según Joris Ivens, Revista “Cine Cubano on-line”, n. 1 (2005), Dossier
Documental, Corsivi dell’autore.
http://www.cubacine.cult.cu/sitios/revistacinecubano/digital01/no1.htm
113 M. Loridan, Recordando a Joris Ivens: Marceline Loridan conversa con documentalistas
mexicano, in Armando Casas (a cura di) Documental, Cuadernos de Estudios
cinematograficos n. 8 (2006), Unam México, p. 12.
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del regista. Lo si può definire un montaggio che guida lo spettatore a formarsi un’idea, di fase in fase, attraverso le sue emozioni»115.
Approfondire quest’ultimo livello, sperimentando il gioco tra suono e immagine, era un lavoro diretto «dal desiderio di approfondire i rapporti fra gli oggetti reali, e di mostrare che cosa succede sotto la superficie»116.
La scelta di non appesantire con i commenti affidava alla forza visiva il ruolo di guida dello spettatore nel percorso del film senza neutralizzare il giudizio critico e il trasporto emotivo. Ivens adotta spesso soluzioni di straniamento, inserendo didascalie, cartelli, lavorando sul rapporto suono/immagine, produce una pausa nel flusso della visione, costringendo lo spettatore a sostituire il processo di identificazione con un lavoro intellettuale.
L’elemento emotivo è il catalizzatore del pensiero dello spettatore. La consonanza di sentimento prodotta dalla visione stimola un senso di appartenenza all’umanità. L’aderenza al mondo trasmette all’immagine la sua energia, che dall’immagine passa allo spettatore con una rinnovata carica umana.
Realizzato per sensibilizzare il governo Roosevelt e l’opinione pubblica alla causa della giovane Repubblica spagnola, Spanish Earth è un’opera centrale nell’evoluzione e precisazione del documentario come forma militante e rivoluzionaria; rappresenta
the convergence of two basic traditions of radical filmmaking in the West, of which Ivens was the standard-bearer throughout his sixty-year career. It is the definite model for the “international solidarity” genre, in which militants from the First and Second worlds have used film to champion each new front of revolutionary armed struggle. It is also the model for the more
115 Ibidem. 116Ivi, p. 96.
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utopian genre in which the construction of each new revolutionary society, as it emerges, is celebrate and offered as inspirations.117
Il valore di Spanish valica però la portata militante, testando una serie di soluzioni estetiche definite proprio dall’urgenza politica che ne dettò la realizzazione. L’ibridazione di diverse forme filmiche, il ricorso alla messa in scena e la necessità di stabilire una linea narrativa mirano a potenziare gli effetti del documentario, facendo lavorare in sinergia riprese documentarie e sequenze ricostruite o inventate. Strategia idonea a superare l’impersonalità dei cinegiornali e lasciare emergere il coinvolgimento del cineasta nel dramma della guerra civile. La restituzione dei semplici fatti, senza l’atmosfera emotiva che ne suggerisse il peso e l’impatto sugli uomini, non era sufficiente a caldeggiare la solidarietà alla popolazione spagnola, e spronare la presa di posizione attraverso l’emozione, che potesse avere un effetto concreto nella realtà. Per questo la costruzione del documentario integrava sequenze ricostruite, senza che ne inficiasse l’autenticità, anzi, sottolineando la natura dello sguardo del regista e toccando le corde emotive dello spettatore. Ivens aveva già sperimentato questa soluzione in Borinage, quando iniziava ad avvertire che la restituzione dei fatti fosse insufficiente senza la «registrazione di una situazione emotiva»118. Ivens ha un
approccio molto personale e soggettivo alla forma documentaria, che lo porterà a concludere che l’oggettività è una vera idiozia, troppo spesso piegata a confondere le acque e sovrapposta al valore dell’autenticità. L’essenza del cinema militante è proprio quella di prendere posizione e renderla evidente attraverso il lavoro formale, testimonianza non solo dell’avvenimento ma della presenza di uno sguardo che gli dà forma: «El
117T. Waugh, Men cannot act before the camera in the presence of the death. Joris Ivens’s
The Spanish Earth, in B. K. Grant, J. Sloniowski, (eds.), Documenting…, cit., p. 136-153, pp.,
p. 136.
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documental no es solo una serie de filmaciones “de la realidad”. Es la realidad organizada en forma artística y dramática, con la finalidad de decir la verdad»119. La questione della verità è allora la verità e onestà
dello sguardo del cineasta; il documentario, lontano da ogni pretesa di anemica trasparenza del reale, è sempre «una traduzione del mondo dell’esperienza sensibile nel linguaggio di una macchina»120. Traduzione
che riscrive il mondo «dal punto di vista di un soggetto»121. Tralasciare il
carico di soggettività insito in ogni atto di creazione artistica è fuorviante e riduttivo, limita il gesto artistico in un banale esercizio mimetico che disattiva e depotenzia l’irrompente valore politico dell’immagine. Il gesto d’immagine è una messa in scena/messa in dubbio che «materializza corpo e simbolizza sguardo, cioè prima di tutto relazione»122. L’occhio non
è un mediatore invisibile tra l’immagine e il mondo.
Ivens è tra i primi registi a concepire l’atto filmico come relazione, dialogo tra le persone coinvolte, circolo solidario di sguardi che condividono le stesse sofferenze, pene, speranze, lotte. La condivisione di credenze e valori presuppone un movimento comune e un coinvolgimento che non può non essere soggettivo e di parte.
A quanti obiettavano il partitismo di Spanish, Ivens faceva notare che in guerra non si può cambiare fronte, pena la morte o la prigionia: «un documentarista […] deve prendere una posizione precisa, se vuole che il suo lavoro abbia valore drammatico, emotivo e artistico»123.
Questa convinzione di Ivens acquisterà forza nel secondo dopoguerra, riducendo uno degli elementi di differenziazione tra il documentario e la finzione e aprendo una serrata e animata riflessione su realtà e rappresentazione, ideologia e tecnica. Questo rovente passaggio, che
119Id., El cine…, cit.
120 J. L. Comolli, Vedere e potere, cit., p. 167. 121 Ivi, p. 93. Corsivo dell’autore.
122 Ivi, p. 180.
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intercetta gli umori di teorici e cineasti sulla scia delle trasformazioni tecniche e le implicazioni politiche e ideologiche della pratica cinematografica, è indagato in un paragrafo successivo.
Ivens, presagendo l’impasse celata nel termine “documentario”, si dichiara sorpreso di constatare come per molti documentario sia sinonimo di obiettività, confondendo documento e documentario. Quest’ultimo sarebbe più come le prove presentate a un processo, da cui non si aspetta obiettività, ma solo che siano «una presentazione soggettiva, veritiera e onesta del testimone tale da poter essere giurata sulla Bibbia»124. Il
problema dell’oggettività è stato sempre unito con il valore di verità dell’immagine, tralasciando che ogni immagine, anche per il semplice e solo motivo di essere mostrata, non risponde mai a una neutralità dello sguardo, ma anzi è frutto di una precisa intenzione. La verità o autenticità è da cercare nello sguardo posato sul mondo:
la cámara no puede ser neutra, objetiva en el sentido banal del término: existe siempre el punto de vista de quien está atrás; pero no debe nunca violar el hecho, la realidad. La cámara no debe ni violar ni limitarse a ser un
voyeur. Lo que se necesita es un profundo respeto hacia los demás.125
Il regista olandese, che collauda i limiti del documentario a ogni opera, avverte l’esigenza di schierarsi senza ambiguità con la lotta che sostiene di film in film, chiarendo insieme alla posizione politica anche quella estetica
la ricostruzione introduce un elemento molto soggettivo e personale nella realizzazione di film documentari: l’onestà del regista, la sua comprensione, il suo approccio alla realtà, la sua volontà di dire la verità sostanziale sul tema, la coscienza della responsabilità verso il pubblico. In quanto artista, egli crea una nuova realtà che può influenzare il modo di pensare degli spettatori e spingerli ad agire secondo la verità del suo film. Nessuna definizione del documentario è completa se non include questi fattori «soggettivi»126.
124 Ibidem
125Id., El cine…, cit., s.p. Corsivi dell’autore. 126Id., Io-cinema..., cit., p. 57.
117
La polemica sulla correttezza o meno di inserire sequenze ricostruite di avvenimenti accaduti o inventati coinvolge due posizioni nettamente distinte e tenaci. Ivens ne è coinvolto durante la realizzazione di Komsomol (1932) quando le difficili condizioni di lavoro lo spinsero senza esitazioni alla messa in scena di avvenimenti altrimenti infilmabili ma altamente significativi per il messaggio del film. Nel contesto dove sorsero queste discussioni, in Unione Sovietica, i sostenitori del Kinoglaz rifiutavano questa opzione, perché un documentario «dovrebbe riprendere solo gli oggetti che si trovano davanti alla macchina da presa, che ne è testimone»127; mentre altri ritenevano corretto e utile ricostruire
avvenimenti accaduti «se utili ad approfondire le dimensioni contenutistiche del film»128.
Ivens dissente da Vertov, per lui
la differenza fra l’opinione che l’avvenimento possa determinare il film, e il tentativo di filmare un avvenimento con la massima forza espressiva, è la stessa differenza che corre fra un documentario tradizionale (rappresentato oggi dal cinegiornale) e la nuova forma di documentario, concepita in modo più aperto.129
La ricostruzione degli avvenimenti è rischiosa, proporzionalmente alla distanza dai luoghi e le persone interessate. Quindi, un’ottima soluzione, capace di ammortizzare i rischi, è quella di mettere in scena i fatti dove avvennero e con le persone che vi presero parte. Così si conserva «la sensazione dell’autenticità», l’arma più importante del documentario unita alla singolare forza di persuasione di questa forma cinematografica.
Il documentarista olandese dimostra una rara coerenza nei lunghi anni di attività cinematografica; rispetto a Grierson e Vertov non ha
127Ivi, p. 55. 128Ivi, p. 56. 129Ibidem.
118
dedicato tempo alla teorizzazione; probabilmente affidare alla carta una serie di prescrizioni contrastava con l’esigenza di vivere a contatto con gli uomini, respirare insieme e combattere le stesse lotte. Joris Ivens ha comunque definito le linee del cinema militante e ispirato il lavoro di molti cineasti in tutto il mondo. Come vedremo nel prossimo capitolo la sua presenza in America Latina, in Cile e a Cuba particolarmente, è stata decisiva per la formazione di una schiera di giovani cineasti entusiasti. A Cuba, dove il regista trascorre un periodo come invitato dell’ICAIC nel 1960130, il lavoro con gli apprendisti lascerà tracce vivissime nel
movimiento cubano de cine documental. Santiago Álvarez, il cui stile è un
vertiginoso mix di Vertov, Ivens, e molti altri autori, presenta tre affinità sostanziali con l’olandese: il sentimento dell’urgenza, la necessità di immergersi nella lotta con il popolo (la vivencia), l’impulso a testimoniare le lotte in ogni parte di mondo.
L’urgenza, fulcro del cinema militante, diventa cifra di un montaggio frenetico e della ricerca di qualsiasi elemento del linguaggio cinematografico capace di coinvolgere lo spettatore. Il tempo è un fattore decisivo per un film militante: l’urgenza di mostrare gli eventi prima che perdano il valore politico porta a trascurare gli aspetti formali, sostiene Ivens, in questo sorpassato da Álvarez, che avvezzo al lavoro per il
Noticiero ICAIC Latinoamericano, dimostrerà una insuperata capacità di
piegare i materiali a una straordinaria forza inventiva. La necessità della “vivencia”dell’evento deriva da un dato caratteriale; Ivens sceglie la forma documentaria perché gli permette di «stare con la gente, condividere le difficoltà e i momenti felici della loro vita quotidiana» che equivale a un
130 Cfr. M. Chanan, Cuban Cinema, University of Minnesota Press, Minneapolis - London,
2004; in particolare pp. 196-203. Ivens realizzerà due documentari con l’equipe cubana,
Carnet de viaje e Pueblo armado, entrambi nel 1961. Cfr. anche Thomas Waugh, Travel
Notebook. A People in Arms
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«contatto con le sorgenti della vita»131. Una dimensione partecipativa che
per Ivens è una qualità del documentario rispetto al film di finzione, soffocato dalla grande industria, dal lavoro con gli attori e dalla segregazione nei teatri di posa:
io insisto nel fare documentari, perché so che c’è unità fra ciò in cui credo e ciò che faccio. Se avessi la sensazione di aver perso questa unitarietà, cambierei mestiere. Un documentarista ha la sensazione di partecipare direttamente ai problemi essenziali del mondo: una sensazione che anche il regista più consapevole, lavorando in uno studio, può ottenere soltanto a fatica.132
Borinage, Spanish, Komsomol, i documentari realizzati in Cina e in Cile, in
Vietnam e a Cuba, prevedono una larga compartecipazione agli eventi, una presenza reale e drammatica, fianco a fianco degli uomini, un’immersione nella superficie della realtà che possa avere un «effetto impressivo»133:
anche giorni dopo la visione il film deve produrre un effetto ritardato, che possa far dialogare la vita quotidiana e le situazioni in cui ci si trova con quello che si è visto, producendo così un riferimento tra il film e la vita. Quest’ultimo punto sarà rielaborato da Álvarez in termini di permanencia.
Marceline Loridan ritiene che la lezione più preziosa del regista olandese sia «la observación intensiva, no pasiva, que nos permite extraer de la realidad la esencia misma, el momento esencial que nos permitirá transimitir al espectador, por ejemplo, la emoción del trabajo del hombre frente a la naturaleza»134. Un film, prima ancora di raggiungere la
perfezione artistica, «deve avere soprattutto la qualità, la forza di stimolare gli uomini a pensare al problema trattato nel film, deve
131 Joris Ivens citato in V. Tosi, Presentazione…, cit., p. XXVI. 132 J. Ivens, Io-cinema..., cit., p. 105.
133Ivi, p. 182.
120
costringerlo a prendere una posizione. La visione di un film dovrebbe diventare, se possibile, un’esperienza di vita»135.
L’etica dell’osservazione intensiva è la cifra poetica dell’intera opera di Ivens, che sintetizza la passione per l’uomo e l’atteggiamento verso la realtà nella splendida immagine dei tre occhi del cineasta militante: «un occhio guarda la realtà attraverso il mirino della cinepresa, mentre l’altro rimane spalancato su tutto quello che succede intorno alla piccola immagine racchiusa nell’inquadratura. Un terzo occhio, se così si può dire, deve essere rivolto al futuro»136.